Amiamo Dante perché ci assomiglia, di Daniele Barbieri

 

Settecento anni dopo continuiamo a leggere Dante. Va concesso: non c’è dubbio che una certa potente retorica nazionalista abbia contribuito a mantenere viva la voce del padre della lingua italiana. Che lo si studi così tanto nelle nostre scuole, e tanto più di Petrarca (che sulla storia della letteratura ha avuto un influsso maggiore di quello di Dante), è sicuramente più un affare di stato che un tributo al merito.

Ma l’Alighieri è ben lontano dal ridursi a questo, o alle pur fascinose vicende della sua vita e del suo tempo. Mi piacerebbe capire perché, benché io ami molto anche Petrarca, la quantità di versi di quest’ultimo che mi siano rimasti naturalmente nella memoria è nettamente inferiore alla quantità dei versi danteschi.

Va detto: Dante sapeva comporre molto bene i versi, e ci ho ragionato più volte sopra (per esempio qui e qui), ma Petrarca non era di sicuro da meno, tanto più che è stato quest’ultimo a dettare il canone per i secoli successivi. Può darsi che, dal mio personale punto di vista, a favore di Dante giochi la sua molto maggiore varietà metrica: endecasillabi a carattere ternario, con accenti sulle sillabe 1, 4, 7 e 10, sono per esempio frequenti in Dante e rarissimi in Petrarca, il quale non ama allontanarsi dagli schemi giambici.

Magari alla varietà metrica dovremmo aggiungere allora la varietà lessicale. Non ci sono rime petrose, o rime aspre e chiocce in Petrarca. Tutto è piuttosto giocato sulla sfumatura, limando via gli eccessi, rendendo qualsiasi cosa dolcemente e meravigliosamente letteraria. Senza necessariamente volerlo fare, Petrarca ha creato il petrarchismo, che ha tendenzialmente rinchiuso la letteratura in una torre d’avorio, per secoli – qualcosa peraltro del tutto funzionale alla visione aristocratica della letteratura e in generale delle arti che si afferma dal Rinascimento in poi, e che non ha ancora smesso del tutto di importunarci.

Sarà allora magari che Dante è stato l’ultimo grande maestro di un’epoca in cui gli aristocratici erano solo dei potenti signori di campagna, da tenere buoni o combattere, certo non da inseguire o mitizzare. Se così fosse, avremmo davvero una forte ragione per sentire Dante assai più vicino a noi di tutti i poeti, anche grandi, che lo hanno seguito.

Rivelerò che, dei grandi, solo Shakespeare e Cervantes mi fanno provare emozioni simili a quelle che mi procura Dante. Guarda caso, si tratta di due autori che non hanno problema né a salire alle vette del Paradiso, né a scendere nelle profondità dell’Inferno, quando affrontano le passioni umane. In questo non sono per niente nobili, insomma. Nessuna torre d’avorio li potrebbe contenere. Per motivi storici diversi, condividono con Dante l’indifferenza ai doveri del letterato di professione.

Si dirà che Dante è stato soprattutto un politico, e questo è stato il suo specifico modo di essere legato al presente, e alle passioni basse o alte che fossero. Cervantes e Shakespeare non erano dei politici; hanno avuto altre modalità per fare cose simili alle sue. E questo dimostra che non è la passione politica in sé a rendere memorabile la poesia di Dante. Semmai, sarà stata la stessa passione di fondo per tutti gli aspetti della vita e dell’animo umano a spingere Dante sia verso l’azione politica sia verso il suo specifico modo di fare poesia.

Amo, di Dante, il suo non indietreggiare di fronte a nulla. Non è da tutti scendere all’Inferno, nemmeno letterariamente. Posso immaginare gli incubi vissuti dall’autore quando doveva immaginarsi quelle scene spaventose, grottesche, riportando quell’orrore all’umano, alle sensazioni, sue e delle anime dannate. Posso immaginare la tensione quando l’autore deve procedere, cornice dopo cornice, insieme con il suo protagonista, lungo l’ascesa del Purgatorio, senza poter saltare oltre. Posso immaginare la difficoltà a descrivere in maniera insieme teologico-filosofica ed emotivamente appassionata i cerchi del Paradiso.

E posso immaginare la musica che risuona nelle orecchie del poeta, che sarà pure aspra e chioccia nei gironi infernali, ma sempre musica è. Per vari secoli ancora, la poesia sarà soprattutto un affare di lettura ad alta voce, in cui la capacità incantatoria sonora del verso resta un elemento cruciale. Tuttavia, mentre Petrarca sembra adeguare i suoi temi alla dolcezza della musica (che esprima sentimenti positivi o anche negativi), Dante avanza fieramente a testa alta persino contro il male estremo, facendo collidere la musica persino con l’orrore, se serve. Un atteggiamento che l’arte ha riscoperto, in verità, soltanto nel Novecento.

Ecco. Probabilmente amo Dante per i suoi contrasti, perché i suoi contrasti rendono la sua arte più contemporanea di tutte quelle venute dopo, per lunghissimo tempo.