Angoli di poesia di Luca Ariano | Francesco Terracciano, MCM, Oèdipus, 2021

 

Francesco Terracciano, dopo aver pubblicato con lo pseudonimo François Nédel Atèrre, Mistica del quotidiano (Terra d’Ulivi, 2018) e Limite del vero (La Vita Felice, 2019), nel 2021 ha dato alle stampe, per Oèdipus, MCM. Come sottolinea acutamente Vanina Zaccaria nella sua postfazione, si tratta di una trilogia che culmina in quest’ultima raccolta. Non è forse un caso che, per questo libro, Terracciano abbia usato il suo nome vero e non lo pseudonimo, magari perché, delle tre raccolte, questa è la più autobiografica, ma non solo. Cosa si intende per autobiografica? MCM è il logo che si trovava sui muri della fabbrica delle Manifatture Cotoniere Meridionali, polo che comprendeva uno spazio urbano accanto al Centro Direzionale nel quartiere di Poggioreale, sito dell’infanzia del poeta napoletano. La raccolta è divisa in cinque sezioni: Mosso, Meno, MCM, Vivo, Lungo silenzio prima. Nella prima sezione, compaiono personaggi, o meglio “anime” come li definisce Vanina Zaccaria che sono protagoniste della vita del quartiere, forse ricordi d’infanzia o di un presente sfumato: “Anna è il riflesso sporco, trascinato / nella vetrina, di una donna magra / minuta. Anche l’impronta delle luci / le macchine, in quel cuneo di visione. […]” Nella seconda sezione, Meno, ci si addentra nello spazio urbano con elementi ben definiti, luoghi fisici e mentali dove pare prevalere un certo degrado, rovine di un’epoca e di una civiltà: “Le braccia pendono qui tra i mattoni / le braccia e quelle mani, avanti e indietro / fanno così anche i rami se c’è vento. / Sono rimaste qua, il cemento aperto // le sputa a volte, le lascia passare. / Le bombe, un cedimento di struttura / un’esplosione, il terremoto forse. / L’ultimo, il più vicino. Gli anni neri. […]”. In MCM, sezione centrale della raccolta, così come in quella successiva, Vivo, il poeta si rivolge al presente che diventa tema preponderante di queste due sezioni e l’occhio del poeta descrive il dolore, le sofferenze, le delusioni e il pathos, tanto che, certi versi, ci riportano alle tensioni di tante poesie di Pier Paolo Pasolini o di un poeta meridionale come Terracciano: Alfonso Gatto: “I giri delle catene, la presa / decisa degli anelli sui cilindri. / Le due maniglie. È inutile la punta / di ferro, il cacciavite per spezzarle / che cerchi a terra. / Basta allontanare / il ponte curvo del lucchetto in senso / opposto. È fatta, era solo incastrato. […] In Vivo, la tensione di raccontare si fa più forte, così come le poesie che paiono dei racconti in versi richiamando, talvolta, certi passi di Elio Pagliarani: “In due venuti a prendermi qui dentro / Enrico e Alberto, a farmi qualche cosa / solo pensata, detta. Le camicie / con i quadretti piccoli, gli occhiali / storti sui nasi, comprati da poco. […]” Nell’ultima sezione, Lungo silenzio prima, il tocco del poeta si fa quasi più leggero nell’osservare le vite e i gesti delle persone: “Il proiettore, le vecchie bobine / sparse sul tavolo. Il nastro che unisce / un disco piccolo a un altro che gira. / Sono attaccate al muro le figure / sottili che si muovono. Nel buio / gira sull’asse la porta tra i mondi: / l’anima delle cose è un breve tuffo / di polvere nel fascio della luce. / Nino seduto sopra le ginocchia / di qualche zia spalanca gli occhi e ride.”

Nella poesia di Francesco Terracciano, e non solo in questa raccolta, va sottolineata una certa attenzione alla metrica e alla versificazione. L’uso della metrica non è mai fine a se stesso, ma in funzione del dettato dell’autore e di quello che vuole trasmetterci, in questo ultimo libro, dunque,  il poeta napoletano riesce a manifestare un giusto equilibrio tra forma e contenuto e, come si diceva all’inizio, le vicende autobiografiche, nonché i ricordi, si mescolano alle descrizioni della realtà attuale e fanno di MCM un libro-testimonianza di un’epoca, di una civiltà e di un periodo storico passato che ancora lascia e lascerà strascichi ben evidenziando come compito del poeta sia, di conseguenza, metterne in luce i vari aspetti.

 

 

I

 

Ritorna sempre a qualcosa che stanca

al rigo azzurro dei quaderni, Enrico.

Il margine gli toglie in verticale

spazio alla pagina da entrambi i lati.

 

Dopo vent’anni le sue elementari

ancora lo ossessionano: le note

che mette ai lati dei fogli. Ha già scritto

un resoconto fitto, dettagliato

 

degli anni in cui non c’era. Adesso è grande.

 

II

 

Nino caccia i piccioni, a notte. Il tunnel

ne è pieno. Tende il nastro della fionda

dal finestrino e mira. Poi li prende

e li sistema in scatole per scarpe

 

vuote (non più di tre per lato). Il fiocco

rosso è sempre annodato sul coperchio.

Ne lascia alcuni in dono – in fondo è buono –

a quelli che raccolgono le foglie

 

secche dai giardinetti, in cima ai sacchi.

 

III

 

Gli scioglie i cani addosso, al buio

a quelli ubriachi che dormono in strada.

Due morsi al collo e sono belli e andati.

Tanto sarebbero morti di freddo

 

o sotto qualche macchina. Li prende

sporchi di sangue e di grasso, dai lembi

dei pantaloni. Li trascina in cima

fino al portone di una chiesa chiusa

 

come lasciandoli in braccio al Signore.

 

IV

 

Tutte le scuole sulla stessa piazza

e poi i giardini piccoli, i palazzi

coi muri enormi. Vertebre e cordoni

di architetture ardite, i capannoni.

 

L’incrocio dove un uomo abbrustolisce

nocciole in un barile di lamiera.

Le braccia nude, il fuoco e le scintille.

 

Tornano dal lavoro in tuta o in giacca

modeste tutt’e due. Prendono a calci

la testa che gli cade, i padri e i figli

lungo la strada che li porta a casa.

Qualche sorriso si attacca alle mani.

 

Il sole resta anche quando si scioglie

sopra le corde, agli archi dei portoni.

I tram che corrono su un lato, il suono

che fanno con le ruote. Quel richiamo

di bestia familiare, mansueta.

 

Va dritta fino ai casali, ai paesi

e in qualche punto si perde nei campi.

Per tutti noi ha quel nome, la Via Nuova.

 

V

 

Le braccia pendono qui tra i mattoni

le braccia e quelle mani, avanti e indietro

– fanno così anche i rami se c’è vento.

Sono rimaste qua, il cemento aperto

 

le sputa a volte, le lascia passare.

Le bombe, un cedimento di struttura

un’esplosione, il terremoto forse.

L’ultimo, il più vicino. Gli anni neri.

 

È tutto qui il dolore se lo vedi

è questa cosa da poco nascosta

tra vecchie case, che appena la dici

è già sfilata. Niente che fa male.

 

Dicevi il sangue che scorre, il calore

sopra la pelle: è già stato, riposa.

 

VI

 

Le facili architravi del congegno

assi di legno e cuscinetti a sfera

trovati tra gli scarti, e loro sopra

quelle croci minuscole, lanciate

per le discese. Macchine da corsa

e gambe nere incollate al terreno

in gara con tutti gli altri. La luce

degli angeli tirati a sorte, il fischio

inconfondibile sopra le pietre

di quelle ruote inesistenti. In strada

qualche metro più in basso, al primo incrocio

nessun motore vero funzionava

meglio, lo stesso suono di orologio.

 

VII

 

Sembra una fila di soldati il muro

o di giganti, uno di lato all’altro

che non ci passa una mano tra i fianchi.

Poi è l’ora che qui batte lenta, un suono

che non ritorna. La fabbrica è al centro

con gli isolati e i reparti, una nuca

di dio qualunque che volte le spalle

alle colonne. Tutto è abbandonato.

 

Lo so, si tratta di uno spazio enorme

è questo che spaventa. Ma se i rami

di un albero sono distesi sui blocchi

e li accarezzano, sciolgono un poco

dei loro nodi. Noi possiamo entrare

da quella breccia. Dentro è tutto bianco

le stanze enormi, i soffitti. Le piante

rimaste che si appoggiano ai piloni.

 

Come nel sonno avvolto, questo corpo.

 

VIII

 

I giri delle catene, la presa

decisa degli anelli sui cilindri.

Le due maniglie. È inutile la punta

di ferro, il cacciavite per spezzarle

che cerchi a terra.

                               Basta allontanare

il ponte curvo del lucchetto in senso

opposto. È fatta, era solo incastrato.

È nella pace l’ingresso, salvata

dal colpo risparmiato. Sparsi a terra

ancora cartellini, fogli scritti.

Sui muri gli orologi fermi. È l’antro

lungo la roccia scoperto dal mare

quando si abbassa, la sala sospesa

su tubi d’aria.

                   È inutile pensare

al suono lungo di qualche sirena

la fine attesa del turno. È rimasto

qui dentro, come al fossile che affiora

il setto della conchiglia

cavo, disabitato

la sua frammentazione minerale.

 


Francesco Terraccia­no è nato a Napoli, dove vive e lavora, nel 1967. Collabora con riviste letterarie e partecipa a progetti editoriali, rassegne e seminari; è redattore per il trimestrale di cultura internazionale Menabò e condirettore di Inverso-giornale di poesia. Ha pubblicato Mistica del quotidiano, Terra d’Ulivi, Edizioni, 2018, Limite del vero, La Vita Felice Edizioni, 2019 -selezionato al Premio Pagliarani del 2019- e il recente MCM per Oèdipus Edizioni, 2021. Suoi testi sono stati tradotti in lingua romena e pubblicati sulla rivista di cultura poetica “Poezia” e nell’antologia “Mers pe sub cer” -20 poeti italiani d’oggi- presentata alla Fiera del Libro di Bucarest (2019), e in lingua spagnola per riviste di settore. In lingua inglese, i suoi lavori sono stati presentati in manifestazioni patrocinate dalla Dante Alighieri di Copenhagen (2018).