Osservatorio Poetico di Sonia Caporossi | Marthia Carrozzo

 

L’ora di Idrusa – Seconda stanza
Martirio (o di come è scritto)

Di tutta luce, tu di nuovo, sì, di nuovo,
Di tutta luce tu, di nuovo tra i miei fianchi.
Di tutta luce quando è pelle che sancisce.
Sceglie la strada, tra le cosce, sceglie in mare.
Di tutta luce, tu di nuovo, sì, di nuovo,
Di tutta luce che si spacca, che mi spacca.
Di tutta luce quando è pelle, è lei che agisce.
Sceglie la strada, tra le cosce, impara il mare.
Di tutta luce tocca piano, tocca piano.
Schiudi le labbra, a brano a brano a liquefare.
Le dita fiere a rovistare il senso esatto
e delicate per lenire il mio secreto.
Allena i pori, sui miei pori a fare abisso.
Allerta i pori, premi l’acqua, premi ancora.
Allena i pori sui miei pori e sfrega forte.
Allerta il genio che ci ascolta e si fa mare.
Voglio le mani, le tue mani, ancora addosso.
Voglio le mani a fare albore a rischiarare.
Voglio le mani, sulle linee, le rivoglio.
La sete liquida che sale dai tuoi palmi.
Voglio la bocca, la tua bocca, sui miei occhi.
Voglio la bocca alle mie palpebre a svegliare.
Voglio la bocca, tra le ciglia, la rivoglio.
A rinfrancare la mia sete ad ogni morso.
La lingua sente, sa la china, mi sfinisce.
La lingua prima, prima ancora di parlare.
Schiocca la lingua, alla mia lingua
muovi il centro.
E lì nel centro non stancarti di cercare.
Sei brace azzurra, luce lattea che mi scalda.
Che fa ferita, che mi scuce e appresta a resa.
Sei la ferocia della pelle sulla pelle.
Il credo unico che sgrani tra i miei seni.
Voglio il tuo moto,
il moto molle tra i miei lombi.
Voglio il tuo moto, nel mio moto, a spalancare.
Voglio il tuo moto, alla mia antera, lo rivoglio,
a rinserrare una promessa di nitore.
Voglio il mio moto,
il moto chiaro tra i tuoi lombi.
Voglio il mio moto, nel tuo moto, a rifiorire.
Voglio il mio moto per offrirti la mia antera,
a dissertare tutto il vero ch’è nitore.
Tu stammi stretto, tieni forte le mie sponde.
Tu stammi dentro, sotto il derma, a consacrare.
Affiora e guardami trafitta, tra le ali.
Aprimi un varco sino al siero del tuo cuore.
Voglio nuotarti, respirarti in ogni anfratto,
Nutrirti in volo, farti leva sul saltare.
Tornirti madido e ferino alla mia pelvi.
Stringere il nodo che ci spinge fino a Dio.
Sarà il suo seme, com’è scritto, com’è scritto.
Sarà il suo seme, com’è scritto, che apre i polsi.
Sarà il suo seme nel mio cielo capovolto.
Sarà il suo seme nel mio cielo a germinare.
Sarai il suo seme, il mare espresso che si mostra.
Sarai il suo seme, che si mostra, esprime il mare.
Sarai il suo seme, il peso esatto della voce,
che chiede il nome,
freme pieno e già
deflagra.

*

L’ora di Idrusa – Terza stanza
Nell’ora nitida (“non mi lasciava mai la volontà di essere bella”)

Sarà di schiena. Percepirti tra le ali.
Starmene ferma per non ledere il respiro.
Sarò di schiena e ferma ferma a fare pioli
ai polpastrelli che risalgono la china.
Sarai alla schiena, a farti incastro tra i miei giorni,
stando lì fermo a rovesciarti fra i miei pori.
Sarò di schiena per seguirti, ma da cieca.
Sulla colonna a bere il braille del nostro assedio.
Mi farò arco a trattenerti tra i miei seni.
Mi farò creta per forgiarmi alla tua acqua.
Saprò aderire alla tua sete, nella bocca.
Sgualcita e fiera se mi afferri, se mi conti.
Mi farò sponda, tutta luce che si spacca.
Farai più luce, tornirai il mio nome, piano.
Riverserai, da poro a poro, nuova pelle.
Ti tatuerai facendo varco tra i miei lombi.
Sarà di schiena, per tastarti, farti abisso,
Saperti liquido negli occhi spesi al largo.
Farmi polena nella cala dei tuoi fianchi.
Prua alla tua pelvi, sporti entrambi sul salpare.
Delle tue mani, chiedo il dazio dell’odore,
di strattonarmi e riportarmi al corpo, intera.
Sulle mie linee, i tuoi sigilli, per sancire,
Schiudere il tatto, farmi nasse e vento e vela.
Tendi la resa, tra le vertebre a scalare.
Mostrami il fondo, il cielo cavo d’abbaini.
E tutti i grani, i grumi fitti del tuo cuore.
A farti siero, farti albore da succhiare.
Nell’ora nitida di un porto rovesciato
sarai rammaglio e una ferita aperta forte.
Mi coprirai del peso esatto del tuo peso,
per crocifiggermi e svelarmi in un tutt’uno.
Nell’ora incredula che affiora dal tuo sangue,
sarai di sale che mi resta e brilla addosso.
Mi bagnerai, dalle mie labbra, a farti umore.
Peso specifico del mare nell’amore.

*

Envoi dell’acqua che sa (o del faro di sé)

Per quella forza che fa faro anche distanti,
non mi perdo.
Per quella luce che davvero riconosco al corpo tuo,
tu qui mi vinci.
Per la saggezza trasparente della pelle,
seguo il sangue.
Per quell’amare delle membra che mi sfianca,
mi appartengo.

 

“Il corpo è la dimostrazione di come un’opera musicale – parliamo di musica, in questo caso, ma credo, in realtà, che questo vada a riguardare quasi tutto – possa, riprendendo il titolo in inciso a questo nostro camminamento comune, muovere e commuovere, andando a toccare in chi la ascolti quelle corde più sottili, quelle delle emozioni, appunto, intangibili e interiori, non senza essere percepita proprio fisicamente, guidando perciò chi vi assista a una consapevolezza quasi tangibile e più certa, che lo attraversa e, presto o tardi, lo muta.” Con queste parole Claudio Fabi, musicista e produttore musicale di primo piano nella scena italiana e internazionale, commenta nell’intervista interna al libro la natura trasversale dell’operazione che Marthia Carrozzo vuole compiere con la collana “Camminamenti” dell’editrice Kurumuny. Il corpo è, da sempre, il principale focus poetico della poetessa salentina, impegnata in una ricerca ritmico-materica sul verso che si fa plasma vivo e pulsante di carnacea tensione. In questa terza uscita della collana, la Trilogia di Idrusa, contenuta nel volume Di bellezza non si pecca, eppure (O del corpo che muove prima) (Kurumuny Edizioni 2022), rielabora un materiale testuale risalente al 2012 che Lello Voce, nella densa prefazione, definisce come “Un piccolo gioiello di poesia erotica, o anche un meraviglioso trattatello di tattiche per guerre sentimentali”, cadenza in tre movimenti che si sviluppa intorno al tema del corpo come “litania di lussuria e abbandono, di libertà e desiderio, una serenata al rischio e all’acrobazia, una melopea per ogni abbandono e per ciascuna ribellione” (Lello Voce). La struttura musicale della versificazione carrozziana è spesso divenuta mezzo d’espressione ideale della vasta mitografia greco-italica; qui, trova superbo compimento nella leggenda di Idrusa d’Otranto, giovane vissuta ai tempi dell’invasione turca, andata in sposa a 17 anni con un uomo che non amava. Il suo spirito di ribellione e di femminile indipendenza coincide con una passionalità impossibile da contenere all’interno delle maglie castranti di una società patriarcale precostituita. Ella, innamorata di un ufficiale spagnolo, non resiste all’adulterio, immolando il proprio corpo e il proprio cuore in nome di un’amore quasi degno del V Canto dell’Inferno dantesco. Ma proprio durante la notte di passione dei due, il marito di Idrusa muore in un naufragio, motivo di profondo senso di colpa, da una parte, e di disperazione per il non sentirsi ricambiata, nell’altra. La vita di Idrusa finisce tragicamente con una pugnalata autoinfertasi per sfuggire agli invasori, dopo aver eroicamente salvato la vita di un bambino. Idrusa incarna, per Marthia Carrozzo, una figura esemplare di autodeterminazione, un exemplum di vitalismo e spirito di liberazione, il tutto calibrato sull’impianto metamorfico di un corpo che assurge a valore supremo istintuale, laddove l’elemento della pulsionalità sentimentale e sessuale prevarica qualsivoglia richiamo alla mera ragione. Per ottenere il giusto effetto di vividezza e di carnalità, la Carrozzo non ricusa di ritmare poeticamente una sensualità senza veli, di superare i confini della corporeità simbolica per rendere traspirante e concreta una natura femminea che non è semplice evocazione, ma presenza e immanenza dei sensi.