A tentoni nel buio di Paolo Polvani | La scrittura che mi salva: note di lettura a Partiture di pelle, di Mattia Cattaneo (Architetti delle parole edizioni)
Ad alcuni piace la poesia, scrive la W. S., e subito aggiunge: cioè non a tutti, e prosegue sottolineando: e neppure alla maggioranza, ma alla minoranza. E immagino, ma potrei sbagliare, che questa minoranza si presenti estremamente variegata, ad alcuni piace la poesia con molti riferimenti alla vita quotidiana, si vogliono vedere le sedie della cucina, un tavolo, le finestre riscuotono grande successo, specialmente quelle illuminate, il pane, le cose da mangiare, forse anche i vestiti, ad altri invece piace la poesia attraversata dagli animali, dalle vicende della natura, alberi che stormiscono, acque che fluiscono; e poi ci sono quelli a cui piacciono le città, di notte, ma anche i mercati riscuotono grandi apprezzamenti, e la musica, e le persone con nomi propri ben definiti, e l’amore, quello che è finito male, ma ci sono anche quelli che vogliono vederci grandi punti interrogativi, domande e nessuna certezza, allusioni, sottintesi, parentesi, rimandi. Perché ognuno dalla poesia prende quelle vitamine che gli mancano, quelle suggestioni che sopperiscono alle mancanze e alimentano l’immaginazione.
Mattia Cattaneo sceglie la strada aerea dove la memoria sostiene il fuoco della combustione e una buona dose di allusività percorre l’intera sua raccolta dal titolo Partiture di pelle. Viaggiare nei suoi versi significa sentirsi sospesi nell’aria, ondeggiare come su un ponte tibetano e avvertire tutte le emozioni e le vertigini che la sospensione nel vuoto può regalare. Il suo cammino concede scarsi appigli a dati certi del reale, non vi troveremo oggetti di uso quotidiano, parole legate alla esperienza del vivere comune. La sua poesia si nutre di una rete di rimandi a luoghi e situazioni che non hanno una precisa connotazione temporale, se non in un passato indefinito: “spalanco le porte della casa materna per appoggiarvi la fronte”; una fugace apparizione fa il mare, come anche veloce è il richiamo di un fiume, luoghi d’acqua carichi di simboli prenatali; e poi aranceti e campi di grano, sostenuti da una poetica notazione: è così semplice il grano; e infine una loggia silenziosa, ripercorsa nella memoria “alla ricerca di chi sono”.
Pur essendo un autore molto giovane, è esiguo il prezzo che paga a certe inevitabili acerbità, alcune (rare per la verità!) ingenuità espressive che costituiscono peccati venialissimi e anzi sottolineano una buona dose di maturità nel dettato sempre controllato ed efficace: “cieli alcolizzati che fanno l’amore a sera”, e anche quell’”apocalittico grido funesto”.
Il primo dato da cui partire in un libro di poesie è sempre il titolo: Partiture, recita il vocabolario, è un complesso di pentagrammi posti l’uno sotto l’altro, su ciascuno dei quali è scritta la parte che una voce o strumento deve eseguire simultaneamente agli altri in un brano non solistico. Altra interpretazione, ma più rara, indica un possibile significato nella spartizione, nella separazione, per esempio, suggerisce sempre il vocabolario, nella divisione del grano tra padrone e affittuario.
Questa seconda ipotesi spalanca interessanti suggestioni, perché nei versi di Mattia si attua una spartizione all’interno del procedimento poetico, da una parte i versi che parlano di una separazione (nei confronti della madre?), da un’altra una sorta di procedimento inverso, un tentativo di ricucitura attraverso la poesia.
Va sottolineato, a riprova dell’allusività, che la parola madre non compare mai nel corso della lettura, se non nella dedica iniziale, prima che i versi prendano l’avvio. È nella prefazione, firmata da Maria Concetta Giorgi, che apprendiamo: “Il corpo di una madre che soffre, è il pane quotidiano spezzato, la forma d’amore per eccellenza che si dona. Per dare significato alla sofferenza, Mattia Cattaneo cerca la sacralità dentro a una tristezza che turba e destabilizza. Il dolore personale, umano, si spande all’interno di un dolore più grande, così pervasivo, che riguarda tutti”.
E qui ci sostiene un testo molto intenso e molto bello, che rimanda all’”oltre”, quel fuori testo, fuori pagina che molte volte assume il ruolo di vero protagonista:
la poesia si spoglia
del suo esserci segno,
afflitta scrittura,
nuova misura,
linguaggio liquido
un’assenza che si beve
in cerca dell’impossibile,
e qualcuno
singhiozza.
E tuttavia, pur nell’impossibilità di un ritorno, è attraverso la poesia che emerge quell’assenza che si beve e che fa dire: vorrei vivere / nel mio viso accanto/ al tuo / e dimenticarmi / di che colore è la tristezza.
Nel lessico ritornano “parola”, “scrittura”, spesso associate alla luce del ricordo:
rivendicata nei silenzi
abitata di memoria
questa parola
in cui partorire
immagini
Il silenzio come confine naturale della parola poetica, come spazio che genera la parola e la riassorbe, spazio bianco che celebra quell’oltre abitato di memoria, e più avanti: nella terra dei morti / i sigilli del silenzio /sono tessere di filigrana/ ho preso il tuo nome / per scrivere questo mio vagabondare; e nella poesia successiva ecco comparire “la scrittura che mi salva”, il solo appiglio in grado di disarticolare quei sigilli del silenzio che evidenziano la scomparsa, l’assenza, e ridare vita, partorire quelle immagini che restituiscono il movimento a chi abita ormai quello spazio invisibile agli occhi e così vicino allo spazio bianco della pagina, e tutto avviene nel movimento magico di “prendere il nome”, è questo nome che conferisce senso al vagabondare del poeta: “conosco il varco che ti riporta a me”.
La versificazione stringata, ridotta all’essenziale, evidenzia ed esaspera il campo bianco del silenzio, lo spazio dell’assenza che cerca l’impossibile, e rimanda all’intermittenza del singhiozzo, a un’idea di disperazione.
grido
sotto il mio nome,
mi vesto
nel tempo di un fiato
e corico
i giorni
che mi aspettano
assieme al silenzio
parlami di quelle stanze
dipinte a mano
dove il vento
mi porta
l’urgenza della rugiada,
io,
ancora,
combatto con queste parole
*
sfioro
la violenta pianura
d’aranci che trattiene
la tua bocca,
questo cadere all’indietro
mi grida forte
con le tue labbra bianche
se tieni la mano
questa pioggia sarà
solo figlia di un corridoio spezzato,
io che parlo di poesia
e la cerco come un segugio,
una bestia da stanare
un petalo immaturo da crescere.
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