A 700 anni da Dante | Le selve (oscure) di Dante, di Bianca Garavelli
Le opere di Dante sono testimoni della complessità delle sue scelte: poeta, uomo politico, studioso dei misteri della natura, affascinato dai mutamenti delle lingue, l’autore affronta disparati argomenti dapprima con curiositas di ricercatore, poi con la solida fede di chi ha trovato nell’Uno il sostegno e la meta. Il suo percorso letterario mostra una sorprendente coerenza fra l’avvio e la conclusione: una chiusura del cerchio nel segno della poesia. Lasciati incompiuti il De Vulgari Eloquentia e il Convivio, il poeta si muove verso la Commedia, opera-mondo che contiene e trasforma tutto il suo sapere e i suoi amari risentimenti di politico tradito. L’aspetto autobiografico del «poema sacro» è uno dei più interessanti da indagare: la poesia della Commedia è duttile strumento di insegnamento, ma anche di indagine personale, percorso in cerca dell’autentico sé. Il poema è al tempo stesso autoritratto, speranza di lasciapassare sociale, riscatto e liberazione. Lasciata alle spalle la «selva oscura» di Inferno I, Dante ne incontra altre sul suo cammino, simboli delle sue delusioni, delle ingiustizie subite, dei cambiamenti profondi nel suo pensiero. Tuttavia, il viaggio lo trasfigura, assorbendo delusioni e rancori, e il viator raggiunge infine una selva che oscura non è.
L’autore conclude la Vita Nuova con una promessa: parlare di nuovo di Beatrice solo per dire ciò che non è mai stato detto di alcuna donna (xlii, 2):
se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna.
Manterrà tale promessa scrivendo la Commedia. Tuttavia, prima di raggiungere questo obiettivo, che è la ripresa coerente di un percorso iniziato con il Dolce Stil Novo, vive un periodo di sbandamento verso una forma di pensiero filosofico radicale che sfiora l’ateismo. È una consolazione filosofica, rappresentata da una «donna gentile» che compare nella Vita Nuova dopo la morte di Beatrice, che poi Dante supera e abbandona, come testimonia il contrasto insanabile con Guido Cavalcanti, che sceglie definitivamente una diversa strada: per lui l’amore verso una donna è ostacolo alla conquista di una felicità intellettuale e laica, mentre per Dante è via verso la felicità nella Luce eterna. Questa fase temporanea del pensiero dantesco, testimoniata parzialmente dalla stesura interrotta del Convivio, diventa la «selva oscura» dell’inizio dell’Inferno. Ma la vita del poeta, come si diceva, è complessa: è sentimentale, filosofica, e anche politica. Mentre elabora il suo pensiero in direzione di una reductio ad Unum, verso la fine del 1301 Dante subisce una grave delusione politica, con l’attacco violento dei suoi peggiori nemici, che lo calunniano e lo costringono a vivere il resto dei suoi giorni lontano dall’amata Firenze. Da qui in poi il poeta alterna la nostalgia per la sua città natale al risentimento per i suoi nemici, che trasforma nel poema in invettive contro la corruzione, l’invidia, la divisione politica che regnavano nella sua città. In alcuni passi del poema questi temi si coagulano in scene intense che declinano in modi vari l’immagine della «selva», simbolo di confusione, oscurità, pericolo. Fino a evolversi gradualmente verso luce e colori nuovi, dall’Inferno al Paradiso.
Il viaggio nell’aldilà inizia all’imbrunire, quando il giorno finisce: una condizione simbolica di incertezza e precarietà. Nel canto II dell’Inferno, il riluttante pellegrino esprime i suoi dubbi a Virgilio: sa di non essere né Enea né San Paolo, che hanno già compiuto una tale impresa, e se ne teme indegno. Ma Virgilio lo rassicura, ed è nel discorso di Beatrice scesa nel Limbo per chiedergli di soccorrere Dante che si svela il suo merito, tale da renderlo non solo degno altrettanto, ma anche più dei suoi predecessori: ha amato tanto Beatrice, al punto da rinnovare per lei la sua poesia, distinguendosi dalla schiera degli altri poeti in lingua volgare con il Dolce Stil Novo (vv. 103-105).
Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?
In altri termini, Dante ha scelto lei, donna angelo messaggera di Dio, quando ha iniziato a seguire la sua vocazione di poeta cantore di un amore che eleva l’anima: e proprio questa scelta ora potrà salvarlo, se tornerà su tale «diritta via». Come del resto aveva promesso a sé stesso nell’ultimo capitolo della Vita Nuova. Ecco che mantiene la promessa: facendo il viaggio con Virgilio, raggiungendo proprio lei, Beatrice, in Paradiso e poi scrivendo la Commedia, cronaca poetica del viaggio in cui supera gli scogli che la vita gli ha messo davanti, rappresentati da altrettante “selve”.
Una metaforica selva è rappresentata dalle tombe infuocate del canto X dell’Inferno: sono qui condannati gli eretici e il distacco dal suo primo amico Guido Cavalcanti, a causa del suo aristotelismo radicale, trova la sua rappresentazione quasi teatrale nel drammatico dialogo con suo padre Cavalcante. Nelle parole di Dante riemerge implicitamente Beatrice, simbolo di un modo di intendere l’amore che Guido «ebbe a disdegno» (v. 63): non è con l’«altezza d’ingegno» (v. 59), la straordinaria potenza del suo intelletto, che Dante ha il privilegio di compiere da vivo il viaggio oltremondano, come crede a torto suo padre, ma per quella volontà superiore di cui l’amata è ambasciatrice, e che Guido non volle accettare.
Segue la selva dei suicidi, nel canto XIII: qui vanno in scena la delusione politica di Dante e il tradimento subito, sublimati nel tragico personaggio di Pier delle Vigne, famoso esponente della Scuola Siciliana. In questo canto si trova la più alta concentrazione di ricorrenze del sostantivo «selva» di tutto il poema. Dante soffre accanto al poeta e politico (proprio come lui) calunniato, colpito da ingiusta accusa a causa dell’invidia da cui era circondato nella corte di Federico II. L’autore ne immortala l’innocenza, e poi se ne distacca dopo tanta identificazione, perché ha scelto di continuare a vivere, e lottare in nome della sua nuova missione di poeta-profeta di tempi nuovi. Non si lascerà distruggere dall’ingiusto accanimento dei suoi concittadini, il suo raggio d’azione supererà le anguste mura della sua città, pur sempre amata, ma ormai preda di sentimenti malvagi, e corruzione irrimediabile.
Una conferma di questa visione negativa della città natale è nel discorso politico del ghibellino ravennate Guido del Duca nel canto XIV del Purgatorio: la «trista selva» di cui parla al v. 64, è proprio Firenze, di cui poco prima aveva definito gli abitanti «lupi» perché avidi e feroci. Dante volta idealmente le spalle a questo focolaio di peccati e continua la sua ascesa, fino ad arrivare alla cima del monte del Purgatorio, ornata dal bellissimo giardino dell’Eden, la «divina foresta» in cui entra nel canto XXVIII. La sua eterna primavera rappresenta la rinascita del pensiero dantesco, attraverso una forma di teologia cosmica impersonata dall’unica presenza che sembra essere di casa nel Paradiso terrestre: Matelda, sorta di ninfa stilnovistica, tanto bella e gioiosa, quanto esperta dei movimenti delle sfere celesti che circondano la Terra, per volontà del Creatore. La selva si è trasformata, non è più oscura: è stata illuminata dalla luce divina. È anche la scena ideale del nuovo Dante, non più impegnato in politica, ma nella ricostruzione di sé stesso come poeta e come profetica guida dei suoi lettori. A conferma dell’avvenuto mutamento, questa stessa «divina foresta» è detta «selva antica» al v. 23; così come è di nuovo chiamata «alta selva» al v. 31 e al v. 158 del canto XXXII. Come si diceva all’inizio, il cerchio si chiude con il ritorno alla poesia della gioventù, che conteneva già il seme della grande poesia del poema sacro.
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