A 700 anni da Dante | Dante e la sua erranza veneta, di Enzo Santese
Il contatto con la terra veneta scaturisce dalle dolorose vicende seguite all’abbandono forzato di Firenze, dove avrebbe modo di tornare nel 1315 grazie a un’amnistia che impone comunque il riconoscimento di colpe; Dante le respinge sempre sdegnosamente come infondate; una seconda opportunità gli si presenta con la discesa in Italia di Arrigo VII, ma anche questa ipotesi svanisce con la morte improvvisa del sovrano a Buonconvento nel 1313. La devozione per il personaggio si celebra nel XXX canto del Paradiso (versi 133-138), quando Beatrice indica a Dante il seggio della “candida rosa” dell’Empireo, destinato proprio ad Arrigo: “E ‘n quel gran seggio a che tu li occhi tieni / per la corona che già v’è su posta / prima che tu a queste nozze ceni, sederà l’alma che fia più agosta, / de l’alto Arrigo, ch’ha drizzare Italia / verrà in prima ch’ella sia disposta.”
Nella Commedia i canti XXI e XXII dell’Inferno hanno avuto per il poeta il ruolo di ambiti speculari nei quali riflettere prima di tutto una volontà di distanziarsi dalle ragioni di un’accusa fatta a lui stesso: baratteria, corrispondente a quella che attualmente sarebbe la corruzione di pubblico ufficiale. L’imputazione si amplia peraltro a un gamma estesa di reati che vanno dalla pederastia ai proventi illeciti, dalla frode alle pratiche estorsive; questo comporta una multa di 5000 fiorini, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e, quello che più conta, l’esilio (in contumacia) e “se lo si prende, al rogo, così che muoia”.
Carlo di Valois è il capo delle truppe angioine, fatte intervenire dal Papa Bonifacio VIII a Firenze per porre fine alle violenze tra Bianchi e Neri con l’intento di favorire questi ultimi nella scalata al potere; il disegno si compie con la cacciata della parte in cui milita Dante, costretto alla via dell’esilio dopo essersi proclamato più volte innocente. Da qui ha inizio la sua movimentata erranza presso corti grandi e piccole, dove il riconoscimento della sua rinomanza è già un buon motivo per non essere costretto a elemosinare un ricovero. Così dopo la sosta a Forlì il “ghibellin fuggiasco” (1) giunge a Verona, accolto da Bartolomeo della Scala, nel 1303.
L’esilio è la dimensione dove il poeta fa convivere l’amarezza per la lontananza forzata dalla sua città, l’astio nei confronti dei suoi ex compagni (tant’è vero che pur in maniera frettolosa alcuni studiosi lo credono vicino alle posizioni “ghibelline”), l’umiliazione di dover chiedere ospitalità, ma anche in vari casi l’orgoglio di una contiguità con potenti che mostrano la felicità di accoglierlo nelle loro corti. Insomma il ventaglio di stati d’animo rispecchia un saliscendi che Dante peraltro non fa nulla per contenere e nascondere. Le sue puntate in terra veneta hanno un chiaro riscontro nei documenti lasciati da lui stesso, che servono a distinguere come fonti storiche inoppugnabili i fatti realmente accaduti da quelli che una tradizione localistica ha amplificato a dismisura alimentando una tradizione di aneddoti fantastici. Ugo Foscolo (2), in proposito, è esplicito nel dire che, se il fiorentino fosse stato davvero in tutti i luoghi che reclamano un suo passaggio, avrebbe dovuto essere sempre costantemente in viaggio. Questo vale per il Friuli dove tra gli studiosi e i cultori del tema a lungo si confrontano due posizioni, dirette di volta in volta all’affermazione o alla negazione rispetto alla presenza dell’illustre ospite nelle terre che ambiscono a ornarsi di questo pregio. Sicure prove e talora credibili indizi ci portano a seguire il Poeta a Verona, Treviso, Padova e Venezia.
Alcuni riscontri nella “Commedia”
E il primo confortevole alloggio dopo l’uscita da Firenze è presso la corte degli Scaligeri, prima con Bartolomeo (1303-4) poi con Cangrande (1316-1318), come informa la “profezia” di Cacciaguida nel XVII canto del Paradiso, (3):
Lo primo tuo refugio e ‘l primo ostello
Sarà la cortesia del gran Lombardo
che ‘n su la scala porta il santo uccello;
ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo.
A Verona il poeta può trovare scorci di natura e morfologie del paesaggio in qualche modo assonanti con quelle di casa, per non parlare degli elementi che richiamano direttamente quelli di Firenze: l’Adige con una portata maggiore dell’Arno ma con corso che in maniera simile accarezza il cuore pulsante della città, inoltre il ponte romano e lo scudo protettivo delle colline circostanti. Covando sempre la segreta speranza di poter ritornare presto in patria, si muove con febbrile volontà di conoscere bene luoghi, persone e situazioni che caratterizzano lo scenario geopolitico del tempo; le tappe vere o presunte (sono germinate non poche tradizioni e leggende su passaggi per decine di luoghi che ne hanno fatto un vanto come fossero risultanze storiche certificate) sono davvero numerose e il mosaico frastagliato delle entità comunali del tempo è il territorio in cui il poeta si presenta con la circospezione di chi ha subito il terribile colpo dai capi della “città partita” (4), ma determinato a difendere la propria reputazione macchiata dalla motivazioni della condanna. Tant’è vero che a un amico, forse un religioso, scrive: “Lungi da un uomo, apostolo di giustizia, che egli, dopo aver patito ingiuria, paghi del suo denaro a quelli stessi che furono ingiusti con lui, quasi a suoi benefattori. Non è questa, o Padre mio, la via di ritornare in patria.” (5)
Nel 1305, alla morte di Bartolomeo della Scala, Dante va a Treviso dove soggiorna confortato dalla benevolenza di Gherardo da Camino, che nel XVI canto del Purgatorio ha l’onore di essere citato ad esempio di rettitudine insieme ad altri due vecchi “virtuosi”, Corrado dei conti di Palazzo di Brescia, podestà di Firenze nel 1276, capitano di parte guelfa nel 1277, e poi Guido da Castello, della famiglia guelfa dei Roberti di Reggio Emilia, ospitato da Cangrande di Verona assieme a molti altri esuli come Dante.
Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna
l’antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da Palazzo e ‘l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.
—
[… diss’io:] Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
di’ ch’è rimaso de la gente spenta,
in rimprovèro del secol selvaggio? (6)
Le peregrinazioni di Dante continuano poi con un passaggio a Bologna e, forse, a Padova. In mancanza però di documenti probanti, ci resta l’alone della leggenda secondo cui il fiorentino ha nella città antenorea l’incontro con il suo concittadino Giotto, autore dei dipinti che decorano la Cappella degli Scrovegni.
Quindi la sorte “guida” nuovamente il poeta a Verona, governata da Cangrande che si avvale anche dell’opera diplomatica dell’illustre ospite nelle ambascerie a Venezia e soprattutto a Ravenna. Nella città lagunare si pensa che il soggiorno sia stato solo di “servizio”, quindi piuttosto fugace e frettoloso. Nel 1321 è l’anno più probabile di una nuova missione in laguna per conto di Guido Novello da Polenta, signore di Ravenna.
Che sia il frutto di un’esperienza personale diretta oppure mediata attraverso la fama diffusa della sua marina e della capacità di costruirne gli strumenti essenziali, il riferimento al fervore dell’attività dell’Arsenale è centrale nel cogliere il nesso tra il poeta e Venezia. Proprio all’ingresso principale del grande e storico cantiere lagunare una lapide riporta le tre terzine dal canto dei barattieri dell’Inferno (7):
Quale nell’Arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmar i legni lor non sani,
ché navicar non ponno; e in quella vece,
chi fa suo legno nuovo, e chi ristoppa
le coste a quel che più viaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzaruolo ed artimon rintoppa:
tal, non per foco ma per divin’arte
bollìa la giuso una pegola spessa
che inviscava la ripa d’ogni parte.
La parte iniziale della similitudine è più ampia di quanto sarebbe stato necessario per disegnare agli occhi del lettore il quadro tumultuoso che si presenta nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio, dove le anime dei barattieri sono immerse nella pece bollente. Nella teatralità del racconto si rappresenta il fervore di marinai e calafati, impegnati a riparare e ungere di pece gli scafi delle loro barche.
Esistono abbondanti riscontri (anche se non con l’inoppugnabilità di prove scientifiche) dell’ambasceria per conto del Signore ravennate a Venezia: si tratta di disattivare le potenzialità di un conflitto, cosa che si teme probabile per il risentimento della repubblica di Venezia a causa dei continui attacchi delle navi di Ravenna a merci e a persone. E poi c’è sullo sfondo la questione delle saline di Cervia, in concorrenza con quelle di Venezia. Buona parte dell’influenza della Serenissima sulle realtà statuali vicine è dovuta a una delle sue ricchezze primarie, il sale: basta che ci sia solo l’ipotesi di un aumento del costo del prodotto, oppure addirittura la minaccia di una sospensione o annullamento della esportazione, per far pesare il ruolo della Serenissima nelle dispute e negoziati politici. Arma di pressione potente; è per questo che la prospettiva pur solo lontana di costruire saline nella sua zona di influenza anche indiretta, dà frequentemente corpo alla minaccia di ricorso alle armi. E Dante ha una parte in queste vicende se è vero che Cangrande lo invia a Ravenna per far valere le sue capacità di persuasione oratoria nello stimolo a resistere contro Venezia nella disputa delle saline.
Nel viaggio di ritorno dopo la visita alla “Serenissima”, passando per le valli di Comacchio, il poeta contrae la malaria e muore il 14 settembre 1321 a Ravenna.
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Note
- Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, verso 174: definito “ghibellino” per le sue posizioni filoimperiali.
- Ugo Foscolo, Discorso sul testo e su le opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della Commedia di Dante, Milano, Sonzogno 1887.
- Versi 70-75.
- Inferno, canto VI, verso 61.
- Dante, Epistola XII.
- Purgatorio, canto XVI, versi 121-126; 133-135.
- Inferno, canto XXI, versi 7-15.
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