Sogni di Emanuela Rambaldi | Dieci. Finzioni
Può capitare, nella vita, di non ricordare più di possedere carne vene respiro battiti. Diventare metallo, corazza da mantenere lucida, al riparo dalla ruggine, affidata ad una mente perennemente dissociata dalla sostanza, ma diligente, perfetta per lo scopo.
Possiamo tralasciare noi stessi molto a lungo, a volte per sempre.
Eppure il corpo è ancora lì e sa che esistono ancora sporadiche possibilità di riconoscersi, trasformarsi in desiderio, in ossessione persino – in un barlume di futuro in cui le mani gli occhi la voce tornano ad avere senso.
Ora che il tempo è buono Ruth ha cominciato ad accompagnare Marcel nelle sue passeggiate sulla battigia.
Se ne stanno uno accanto all’altro, spesso in silenzio, a contare i passi i gabbiani le conchiglie i granchi gli scogli.
Oggi raggiungono gli altri che è quasi ora di pranzo. Giselle li ha aspettati. Ha inventato un altro gioco.
– Pronunciamo a turno una frase che ci rappresenta.
– La rappresentazione di noi stessi è fallace, ribatte Robert.
– Non importa. Saranno frasi fallaci. – insiste lei, con la consueta leggerezza.
Le proposte di Giselle vengono comunque accolte e nessuno sembra troppo turbato dalle conseguenze che possono scaturire dall’eccessiva sincerità.
– Magari qualcosa di più che una sola frase, che dite? Posso cominciare io. Poi Giselle, Ruth, Robert. – Lo lascia per ultimo perché lo percepisce come il più restio, quello che ha bisogno di più tempo.
Marcel va al centro, spalle al mare, rivolto verso gli altri, attore improbabile su di un palcoscenico immaginario. Si ferma, li guarda negli occhi, uno per uno, per dare più enfasi al suo enunciato.
– Odio le cose irreparabili. Odio la distruzione di ciò che non si potrà mai più ricostruire. Odio la morte.
Inchino. Applausi, sui quali spicca la voce lievemente sardonica di Robert.
– Non è la morte la cosa peggiore della vita – ribatte senza rispettare il turno.
– Forse no, ma in tutti questi anni non mi sono riuscito abituare alla vita. Non credo potrò farlo con la morte.
– Marcel, rassegnatevi. Dalla vita si impara una cosa sola. Si muore. Anzi due. Meglio arrivarci stanchi, alla morte.
Decisamente l’argomento che Giselle non avrebbe voluto affrontare, in una giornata di sole come questa. Ora si alza, prende posto, scandisce piano.
– Nella mia vita ho trascurato la giovinezza, ma ho riconosciuto la felicità.
Acclamazione.
Sorride. Spera che le sue parole si siano allontanate abbastanza dal punto finale di tutte le storie.
– La mia vita è stata un’alternanza di psicofarmaci e di coliti. – Ride Ruth, scoprendo il collo, gettando la testa all’indietro, passandosi una mano tra i folti capelli sciolti, in un atteggiamento inaspettatamente seducente.
– Ne parlate al passato. Ora è diverso? – chiede Robert.
– Ora la vita mi sembra meno assordante.
– Non barate Robert – lo richiama Giselle – state partecipando senza rispettare il vostro compito.
Robert raggiunge l’area della declamazione. Si passa le mani sui vestiti. Si ravviva i capelli.
– Con gli anni ho imparato l’arte della dissociazione. Come far convivere nell’apparente normalità la mia moltitudine. Da giovane, ambivo all’unico, all’insieme. Tutto doveva perfettamente unirsi, mescolarsi, amalgamarsi. Il mio io doveva essere un tutt’uno, precisamente composto, senza crepe. Poi, col tempo, più che del tutto, ho preso ad occuparmi delle parti – e tutti gli sforzi si sono concentrati su come tenerle – le parti – separate – e nel contempo perfettamente integre.
Osanna.
– Così parlò Zarathustra.
– Avevate ragione Marcel. A volte una frase sola non basta. Tocca di nuovo a voi.
– Non ho mai desiderato essere un uccello, ma ho sognato spesso di volare. Non in cielo, sulle scale. Scendevo senza toccare terra. Scivolavo sul corrimano senza sfiorarlo e in un attimo ero giù. Atterravo leggero, con un balzo. Una piacevole vertigine.
Ecco che siamo tornati ai sogni, pensa Robert, ma questa volta non interviene. Questa volta ritrova la voglia di ascoltare le vite degli altri, come accadeva un tempo. Quando era bravo a rubare le parole, ladro di emozioni altrui.
– Giselle?
– A Parigi – nei miei sogni – c’è sempre il mare.
– Ruth?
– Il mio ego si assottiglia ogni giorno di più.
– Robert, concludete.
– Tutto quello che vedete di me é falso. Sono un grande bluff.
Ovazione.
Avrebbe potuto dire “magnifico bluff”, l’atmosfera surriscaldata lo avrebbe permesso, ma ha preferito non esagerare. Pensa che ormai il gioco è finito per essere quello che é. Una tragica farsa, come la vita.
Julie sta salendo le scale quando Marcel sta suggerendo un ultimo giro.
– Certo con voi non ci si annoia mai . Si sentivano grida e battimani dalla cucina.
Si appoggia alla balaustra. Si accende la sigaretta. Ha i capelli sciolti, luminosi.
– Dite cose spiritose?
– Non proprio, ma è solo svago. Facciamolo al contrario, ora. Ognuno si rivolge ad un altro fra di noi e formula quella che – a suo avviso – è una descrizione che gli si addice. Può partecipare anche Julie, se lo desidera.
– Affare fatto. Io scelgo voi. – Robert è il più veloce a rispondere. Non vede l’ora di togliere dalle orecchie di tutti le sue ultime parole. – Marcel, siete un funambolo delle emozioni.
Ruth, con dolcezza, sceglie Giselle.
– Siete l’esempio di una coscienza che ha fatto pace con se stessa.
Lei la ricambia, con altrettanta dolcezza
– E voi, Ruth, quello di chi ha preso le distanze dalla vita. Ma non durerà.
– Le premonizioni non valgono, interviene Marcel, vero Julie?
Ora che tutti sanno é difficile comportarsi come al solito con lei, ma Marcel é bravo.
– Dico qualcosa io, a tutti voi. – mormora calma Julie. – Mi piace guardarvi, mi piace ascoltarvi. Fate pensare a tutto e al contrario di tutto e date l’idea di essere persone fortunate. Siete una festa. Sono felice di essere qui.
Giselle nasconde il viso. Le lacrime cominciano a scendere con volontà ostinata, come se non avessero aspettato altro per tutta la vita.
***continua***
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