Miliaria di Maria Laura Valente | Interferenze di endocosmi. La poesia come ascolto empatico in Avrei voluto scarnire il vento di Grazia Frisina (Compagnia dei Santi Bevitori, 2022)
Lasciarsi attraversare dalla sinfonia di voci sole che compone Avrei voluto scarnire il vento (Compagnia dei Santi Bevitori, 2022), ultima, raffinata fatica letteraria di Grazia Frisina, è un atto che trascende il mero piacere estetico della parola poetica sapientemente lavorata e offerta e si configura, piuttosto, come esperienza psicotonica perdurante, atta a innescare una gradatio emotivo-riflessiva multilivello.
Sin dall’analisi del piano progettuale, emerge un’interessante stratificazione geologica di significanza, sulla quale giova soffermarsi.
La configurazione esteriore che connota l’opera è, in apparenza, chiara e semplice, consistendo, infatti, in una silloge di testi poetici, ciascuno incentrato su una figura femminile desunta ora dalla realtà ora dalla finzione letteraria, con occasionali incursioni in repertori mitologici afferenti a diverse culture: da Lilith a Margherita Hack, da Filomela a Camille Claudel, da Dulcinea a Etty Hillesum, senza dimenticare Fimmina Terra (vibrante personificazione della Sicilia, terra natìa dell’autrice), trentadue donne emblematiche sfilano, pagina dopo pagina, in ordinata successione casuale, testimoniando, con l’ostensione del corpo sonoro della propria voce, l’eterna dialettica tra un’effimera esistenza e la persistenza della traccia mnesica lasciata dal passaggio nel mondo, reale o immaginario che sia. Una teoria di martiri etimologicamente intese, la cui testimonianza travalica d’importanza l’anagrafica della persona stessa.
Prova ne sia l’identificativo d’apertura di ogni testo che coincide unicamente con il nome di battesimo anche quando il nudo antroponimo non è di per sé stesso garante di corretta identificazione: Marianna, Annunziata, Teresa, Amelia si alternano, dunque, a segnacoli di trasparenza onomastica, quali Eva, Ifigenia e Frida, senza alcuna disparità di pregnanza. Unica notabile eccezione è quella dell’ultimo testo, in cui il pronome di prima persona singolare nasconde e al contempo rivela la presenza, quasi clandestina eppure perfettamente appropriata, dell’autrice stessa nel composito gineceo cui ella stessa ha dato vita.
Passando a un livello ulteriore di analisi, l’attenta lettura dei componimenti permette di cogliere la logica sottesa alla scelta delle femmes formidables, una logica che appare, invero, rimarchevole. Il discrimen, infatti, non pare essere puramente meritocratico né, d’altra parte, unicamente determinato da una rinomanza più o meno estesa nel tempo e nello spazio. A ben guardare, condicio sine qua non per l’elezione a membro del paradigmatico novero muliebre è piuttosto l’innesco di una potente risonanza emotiva, di un’interferenza tra endocosmi, venutasi a creare durante la fase di studio preliminare condotta dalla Frisina sulle “sue donne”, uno studio di tale profondità viscerale da assumere i tratti caratterizzanti dell’ascolto attivo, sensibile ed empatico. In ciascuna delle donne con cui è entrata in risonanza emotiva, l’autrice ha riconosciuto, quasi nello stupore di un’agnizione classica, sé stessa, o meglio, un frammento del proprio Io, o meglio ancora, uno dei tanti Sé che coesistono in noi e di cui consistiamo.
In ragione di tale processo di riconoscimento, che ha inevitabilmente assunto i tratti di una (ri)mappatura del proprio essere, l’autrice ha scelto, nel dar voce poetica a queste donne, di non raccontarle, bensì di viverle, con un’autentica partecipazione che va intesa in una duplice accezione: quella etimologica (in chiave squisitamente soggettiva), per la quale la Frisina ha empaticamente preso parte attiva, in equa condivisione, all’esistenza di un’altra creatura, e quella che Lévy-Bruhl conferisce al termine, in base alla quale si partecipa con pienezza quando si avverte nel profondo che qualcuno (o qualcosa) non sono sempre sé stessi ma possono, in situazioni date, essere altro da sé.
Scaturiscono da ciò testi poetici di singolare intensità, impreziositi da una cura formale non inferiore all’impianto contenutistico e strutturale dell’opera. Apprezzabile, ad esempio, risulta la variatio di persona verbale che intercorre tra i vari testi, in virtù della quale si assiste a movimenti oscillatori più o meno sensibili nella focalizzazione, funzionali all’approfondimento psicologico di ciascuna persona loquens. Parimenti rimarchevoli sono l’accurata selezione lessicale e la studiata architettura sintattica che, pur risultando entrambe sostanzialmente improntate all’eleganza stilistica, si modellano di volta in volta, alla stregua di decalcomanie linguistiche, sul sentire, individuale e condiviso, che traspare da ogni singolo testo.
Selezione di testi tratti da Avrei voluto scarnire il vento di Grazia Frisina, Compagnia dei Santi Bevitori, Pistoia, 2022
MARIANNA
Non sono che una parola
da divenire – io
Grumo d’insembianze
racchiusa nel bozzolo di un senso
protesa al concepimento
Io sono spigolatura di alfabeti
sillabe fonemi da intagliare
con pugnali persuasi
nell’aria – Per dire per cantare
Da sommare a storie di venti
a granelli di sale
da sciogliere nel ritmo del sangue
da traversare sopra un assolo di goccia
Io sono la parola che invento
Parola carnale – solletico dell’anima
Parola da toccare con polpastrelli insonni
da morsicare tra i denti della solitudine
da mescere alla saliva di tutte le cose
da spingere sull’altalena dei giorni
da annegare come abisso
da liberare come fuga
Non sono che nessuna parola
– io
*
SYLVIA
Capo chino
L’america è là squillante
fuori dal vetro – prossima e nemica
Occhio puntato
come chi voglia scandagliare
come chi dal microscopio non desista
lei scrive – Visioni scrive
Scrive lei tallonando
le ore e le ansie – insieme
lunghi righi – vie d’accesso
alle impraticabili miniere
quarzite osso elettrizzato shock
shock shock shock
lampi che bucano il cranio
Lei scrive
per capire
come sotto le cellule
s’accalchino incanti e spaventi
brame e schianti
per scoprire
dove avviene la germinazione
di quei tortuosi sonnambuli pensieri
che come pipistrelli strapparono
le trecce alle biondebimbe
e succhiarono come vermi il miele
tutto – nelle arnie delle madriapi
tanto da morirne – in un febbraio
livido – senza conforto
Con minuzia d’archeologo
setaccia lei polvere di parole – scava
dal pozzo il gorgoglìo lunare
il cristallo dal precipizio dell’insonnia
dalle viscere il vagito sommerso
Per l’urgenza scrive
– per placarla
*
MARIE
e tu Anne – lavandaia di Sauve
il tuo soffio batti sulla pietra
Résistez
Calò sopra la nostra fede
il tuono di un giudizio
rimbombò di ferri la notte
In questo duro utero di torre
Dentro noi – Figlie e sorelle
L’una per l’altra madre
e tu Isabeau – filatrice di Pranles
tra le crepe tessi fili caparbi
Résistez
Se dalla nicchia del lamento
spirava un lugubre di resa
la faccia ai calabroni voltavamo
alle sentinelle al gelo venuti
a succhiarci il sonno e la nostalgia
Fra noi l’alleanza illesa rispose
e tu Jeanne – sarta di Saint-Georges-les-Bains
a punto fiorito cuci sull’orlo dello sconforto
Résistez
Di riflessi tremava la cella
quando dalle feritoie il sole
col suo salmo consolava d’alleluia
e noi appresso a lui non ci spegnemmo
Non ai sinedri bensì al Signore
al silenzio e ai figli s’espresse il cuore
e tu Suzanne – venditrice di fiori di Nîmes
il tuo richiamo di lavanda nell’aria ricomponi
Résistez
Ritte in piedi di noi restava il torto
questo esserci con le mani indivise
quel travalicare tutte le lacrime
Le grate rompemmo avendo occhi
di pioggia sciamanti verso pascoli
a venire – ove dissetare il riso deposto
e tu Marie – moglie del mercante Michel
lo spago slega attorno ai polsi
Résistez
Lo spazio percorso fu di giorni qualsiasi
le vite nostre qualsiasi – Nient’altro
che un rotondo cintato di pallori
d’ombre partigiane – No tuttavia
no dicemmo – Mai ci ripiegammo
né ci bagnammo nella macera fonte dell’abiura
e tu Françoise – contadina di Privas
le zolle delle ore cadute solca e semina
Résistez
La scure del carceriere
non sbiancherà l’incendio della rosa
non innalzerà più steccati ai voli
Daranno frutti le nostre ossa
come ciliegi in estate – Come
agli uccelli il saluto mattutino
Marion Jaquette Marguerite Elisabeth
Résistez
Noi siamo il canneto che rinasce dalla palude
al di là di questa sepoltura di secoli sale
a un vento più forte di libere nuvole
*
AMELIA
………………………………..
e – sciolti
dalle pastoie i malleoli
con un balzo di gatta
dal suolo mi stacco
………………………………..
via! su! via!
cabrando
Cosce a mezz’aria
alta altissima
in solitaria
sulla rotta di nuvole
senza destinazione
Con l’esile piumaggio dei pensieri
Una rosa dei venti
fluttuante tra i capelli
Un mannello di stelle
polari in brusio sottopelle
Niente adesso m’è affanno
quello che prima era fragore
guerre brandelli covo di ferocia
ora in basso è solo un’inerme
afflosciata zitta giostra
Tradendo gravità e correnti
azzardando oltre le quote dei monti
trasvolate e peripli
impensate orbite
per una volta
sola
sono
a vedere in giù la Terra
Mio Belvedere da quassù
Biglia nel blu
il pianeta roteare rot
eare rotea
re
in placenta d’immenso
s
g u
a z
zare
Grazia Frisina, siciliana d’origine, dopo lunga permanenza torinese vive attualmente in Toscana. Già docente di Lettere nelle scuole superiori, compare con sui testi su numerose riviste letterarie nazionali. Tra le sue pubblicazioni si ricordano: il romanzo A passi incerti (Pagliai, 2009); i drammi poetici Cenere e cielo (Carabba, 2015) e Madri. Tre pièces (Oèdipus, 2018); le raccolte poetiche Dell’imperfetto sentire (Graficamente, 2006), Foglie per maestrale (Il Caso e il Vento, 2009), Questa mia bellezza senza legge (Sassoscritto, 2012), Innesti (Nomos, 2016, opera vincitrice Contropremio Carver 2018), Pietra su pietra (Transeuropa, 2021), Avrei voluto scarnire il vento (Compagnia dei santi bevitori, 2022).
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