Paradiso XXXIII o l’inno dell’universo, di Daniele Ventre
George Santayana, nell’esordio del suo capitolo su Dante, secondo dei suoi canonici three philosophical poets, vede già nel Fedone platonico la transizione potenziale, nel cuore dell’antico, dalla natura alla soprannatura. Nel passo di cui parliamo (Fedone 97b-99c), Socrate rinnega i suoi studi giovanili dei testi dei fisici, e in particolare di Anassagora, a partire dal suo ben noto senso di delusione derivante dall’incompiutezza della visione anassagorea: il noûs che Anassagora invoca come razionalità organizzatrice del cosmo, nelle pagine del filosofo di Clazomene rimane una proposta teoretica incompleta, quasi abortiva; il suo ipotetico finalismo ordinatore non è mai completo attore del cosmo, rispetto alle spiegazioni stricto sensu fisiche dei fenomeni. L’approccio anassagoreo procede come se, per spiegare la presenza di Socrate in carcere, bastasse semplicemente rispondere che ciò è avvenuto in virtù del fatto che l’uomo socrate, come corpo anatomicamente strutturato, ha mosso in un certo modo nervi, tendini, muscoli e ossa e si è recato dove ora si trova; ovviamente tale approccio iper-riduzionistico, fisicalistico, è fallace, visto che le vere ragioni dell’agire di Socrate sono da individuarsi nel noûs dell’uomo, del suo progetto come individuo che usa un corpo, della sua prassi etico-filosofica. Nel Fedone platonico, e in particolare in questo passo, che è uno dei più noti e più ovvi alla base del percorso che conduce Platone al cosiddetto déuteros ploûs metafisico, Santayana legge l’origine di una rivoluzione, di un riorientamento tutto-abbracciante della visione del mondo: una rivoluzione che in Dante si è ormai compiuta, visto che il cosmo di Dante è interamente pervaso dalla divina ratio –o giovanneamente dal Logos, o dalla reason, per richiamare la ritraduzione inglese, volutamente ambigua, che Santayana stesso dà del noûs di Anassagora. “The world is a work of reason. It must be interpreted, as we interpret the actions of a man, by its motives. And these motives we must guess, not by a fanciful dramatic mythology, such as the poets of old had invented, but by a conscientious study of the better and the worse in the conduct of our own lives”, scrive Santayana (Three Philosophical poets, p. 75). In Dante il mondo come opera di ragione, con le relative implicazioni etiche, trova la sua suprema composizione estetica. Peraltro quella che il pragmatismo di Santayana si limita qui a definire “fanciful dramatic mythology” è in realtà una componente primigenia di tale rivoluzione -e della connessa composizione estetica. Della funzione del mito in Platone non è nemmeno il caso di parlare: di quel mito che è fabula filosofica che risponde al logos, quando questo rischierebbe di rimanere troppo al di qua dell’immagine del vero che si presume di attingere, di quel mito che condensa il discorso filosofico e lo trasforma in dramma dell’abisso metafisico, in ogni circostanza in cui il logos rischierebbe di smarrirsi e perdere memoria di sé, anche perché il discorso/narrazione attinge dimensioni in cui ciò che si narra/discorre non è stato e non sarà ma è sempre (per dirla con un antico adagio di Salustio Secondo), e dunque è eterno presente che di memoria (senso e organizzazione del passato) non ha bisogno, quanto piuttosto di nuda attenzione. Men che meno è il caso di richiamare l’importanza del mito allegorizzato, alieniloquium (per dirla con il Petrarca delle Familiares, 10, 4) che la poesia medievale europea frequenta e rifunzionalizza. Le stesse rationes formali di Platone non sono poi in definitiva, in sé e per sé, se non la controparte post-alfabetica delle antiche fabulazioni orali-aurali del mito: dèi e dee trasformate in idee, nella rivoluzione mediale dall’oralità alla scrittura, da Omero a Platone, come da tempo l’oralistica ci ha insegnato. I poeti e i teologi medievali, che nell’ottica di Santayana erano gli ultimi esponenti della rivoluzione della soprannatura iniziatasi nel Fedone, sapevano in realtà che teologia e poesia, e quella che la mentalità domesticatrice moderna, con intenzioni intellettualmente meno limpide di Santayana, chiama tuttora fanciful mythology, i figmenta poetici, avevano un legame alquanto stretto. Petrarca afferma a chiare lettere (è quasi superfluo ricordarlo) che la teologia è poetica del divino (poeticam esse de Deo) e Tommaso d’Aquino (Expl. Metaph. I lect. IV) allude più volte ai poetae theologi come Orfeo, Omero ed Esiodo. La teologia e la poesia, nel pensiero da cui si generò la Commedia, sono strettamente e organicamente legate. La poeticizzazione della teologia e il fondamento teologico della poesia sono sistematicamente compenetrati nel Paradiso. Ma nello stesso tempo tale narrazione del divino, teologia nel senso atipico e ampio per cui dobbiamo rifarci, per esempio, alla parallela tradizione dei “teologi” (retori e poeti mistici) bizantini come Simeone, è narrazione del mondo, della sua natura intrinsecamente razionale, o razionalizzabile. Già nel passo del Fedone il mondo è opera di ragione e ha senso nella misura in cui la sua struttura rende possibile l’esercizio dell’aretèe della filosofia che ad essa conduce. Oggi si direbbe, in termini di principio antropico forte, che il mondo è tale perché possa osservarlo e spiegarlo (contemplarlo) la mente di un essere dotato di autocoscienza. La stessa mekhané della materia, o dell’energia, o dei rapporti matematici che la strutturano, sono affamati di forme e gravidi di una potenza spirituale che dà per sé stessa senso all’umanità in cammino. Al Fedone platonico e all’interpretazione che ne dà Santayana fa eco un filosofo e scienziato gesuita che di Santayana fu contemporaneo, e fu a suo tempo confinato dal mainstream teologico, troppo impegnato, come sempre, a difendere la lettera farisaica dell’ortodossia acritica: alludiamo ovviamente a Pierre Teilhard de Chardin, e in specie al suo Hymne de l’Univers (pubblicato postumo, nel 1961). Mette conto qui riprendere per esteso due passi della sezione finale di questo anomalo e meraviglioso inno cosmo-teologico, ultimo lascito di uno dei padri dello studio dell’evoluzione umana. A pag. 71-72, la preghiera teilhardiana al Cristo cosmico, esaltato nella sua presenza totale, mostra accenti e connotati stilistici i cui echi ben si colgono, all’orecchio attento: “Ô Christ Jésus, vous portez vraiment en votre bénignité et votre Humanité toute l’implacable grandeur du Monde. –Et c’est pour cela, pour cette ineffable synthèse réalisée en Vous, de ce que notre expérience et notre pensée n’eussent jamais osé réunir pour les adorer: l’Élément et la Totalité, l’Unité et la Multitude, l’Esprit et la Matière, l’Infini et le Personnel, – c’est pour les contours indéfinissables que cette complexité donne à votre Figure et à votre Action, que mon cœur, épris de réalités cosmiques, se donne passionnément à Vous!… “Les prodigieuses durées qui précèdent le premier Noël ne sont pas vides du Christ, mais pénétrées de son influx puissant. C’est l’agitation de sa conception qui remue les masses cosmiques et dirige les premiers courants de la biosphère. C’est la préparation de son enfantement qui accélère les progrès de l’instinct et l’éclosion de la pensée sur Terre” e più avanti, a p. 75: “Comme le biologiste matérialiste qui croit supprimer l’âme en démontrant les mécanismes physico-chimiques de la cellule vivante, les zoologistes se sont imaginé avoir rendu la Cause première inutile parce qu’ils découvraient un peu mieux la structure générale de son œuvre. Il est temps de laisser définitivement [131] de côté un problème aussi mal posé. Non, le transformisme scientifique, à strictement parler, ne prouve rien pour ou contre Dieu. Il constate simplement le fait d’un enchaînement dans le réel. Il nous présente une anatomie, point du tout une raison dernière, de la vie. Il nous affirme : «Quelque chose s’est organisé, quelque chose a cru.» Mais il est incapable de discerner les conditions ultimes de cette croissance. Décider si le mouvement évolutif est intelligible en soi, ou s’il exige, de la part d’un premier Moteur, une création progressive et continue, c’est une question qui ressort de la métaphysique” (corsivi nostri). Come si può facilmente notare, i temi del Fedone e gli echi danteschi riaffiorano, in modo quasi semiconscio, nell’innodia universale di Teilhard de Chardin, come in una fusione ideale fra il platonismo, l’evoluzionismo e le altre conquiste della scienza moderna (che di Platone quasi è nepote) e la visione (neo-agostiniana, parimenti platonizzante) dei vittorini (di un Ugo da San Vittore in ispecie) per cui visibilis pulchritudo pulchritudinis invisibilis imago est, secondo una concezione etica ed estetica dell’universo visibile che lo stesso Bernardo di Clairvaux, protagonista della prima parte del canto XXIII del Paradiso, condivideva per comunanza di milieu filosofico e mistico.
Ci siamo avventurati finora in territori apparentemente lontani dal canto finale del paradiso dantesco, per individuare, partendo da antichi retaggi, le coordinate contemporanee entro cui la visione conclusiva della sinderesi poetica di Dante si può leggere con occhio attuale, non vincolato alla semplice agiografia poetica, o peggio al baciapilismo dottrinale. Nell’epoca in cui l’ultimo canto della terza cantica della Commediafu composto, la mariologia di Bernardo fu per Dante il tradizionale veicolo mistico-teologico per introdurre la poesia, carica di apofatismo, della contemplazione ultima di Dio. I punti chiave dell’invocazione alla Vergine da parte del mistico di Chiaravalle riassumono questa forma estrema di poesia teologica mariana in un vorticare di espressioni ossimoriche (“Vergine Madre, figlia del tuo figlio/ Umile e alta…/Termine fisso d’etterno consiglio”; tu se’ colei che l’umana natura/ nobilitasti sì che’l suo fattore/ non disdegnò di farsi sua fattura”), su cui sette secoli di acume filologico si sono troppo ampiamente esercitati, perché si possa presumere di esaurirne qui le valenze e i significati. Su questa trama di ossimori ontologici e metafisici torneremo ora piuttosto per instaurare un parallelo, a distanza, con i passi dell’Hymne di Teilhard de Chardin, che peraltro nella sua prima maturazione filosofica si era ispirato alla Beatrice della Commedia e alla mariologia bernardina del finale del Paradiso nel comporre un altro dei suoi inni cosmo-teologici, L’eternel femenin. Il Cristo cosmico di Teilhard è invocato per la sua benignité e la sua humanité. Platonicamente è visto come Logos e Nous del mondo (anche materiale) nella sua auto-organizzazione evolutiva, e soprattutto come suo telos. L’eternel femenin deve il suo titolo (Das Ewig-weibliche) a Goethe, l’ultimo dei tre poeti-filosofi del canone di Santayana, e si propone come un ripensamento in chiave primonovecentesca del femminile mistico ideale delle dantesche amorose visioni. In questo particolare inno cosmo-teologico l’ipostasi del femminino è infinitizzata in termini che ricordano il Cristo cosmico dell’Inno dell’universo: “C’est moi la face conjonctive des êtres, – moi, le parfum qui les fait accourir et les entraîne, librement, passionnément, sur le chemin de leur unification. Par moi tout se meut et se coordonne. Je suis le charme mêlé au Monde pour le faire se grouper, – l’Idéal suspendu au-dessus de lui pour le faire monter.” Questa infinitizzazione del femminino non è nuova nella storia umana; essa riaffiora periodicamente in toni abbastanza riconoscibili: si pensi ad esempio alle parole che Eschilo faceva pronunciare ad Afrodite nelle perdute Danaidi(TrGF 3,44): “ama il Cielo sacro trapassare il Suolo, amore di avere nozze s’impossessa di Terra: la pioggia caduta dal Cielo sposo feconda la Terra, ed essa genera ai mortali pascoli per le greggi e il frutto di Demetra che vivifica: le piante ormai mature sono il risultato più compiuto delle nozze irrorative: io ne sono la causa”. Nel contesto della visione Teilhardiana, cristologia cosmo-teologica evolutiva e mariologia dell’eterno femminino producono di fatto visioni perfettamente sovrapponibili.
In Dante accade qualcosa di assai simile e la terzina chiave per intenderne la concezione è Par. XXXIII, 34-36. Che questa terzina appaia dopo il v. 33 del canto potrebbe non essere così casuale come si vorrebbe credere. In Dante certi messaggi veicolati da questo materiale tardoplatonico-neopitagorico di risulta ibridato con la numerologia cristiana non è mai del tutto privo di significato e la collocazione di questa terzina, come punto culminante della preghiera di S. Bernardo, integra con una sorta di messaggio subliminale l’allusività delle sue parole: “ancor ti prego, regina, che puoi/ciò che tu vuoli, ch’e’ conservi sani/dopo tanto veder, li affetti suoi./ Vinca tua guardia i sentimenti umani…” La formula “che puoi/ ciò che tu vuoli” è sistematicamente associata, in Dante, a Dio stesso (“vuolsi così, colà dove si puote/ciò che si vuole” passim). Sicuramente la visione mariologica dantesca concepisce la Vergine come “creatura”, ma anche come “più che creatura”, di cui il creatore è esso stesso creatura, tanto che i suoi occhi sono “occhi da dio diletti e venerati”, quasi che al suo cospetto Dio, fonte di tutte le ierofanie, si trovi in presenza di una ierofania che lo comprende e lo trascende. Tutto questo è detto in una terzina che segue al trentatreesimo verso, cioè, simbolicamente, a un numero di versi pari al numero degli anni compiuti dell’incarnazione, quasi a suggerire che Maria stessa ne sia, alla stregua del Cristo e come Cristo stesso sia al contempo umana e più che umana.
La visione teilhardiana, che abbiamo fin qui voluto seguire in un modo che forse a qualcuno parrà bizzarro, e la visione platonica del passo del Fedone, ci fanno da guida fino al momento culminante del canto. Dopo l’invocazione, l’inno cletico, di S. Bernardo alla Vergine, una lunga sequenza di terzine, con il suo effetto ritardante, insiste sull’effetto straniante della visione mistica. È appena il caso di riflettere ciò che secoli di dantistica ha stabilito e puntualizzato in vario modo, cioè la responsione, in una struttura ad anello, fra l’esordio del primo canto del Paradiso e questa sezione in particolare del canto conclusivo. Il primo canto si iniziava con una contemplazione del cosmo permeato dal noûs divino ed esaltato in toni da salmo di Davide: “la gloria di colui che tutto move/per l’universo penetra e risplende” (Salmo XVII: caeli enarrant gloriam Dei). L’apofatismo impronta, sotterraneamente, anche l’incipit del paradiso (Par. I, 9“dietro la memoria non po’ ire” = “da quinci innanzi il mio veder fu maggio/che’l parlar mostra, ch’a tal vista cede/e cede la memoria a tanto oltraggio” XXXIII, 55-57). In particolare l’invocazione del v. 13 al “buono Appollo”, preso dalla fancyful dramatic mythology antica, che qui è invece funzionale e strutturale al discorso poetico-teologico, nella sua dimensione simbolica e allegorica, è ripresa da una similitudine che il poeta, al culmine del quadro della sua desolazione cognitiva di fronte all’indicibilità del divino, lascia quasi cadere dal margine delle sue catene rimiche, con eterea nonchalance da frequentatore dell’assoluto: “così al vento, nelle foglie levi/ si perdea la sentenza di Sibilla” (v. 65 s.). Il poeta è venuto in presenza del buono Appollo, il volto umano che si annida, mistero nel mistero, al centro dei tre cerchi concentrici trinitari: ne ha ricevuto responso: il responso si è dissolto nel vento come responso di Sibilla. Come nuovo Enea, Dante ha ricevuto una visione del divino che a Enea non fu permessa; ma a differenza del vecchio Enea, la visione non gli lascia nitidezza di risposte, se non sul generico piano del desiderio di ricongiungersi alla sua fonte: per Dante non si compie la richiesta che Virgilio pone sulle labbra dell’eroe troiano: “foliis tantum ne carmina manda,/ ne turbata volent rapidis ludibria ventis; / ipsa canas oro.” (Aen. VI, 74 ss.) versi che al culmine del Paradiso hanno disseminato il loro influsso intertestuale di ipogramma fra la preghiera di S. Bernardo ai vv. 34-39 e la similitudine dei vv. 65 s. La Sibilla dantesca, in effetti la stessa Vergine in presenza del buono Apollo trinitario, per intermediazione di allegorie, è al culmine di un tripudio di luce, e la sua non è l’ambiguità dell’oracolo arcaico, né tampoco l’oscurità e tenebralità delle Sibyllae a cui sono abituati i naufraghi figli della disillusione cognitiva, anti-edipica, di un Emilio Villa, Dante decostruito alla fine del secolo breve, nonché primo dei rari nantes in gurgite vasto in preda alle tempeste del post-moderno, a cui il foedus comunicativo è venuto meno per disvelato tradimento insito nei responsi. Le visioni dantesche si disperdono al vento della sua memoria impossibile per valore defettivo della mente umana. Eppure un’ombra della luce rimane nell’impressione che il poeta conserva del suo sogno di assoluto: una visione del cosmo, che nella profondità di Dio appare conflato in un volume: “nel suo profondo vidi che s’interna/segnato con amore in un volume/ ciò che per l’universo si squaderna/ sustanzie e accidenti e lor costume/quasi conflati insieme, per tal modo/ che quel ch’i dico è un semplice lume./ La forma universal di questo modo/ credo ch’i vidi…” (XXXIIII, 85-92) = Teilhard de Chardin (Hymne p. 72 già citato sopra): “cette ineffable synthèse réalisée en Vous, de ce que notre expérience et notre pensée n’eussent jamais osé réunir pour les adorer: l’Élément et la Totalité, l’Unité et la Multitude, l’Esprit et la Matière, l’Infini et le Personnel”. L’universo, mimetico dell’assoluto, oppure (à la Cusano) Deus contractus, è come eterno copista dell’ordine del suo Noûs, da come squaderna, sfoglia, in infiniti lacerti di pecia, il codice fondante del Logos. La gloria di colui che tutto move chiude circolarmente, come amor che move il sole e l’altre stelle, la contemplazione dantesca, in cui Dio è portatore dell’haecceitas dell’universo e dell’umano, nella sua polarità maschile (=Cristo) e femminile (=Maria). Al di là della greve esegesi dottrinale imbolsita di formule rituali, materia grezza di cui la filologia dantesca, per dovere di acribia esegetica, è costretta di quando in quando a nutrirsi, il XXXIII canto del Paradiso, distante da noi settecento anni, lascia a quei figli del tenebrale post-responso delle Sybillae post-moderne, un messaggio abbacinante: al di là della problematicità del mondo e delle sue contraddizioni, il cammino dell’umanità ha un senso, nell’ottica storico-cosmica del risveglio della dormiente indifferenza dell’universo alla luce della noosfera: un senso che il tenebrore della post-verità non può annientare e che vede nell’umanità stessa, nella forma più alta della sua presa di coscienza e della sua ricerca di conoscenza, il destino ultimo dell’esistere della storia e del cosmo, per quanta violenza indifferente possa dimorare in entrambi alla luce di ogni bruto fisicalismo e di ogni cinismo intellettuale e politico.
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