A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Il mio nome è nessuno. Come tutti. (Note di lettura a Psychodissey, di Eleonora Federici, Terra d’ulivi edizioni 2021)

 

La parola Odissea è diventata per antonomasia il susseguirsi di vicende avventurose, funamboliche e irte di pericoli, come recita il vocabolario: serie di vicissitudini dolorose, di amare esperienza; e tuttavia chi ha letto l’opera attribuita a Omero sa che per quanto terribili siano, sono indirizzate a un esito di salvezza, che si tratti di odissee nello spazio o nei mari, nei deserti o nelle popolose aree metropolitane. Psychodissey trova la sua ubicazione all’interno di un reparto psichiatrico ospedaliero.

La giovanissima autrice, Eleonora Federici, dedica il libro ai suoi compagni di avventura Elena, Francesco e Marco, ma dell’avventura in oggetto sapremo molto poco, più che un racconto di avvenimenti si tratta di un resoconto di atmosfere diluito in schegge, frammenti, graffi, nella forma di accenni, di allusioni, di rimandi. Il che va benissimo trattandosi di opera poetica, è sventato così il rischio, come scrive saggiamente Sergio Pasquandrea nella postfazione, di cadere nella cronaca.

Ora non è simpatico svelare anzitempo l’esito finale di una storia, ma qui, sin dalle prime battute, si intuisce che la tendenza a un diradarsi delle nubi, l’aspirazione alla salvezza è il motivo principale sotteso alla sequenza dei versi. Qui tutto fa schifo è l’incipit del proemio, e non resta che tacere, prosegue. Ma per fortuna Eleonora non tace e l’odissea prosegue. I titoli rimandano direttamente all’opera omerica: Troia che brucia, Il cavallo di Troia, Circe, I Lestrigoni, Ulisse, e ogni peripezia non viene svelata, lasciando così il lettore davanti ad un abisso che si spalanca e che sarà sua cura immaginare, costruire, inventare. Si aprono così una serie infinita di domande, lo spazio mentale del lettore si riempie di punti interrogativi che non troveranno risposta. E tuttavia:

 

Troia che brucia

 

Passerò le ultime ore

 in un sogno di cenere;

 mentre brucia la nostra

 città, io starò lì

a morire, per poi rinascere.

Il mare tra il fuoco

 sarà la mia benedizione:

 il mio porto sicuro,

 la campana che suona a morto.

 

E tuttavia alcune precise indicazioni dichiarano una forte ambizione di rinascita, e che il mare, spazio libero, infinito, da intendere come guarigione, salvezza, sarà la sua benedizione, il suo porto, approdo sicuro, e quella campana che suona a morto a me lettore dice che il risuonare va inteso come segnale della morte del disagio, della malattia, di quel sogno di cenere che ha funestato, seppure per un tempo limitato, la giovane vita dell’autrice.

Tutta la raccolta è disseminata di indizi che parlano di guarigione, di felice approdo sulle rive della salvezza: così, come appassiscono le verità, gli amori, i colori, oltre quel muro c’è il mare, che ci attende con la sua forza e accoglienza redentrice. Anche “il sole, beandosi dello / zaffiro orientale / del cielo, procaccia /una dose di speranza”, e fondamentale appare la figura di Ulisse, nella poesia cui presta il titolo: qui si viene per passare oltre, e qui dimora in noi, nella catapecchia del cuore, la speranza. In definitiva già nella scelta di inserire la parola Odisseo nel titolo era svelato il desiderio di approdare alle sponde della guarigione, e così noi lettori possiamo tirare un sospiro di sollievo, avendo però attraversato, seppure solo con l’immedesimazione, col braccio teso empatico, le sofferenze che nella realtà si annidano in un luogo triste come un reparto di psichiatria.

Gianni Berengo Grdin

Foto di Gianni Berengo Gardin, Morire di classe, i manicomi

L’isola della morte

 

Qui i corvi beccano

 il cadavere di quello

 che siamo stati.

Amore, amore mio, tessi la tua tela

 per poi disfarla: le lusinghe

 di folli ninfe squartano

 il tempo come carcassa.

 Prendiamo, amore mio,

 il benedetto mare.

foto di Gianni Berengo Gardin

E qui sarebbe interessante aprire uno spazio sulle dimensioni reali del diffuso disagio psichico, interrogarsi sul bisogno collettivo, sociale, di terapie che tentino di raddrizzare gli squilibri ormai insiti a livello planetario nella maniera di pensare, soprattutto sulle storture circa i fantomatici “valori” di cui spesso si parla. Anche qui viene in soccorso il buon Bifo, che dice:” La sovrapproduzione è una caratteristica inerente alla produzione capitalistica, perché la produzione di merci non risponde alla logica del bisogno concreto degli esseri umani, ma alla logica astratta della produzione di valore. Ma nella sfera del semiocapitalismo la specifica sovrapproduzione che si manifesta è quella semiotica: un eccesso infinito di segni circolano nell’infosfera, e l’attenzione individuale e collettiva ne viene saturata.” E più avanti: “Dal punto di vista semio-patologico, la schizofrenia può essere considerata come un eccesso del flusso semiotico rispetto alla capacità di interpretazione. È quando l’universo si mette a correre troppo veloce, e troppi segni chiedono di essere interpretati, che la nostra mente non riesce più a distinguere le linee e i punti che danno forma alle cose.”

Viene da chiedersi come mai una giovane autrice avverta il bisogno di ricollegarsi a un mito classico per raccontare in versi una vicenda dolorosa. Bianca Sorrentino è una giovane studiosa del mondo classico, e ci aiuta a chiarire la questione. Riferendosi al poema di Peter Handke, Canto della durata, e nello specifico a questi versi: “Porto sulle mie spalle i miei predecessori e i miei successori, un peso che mi eleva”, afferma che – colui che accoglie la grazia della durata riesce a trovare un inedito riscatto alla prigionia della solitudine, e ad accorgersi che ogni luogo è abitato di moltitudini di spettri già passati di qui o che, presto, di qui passeranno, così si potrebbero immaginare i classici proprio come “luoghi della durata”-. Dunque va ascritto a merito di Eleonora, del suo nutrimento culturale e poetico, della sua sensibilità estetica e della sua applicazione nello studio aver preso a modello il mito classico, averne fatto un calco nel quale immergere il racconto dei suoi trascorsi.

I versi della raccolta risultano incisivi nella misura in cui aprono uno spazio di domanda, allargano il campo immaginativo del lettore, e più alludono, più incidono semplici graffi sulla pagina, più appaiono appigli cui rivolgere il proprio sguardo interrogativo, e quindi di sicura presa sul lettore, in definitiva funzionali al periplo del mito.

 

Lotofagi

 

La vita si parte

 tra il caffè della mattina;

 la doccia profumata;

 il tanfo d’ascella in metropolitana.

Poi, il sordido tramestio

di piedi; s’accendono

e si spengono le luci.

Il viaggio (benvenuto nell’oblio)

dove non c’è luce

né tenebra; solo una parete

verniciata male.

 

°   °   °   °   °   °   °

 

Sirene (Francesca)

 

 Lo sciabordio sulla

 chiglia delle onde;

 voci di fame e di

 digiuno. Il mio nome

 è nessuno, come tutti.

 Qui numeri; lettere;

 combinazione matematiche,

 fuori da noi vivono.

 

 

°   °   °   °   °   °   °

 

 

Anno 0

 

Si dice che la storia

 si spacchi come ghiaccio

 sopra un iceberg;

 Si dicono tante cose:

 passerà, dicono,

 domani è un altro giorno.

 Ma le fratture, i tagli,

 non si raccontano; sono

 solo inizi d’Anno zero.

 

°   °   °   °   °