Risonanze di Massimo Parolini | In quel cuneo di visione: le scritture del disastro in “MCM” (Oèdipus, 2021) di Francesco Terracciano 

 

 

 

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  “Il mondo è nell’uomo insieme alla sua storia e alla sua preistoria; in lui è il labirinto, in lui è la sfinge che lo interroga” (Ernst Jünger, “Al muro del tempo”). L’introclusione di Vanina Zaccaria, nella sua ricchezza e generosità esegetica, ci permette, filo d’ Arianna, di entrare nel labirinto (e in fronte alla sfinge ermeneutica) dell’ultima silloge di Francesco Terracciano: “MCM”. Una raccolta densa, omogenea, un racconto in versi di esistenze alla deriva, distratte dal negativo, naufraghi nella “bava della storia”. E “MCM” può indicare, certo, anche il secolo breve delle degenerazioni dell’umanità, quel 1900 che ha portato l’uomo sull’orlo dell’autodistruzione di sé e del pianeta intero (come paventato nel finale sveviano della coscienza di un certo Zeno Cosini). Ma “MCM” è inizialmente per l’autore l’acronimo delle Manifatture Cotoniere Meridionali, grandi apparati industriali nel territorio di Poggioreale dove lo sguardo dei ragazzini protagonisti nella narrazione lasciava, sbirciandovi, andare la propria immaginazione e tensione vitalistica votata alla meraviglia e al desiderio (La fabbrica è al centro/ con gli isolati e i reparti, una nuca/ di dio qualunque). E “MCM” racconta, in senso diacronico inverso, le miserabili sorti regressive di un’umanità dolente e sconfitta, nella propria tensione verso il male, a partire dalle conclusioni, per retrocedere (quale un anghelos benjaminiano a rebours, in una moviola) da resti, cocci, avanzi frutto delle scelte sbagliate, al momento stesso, vitalistico, di tale scelta, all’ infanzia dello stupore che precede la scelta tenendo nel pugno chiuso l’infinità delle possibilità e l’avvenire vago in mente. Un Canzoniere dell’ultimo dono, lo definisce Zaccaria, in completamento dialettico con il dittico delle due raccolte precedenti (“Mistica del quotidiano”, “Limite del vero”) definite Canzonieri del sacrificio e del perdono (o dell’ultimo amore). Il filo che lega il trittico viene ravvisato nello scontro dialettico fra natura (ferma, gravida, cosa in sé, fondo non sondabile) e storia, quale fenomeno, limite, spazio dell’intersoggettività e della relazione con i margini dell’ oggetto, costruzione artificiale imprescindibile per l’uomo, luogo del proprio limitarsi ed essere limitato e limitante, luogo di dispersione entropica nello spazio residuale. E la ricerca del vero, ricorda sempre Zaccaria, si riferisce al vero storico, costruito da noi umani, quale costruzione di senso e giudizio di valore sul senso stesso. L’umanità dolente di Terracciano ha il profilo dei ragazzi di strada pasoliniani, delle periferie urbane ed analgesiche: di questi condivide il vitalismo, l’eros del sì illimitato alla vita ed al rischio, la scelta del vizio (Come una cosa semplice quel male), del negativo, la fuga da qualche varco, la perdizione, la sconfitta, la deriva-disastro nei luoghi della rovina (tutto è abbandonato). E come i personaggi di strada pasoliniani, i soggetti raccontati e condivisi dell’autore sono legati al misticismo di un quotidiano primitivo ed arcaico che si corrompe col processo inarrestabile dell’industrializzazione, dell’asfaltatura compulsiva, della produzione in serie, del consumismo che consuma anime e vite. Terracciano le coglie, nella propria testimonianza che filma e conserva, incidendo epigrafi senza scalpelli, affinché nessuna croce manchi: quella immensa realtà industriale (MCM) sguardata dai buchi dai ragazzini, è divenuta un grande cimitero della memoria (Sparsi a terra/ ancora cartellini, fogli scritti./ Sui muri gli orologi fermi.) dove, grazie ai versi mesti, si offre una corrispondenza d’amorosi sensi all’urna dei deboli, dei dimenticati, perché l’urbanistica cambia ma il cuore del poeta conserva (Si entra e si esce da dove vogliamo), e ricorda quei cigni che da piccoli sognavano di evadere dai serragli della loro condizione familiare, di classe, sociale e tendevano il collo verso l’alto, trovando però solo qualche pozzanghera sporca dove annaspare anziché laghi d’acque limpide e fresche. Attraverso cinque sezioni si snoda quindi una scrittura del disastro a rebours, con una soluzione backmasking (tecnica della registrazione delle note musicali al contrario, già scoperta da Edison, rilanciata dai Beatles nel 1966 a partire dalla canzone Rain, nell’album Revolver).  E in questo misericordioso scorrere al contrario delle storie di vita, il poeta espone un fallimento, un’assenza, un abbandono, attraverso un coro fantasmatico di riflessi sporchi imbrigliati come insetti nella ragnatela metrica che memore degli eliotiani Cori da “La Rocca” sembra chiedersi attonito: “Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo”?

Perché, come scrive sempre Zaccaria, queste anime perse sono “colte nell’atto di mancare la consegna della vita” e per distinguerle dal resto rimane solo un nome di battesimo, “un’identità appena accennata” che è misura della pietas del poeta testimone, perché la memoria, fatta verso, è un atto di misericordia che “chiama a raccolta” un’umanità residuale. E questo, ci sembra, sia una delle funzioni fondamentali della poesia, nella propria funzione sia lirica che civile: Tenere lo sguardo/ restare sulle cose ancora un poco poiché Qualsiasi cosa dura in questa luce, nel bagliore di una giusta poesia.

 

Ha intatta ancora la speranza/ che i giorni possano staccarsi, andare/ come l’intonaco sfaldato ai muri.

[…]

Come sapeva cadere la luce/ quasi una cosa viva tra i balconi

[…]

Il tempo/ tiene le mani in tasca e ha quella faccia/ seria che non ti scopre, se gli parli. Tu stavi nelle cose, neanche a dirlo.

[…]

C’è qualche cosa, ci vuole parlare/ in confidenza, Le leve e i sedili,/ l’ombra degli uomini intorno ai banconi/ che ancora girano. Voci sottili.

 


 

La gioia di rivederle, dopo, in volo - Francesco Terraciano

Foto di Dino Ignani

Francesco Terraccia­no è nato a Napoli, dove vive e lavora, nel 1967. Collabora con riviste letterarie e partecipa a progetti editoriali, rassegne e seminari; è redattore per il trimestrale di cultura internazionale “Menabò” e condirettore di “Inverso-giornale di poesia”. Ha pubblicato “Mistica del quotidiano” (Terra d’Ulivi Edizioni, 2018), “Limite del vero” (La Vita Felice Edizioni, 2019) -selezionato al Premio Pagliarani del 2019- e i recenti “MCM” (Oèdipus Edizioni, 2021) ed “Eserciziario di formule brevi” (Ensemble Ed. 2022). Suoi testi sono stati tradotti in lingua romena e pubblicati sulla rivista di cultura poetica “Poezia” e nell’antologia “Mers pe sub cer” -20 poeti italiani d’oggi- presentata alla Fiera del Libro di Bucarest (2019), e in lingua spagnola per riviste di settore. In lingua inglese, i suoi lavori sono stati presentati in manifestazioni patrocinate dalla Dante Alighieri di Copenhagen (2018).