A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Milano cresta lucente all’ora di colazione (note di lettura a L’ocra in punta di lingua, di Elisabetta Sancino, Ronzani/Lietocolle, 2023)
Di Betty Sancino mi è sempre piaciuta la voce e ho sempre amato il suo squillante accento lombardo, nella sua voce mi piace riconoscere la passione, la curiosità, la gioia di vivere, l’allegria, la leggerezza e insieme la profondità. Tutti elementi che ritrovo in questa sua nuova raccolta.
Mi chiedo: quando si raggiunge la maturità? Quella poetica intendo, non quella anagrafica, che non spetta ai veri poeti, ai quali va riconosciuta la furbizia di inchiodarsi a una proficua gioventù.
La maturità poetica si raggiunge quando vita e voce raggiungono una perfetta coincidenza? È una domanda, certezze poche, e tuttavia è un sospetto, potrebbe trattarsi di una significativa coincidenza. In questo libro incontriamo una voce che aderisce perfettamente alla vita dell’autrice, ne mostra le infinite sfumature, le distilla nei versi a volte con pacata parsimonia, con discreta ironia, a volte con la passione, l’intensità che l’accompagnano.
I versi di questo libro ci mostrano come sentire sulla propria pelle la pelle del mondo. Il libro si compone di due differenti capitoli, e in entrambi si stagliano sullo sfondo come protagonisti di rilievo la città di Milano e la scrittura.
Il titolo della prima sezione è Boudicca la rossa, ed è, come ci spiega Silvia Secco nella bella prefazione: “il nome proprio (proprio perché a lei dato come definizione) di una qualunque tra i senzanome: gente di strada, margine dei margini fra gli individui, senzacasa che si muovono, sostano, vivono e crepano tanto prossimi quanto remoti rispetto agli sguardi e alle mani nostre comuni, rispetto alla regola. Un nome particolarmente denso di significato, poiché evocatore della figura possente della guerriera Boudicca (Vittoria), la regina celtica che osò sfidare Roma, sposa di Prasutago, re della tribù degli Iceni, con cui ebbe due figlie, e vissuta tra il 33 e il 61 d. C.: un periodo che vide l’inizio della dominazione romana in Inghilterra e lo smembramento progressivo del sistema tribale”.
Non ci stupisce dunque l’insolita fierezza cha abita lo sguardo di Boudicca, che nonostante si dichiari sradicata afferma: – adesso mi chiamano Boudicca la rossa / e continuo / a giocare / da sola -.
Si dichiara inoltre divaricata e transitiva, e mi sono chiesto di che genere di divaricazione si tratti.
Qui da una parte uno sconfinato amore per Milano, la sua bellezza, – Milano cresta lucente / all’ora di colazione -, e oltre: – Milano mi è cresciuta in grembo / la guardo da madre / la annuso la riscatto dalle colpe -.
Dunque la città non solo come fondale del dolore e della marginalità, come luogo in cui trascinare il corpo, come sequenza di strade e situazioni diverse, elencate secondo un preciso ordine cronologico ed esistenziale, dallo scolo di via Valpetrosa ai sottopassaggi della metropolitana, le ringhiere fiorite nel buio e la stazione centrale, la biblioteca Sormani, la piazza Gae Aulenti, detta il Podio, Porta Ticinese e Porta Cicca, – Milano, mora di rovo e spina / nel mio costato -; ma anche Milano come specchio dello – stupore di sapermi al mondo -, come gioia di vivere, nonostante le tribolazioni, amore sconfinato per la vita: – è dannatamente bella la mia città / che non ho lasciato un solo istante / inchiodata a lei giorno e notte / come un cristo qualunque -.
L’altro aspetto di questa divaricazione è la marginalità: – il cielo me lo porto addosso / come voi indossate il disprezzo -; le persone che scivolano accanto come se fosse d’aria, nei volti della gente – l’abietto di questo mondo / e i suoi crimini -, barbona sciancata che nessuno guarda, a cui nessuno chiede se ha paura, quali siano i suoi trascorsi, i suoi sentimenti.
E tuttavia esiste la strada del riscatto, della felicità privata e segreta che afferra la collottola dell’alba seminando luce e parole, che induce a dichiarare: – ci sono cose che splendono -, ed è la scrittura: – sono solo un groviglio di vene / che si ostina a scrivere – e si proclama “felice quando scrivo”, e chiama i versi – mio malgrado cresciuti / come capelli impazziti -.
“Ingorda come i bambini alle feste / mangio le foglie e le parole cadute”. Viene il sospetto che Boudicca sia metafora del poeta, della marginalità sociale cui è confinato, della sua irrilevanza, a fronte della quale la scrittura viene agitata come un’arma, un meccanismo di vendetta, e comunque di fiera rivalsa.
La seconda sezione è quella che offre il titolo alla raccolta, qui i panorami cambiano, entriamo – con le scarpe allacciate nelle case / ingombre di pentole piena la bocca / di parole taciute -, in un mondo di tastiere e padelle, un universo borghese in cui muoversi – nel solito monotono andirivieni / tra letto e cucina -.
Permane qui lo spirito del pomeriggio della tigre, titolo di una precedente raccolta di Elisabetta, la rivolta contro la noia, la monotonia, l’insoddisfazione: “A quest’ora del giorno / posate gli stracci / guardate le nubi in corsa”, uno spirito di ribellione che porta ad abbracciare il vento.
Rimane anche lo spirito della precedente raccolta, Collezione privata, con i suoi cromatismi e i racconti che prendono vita a partire da grandi opere pittoriche; anche in questa sezione protagonista e non semplice comparsa è la città: – Milano con la sua coda d’onice / sopra Corso Magenta / e braci all’orizzonte – e ancora: – la pioggia / su Milano è la stessa / lieve dei pomeriggi in cortile -.
Anche in questa sezione la scrittura funge da ambizione di riscatto, furia creativa da contrapporre a ipermercati e superstrade, “così vive l’uomo addomesticato”, l’autrice esorta: “Usa parole di rondini in volo / e vento”, e confessa: “mi piace la grammatica della terra / che somiglia tanto a quella / che a scuola non s’impara mai”. Per giungere a questo significativo grido:
…sempre scrivendo sempre
tutto il midollo della mente ho riversato
su carta riciclata con l’unto che colava
dal mio corpo ridicolo
la sciagura più grande è rinchiudersi
al buio e non scriverlo.
In questa raccolta, come nelle precedenti, si avverte l’influsso di certa poesia anglosassone che fa del pragmatismo la sua bandiera. Inoltre sospetto che chi, come Betty, ha dimestichezza con la lingua inglese, tenda a velocizzare, a semplificare, a ridurre alla precisa essenza sia il sistema della comunicazione, sia l’impulso creativo.
Alla pura funzionalità è piegata anche la dimensione del verso, soggetta a un’elasticità destinata a evidenziare l’intensità del sentimento, a modularlo in maniera emblematica, a rimarcare una delle funzioni precipue della poesia, quella di spingere la vita oltre la morte, come magistralmente viene espresso in questi versi: – ho solo quest’ocra in punta di lingua / mi basta / per giocare allo stupido gioco delle parole / tenere un po’ a bada la morte -.
Siamo nel cuore morbido di una prigione dove contemplo il mio cuore, scrive l’autrice, e nonostante costretti tra interni di stracci e di padelle ed esterni di superstrade e supermercati, “viviamo in uno stupore d’erbe” e ancora: “da tanta bellezza qualcosa ha da imparare / questo mondo a brandelli”.
LINGUA
È con questa lingua imbrattata di sottopassaggi
e binari arroventati, tolta dalla bocca dei vù cumprà
è con la lingua stridula dell’ora di punta
la lingua scrosciante della scolaresca
che mi lava come una pioggia gentile
è con la bocca aperta alla luce
al sasso al sapore del mondo
che intono il mio canto
mi faccio largo a volte piango
° ° ° °
FAME
Scongelo bistecche e patate
poi immergo i polsi nell’acqua tiepida
e guardo fuori
immaginando la cintura dorata del grano
i favi fiottanti dai tronchi
delle robinie in fiore.
Una fame imprevista sgronda su di me
e mi fa saltare
nel sole
° ° ° °
ESIGO SOLO STUPORE
Milano con la sua coda d’onice
sopra Corso Magenta
e braci all’orizzonte
oltre i comignoli che soffiano
lievi spirali di fumo
l’ultimo giorno dell’anno.
Per me esigo solo stupore
nel duro lavoro del giorno
che porta a un altro giorno
° ° ° °
L’OCRA IN PUNTA DI LINGUA
Non sono vetusta e non pontifico nel buio
perciò non mi direte saggia
a furia di star seduta scomposta ho spesso la sciatica
d’inverno non esco a gambe nude
con gli stivali a metà coscia
e il vestitino leggero che nemmeno in agosto
nemmeno nemmeno perché a quest’età
non faccio assolutamente nulla che serva
a convincermi che valgo qualcosa
nel bene e nel male
nella buona e nella cattiva sorte
ho solo quest’ocra in punta di lingua
mi basta
per giocare allo stupido gioco delle parole
tenere un po’ a bada la morte
Elisabetta Sancino, nata e residente in provincia di Milano, è laureata in Lingue e Letterature Moderne e lavora come docente di lingua e letteratura inglese e guida turistica autorizzata. Ha pubblicato tre raccolte di poesia, Frammenti viola, 96, Rue de-La-Fontaine Edizioni, 2016, Il pomeriggio della tigre, Terra d’ulivi, 2018 (terzo premio concorso Don Luigi di Liegro 2019) e Collezione privata, Puntoacapo Editrice, 2021 (primo premio concorso internazionale Michelangelo Buonarroti 2021, premio della giuria Concorso internazionale Lord Byron 2021). I suoi testi sono presenti in antologie, siti, blog e riviste letterarie e sono stati premiati in numerosi concorsi nazionali.
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