A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Ci vuole un apriscatole / un affilato arnese / di parole / per arrivare al cuore (note di lettura a Lo spettro del visibile, di Patrizia Sardisco, edizioni Cofine 2021)
Lo spettro del visibile, raccolta di poesie di Patrizia Sardisco pubblicata dalle Edizioni Cofine, si presenta come un viaggio appassionante lungo una rotta impervia, sebbene splendida di luce e inconsueta, un percorso che pullula di novità e spalanca un universo di domande. A una primissima lettura mi tornano in mente i versi “Tindari mite ti so / fra larghi colli pensile sull’acque”, per via della medesima appartenenza geografica di Patrizia e Salvatore Quasimodo e per una mirabile fusione di progetto intellettuale e realizzazione musicale della raccolta. La prima sensazione è di trovarsi dentro uno spartito, in un vento di musica, perché la tessitura dei versi prende per mano il lettore e l’accompagna dentro un torrente di note musicali, così l’oggetto, l’argomento che fa da scheletro alla progettazione si dimentica e ci si perde nella sequenza dei suoni, ora dolcissima ora aspra, in una costruzione chimica che diventa ragnatela sonora e imprigiona l’attenzione del lettore, porto a esempio questa luminosa sequenza: – la fascia di frequenza è un mare / chiuso / il valico è vocalico / e là la luce tace / il proprio dilagare / in altri mondi -.
(Si osservi per esempio come sprigioni un felice gaudio, tutta incentrata sull’accentazione e ricorrenza della vocale U, l’ultima poesia in fondo a questa nota)
Perché si tratta di un viaggio impervio per quanto interessante? Come spiega con doviziosa e sapiente chiarezza Anna Maria Curci nella prefazione: – Fin dal primo testo, dunque, si palesa una prospettiva fondamentale in questa raccolta: i nuclei tematici che si sviluppano intorno alla natura della luce, alla capacità e alla possibilità di percezione, alla formazione dell’immagine, all’emissione, concetti che giungono dalla fisica, sono qui presenti, vivi, perfino incalzanti. Lo spettro del visibile si richiama senz’altro allo “spettro visibile”, vale a dire, secondo la teoria della luce come energia elettromagnetica trasferita attraverso lo spazio e la materia per mezzo di onde, la piccola porzione dello spettro elettromagnetico che può essere colta dall’occhio umano, la serie di colori dal rosso al violetto, partendo dalla frequenza più bassa per giungere a quella più alta. È quell’insieme di colori che si situa tra l’ultravioletto e l’infrarosso a formare la ”luce bianca” -.
Dunque concetti che giungono dalla fisica. Non è una novità che un poeta si occupi di fisica, molti ricorderanno La lezione di fisica di Elio Pagliarani: – Cominciò studiando il corpo nero Max Planck all’inizio del secolo – e il libro di Roberto Maggiani su Poesia e scienza, una relazione necessaria? – e forse il libretto di Brunello Tirozzi, fisico di professione e poeta per passione, nonché marito di Biancamaria Frabotta, dal titolo divertente: Fisica pour parler. E sicuramente molti altri poeti hanno fatto pascolare i loro versi nei territori della matematica, della fisica, della scienza. Un articolo interessante a firma di Paolo Beltrame apparso su Avvenire nel 2021 afferma:
– Agli occhi del fisico, la natura si esprime e, paradossalmente, lo fa attraverso un silenzio forte e chiaro; e allo stesso tempo è semplicemente ‘bella’. Ma il gusto del bello tra i fisici non è uniformemente condiviso, come pure la passione letteraria non è universalmente condivisa. Il sopraccitato Dirac affermava di non comprendere affatto la poesia e di non capire come alcuni tra i suoi illustri colleghi – tra i quali Robert Oppenheimer – potessero scrivere dei sonetti. Arrivò anche a sostenere di non capire «come un uomo possa lavorare alle frontiere della fisica e allo stesso tempo comporre poesie. Le due cose sono in contraddizione tra loro. In fisica si vuole dire qualcosa che nessuno sapeva prima in termini che tutti possono capire. In poesia si è costretti a dire cose che tutti già sanno in termini che nessuno capisce». Un’affermazione, questa, certamente icastica -.
A mettere d’accordo due posizioni apparentemente antitetiche provvede il fisico Giorgio Parisi: «La poesia è un uso creativo della lingua, la fisica è un uso creativo della matematica. La poesia come la fisica e tutte le scienze si basano su un atto di creatività»
Dunque dove si pone la novità dell’atto creativo di Patrizia Sardisco? Sicuramente nell’uso del linguaggio, che felicemente ibrida terminologia scientifica e lingua legata allo scambio comunicativo quotidiano, così c’imbattiamo negli asintoti, nelle proiezioni corticali, nella parabola iconoplastica e nella seguente sequenza di versi che apre una parentesi di quotidianità:
La lista della spesa
finita in mezzo a un libro
di poesia
irretisce lo sguardo
manca il sale
lo spazio bianco simula
l’atto mancato
in forma cristallina
l’assenza corrosiva
di parola
Da questa commistione di tecnicismi e uso familiare della lingua scaturisce un clima festoso di celebrazione che mi riporta ogni volta alla mente quanto affermato dal filosofo Giorgio Agamben nel libro Il fuoco e il racconto: “Scrivere significa: contemplare la lingua, e chi non vede e ama la sua lingua, chi non sa compitarne la tenue elegia né percepirne l’inno sommesso, non è uno scrittore -.
Linguaggio scintillante equivale a visioni luminose che aprono spazi di domande, per esempio in questa sequenza: – la postura palesa parentele / coi calchi opachi di una lingua fossile – a quali parentele sembra voler alludere Patrizia? la vetustà di una lingua induce a posture depresse, affaticate, prive di vitalità? dunque la poesia come forza e funzione vivificatrice della lingua e quindi, per riverbero, abbaglio, sua conseguenza oserei dire fisica, sulla postura della vita, possibilità di rendere vitali ed esuberanti le nostre vite, la nostra quotidianità? infatti prosegue affermando che la curva delle spalle “restituisce intatti gli echi, i punti già brillati”.
E più avanti ancora: – l’uomo dietro il guinzaglio / trova dentro un bisogno / l’evasione – che sembrerebbe fare il paio con i versi evidenziati sopra e richiama il gesto liberatorio della poesia, che cerca nuovi spazi, nuove visioni, un respiro che si allarghi e instauri una sintonia col più ampio respiro del mondo.
Dunque la fisica e la poesia appaiate e accomunate come gesto creativo finalizzato al recupero di una più ampia autonomia di pensiero e di azione? come metafora di liberazione? tesa a sperimentare nuovi varchi di esperienza?
Scrive infatti Anna Maria Curci ancora nella prefazione: “Lo spettro del visibile dona lo stupore e il pungolo a esplorare, amplificato e con traccia nel profondo”.
A conferma di questi sospetti i seguenti versi: – dove la fame è riverbero di palpebre / la mente appicca incendi / di un dolo illuminante –
alle sue proiezioni corticali
all’occhio la sua parte
la ristrutturazione percettiva
nell’umor vitreo migrano gli stimoli
contro gradiente
per trasporto attivo
ma le grammatiche
giocano entro limiti finiti
segmentano lo spettro del visibile
in unità di campo tendenzialmente rigide
la fascia di frequenza è un mare
chiuso
il valico è vocalico
e là la luce tace
il proprio dilagare
in altri mondi
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fare della reticenza fiato
dell’astensione morso segno
usurare
la lingua torcerla al verso
darsi la direzione tra i picchi delle onde
decidere tagliare
la frequenza coattiva la catena
scantonare forse
forse cantare
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incanutire senza voce batte
sui tasti della neve
ogni filo un cristallo
tinnulo di giorni
le dita aperte a pettine
all’indietro
sulla nuca la musica a cullare
il suo disarmo acustico la mano
un non suono che tuona per essere guardato
muta non ha dimora la memoria, se è voce dica
siamo soli al principio
sciami di neve e polvere, visibili
nei segmenti più caudali e già compiuti
Patrizia Sardisco è nata a Monreale, dove tuttora vive. Scrive in lingua italiana e in dialetto siciliano. Ha pubblicato la raccolta Crivu, la silloge eu-nuca per le edizioni Cofine, e Autism spectrum, con postfazione di Anna Maria Curci.
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