Il pensiero emotivo di Carlo Giacobbi | Zebù bambino di Davide Cortese (Terra d’ulivi Edizioni,2021), nota di lettura

   

Zebù bambino ha per oggetto tematico l’infanzia del diavolo.

Un topic singolare che si sostanzia in un quid novi nel panorama poetico, poiché, da quanto ci consta, mai indagato.

Il corpus testuale è ascrivibile al genere del poemetto; ogni lirica, connotata da brevitas e densità semantica, si atteggia ad idillio – nel senso etimologico di piccolo quadro – della linea diegetica che percorre l’opera.

In primo luogo, come si legge nel componimento incipitario di p. 5, Cortese pone in dominante la compresenza delle polarità bene-male; le stesse, infatti, per quanto idealmente distinguibili, <<scoccano insieme>> (cfr. ibidem), condividono il medesimo ambito spazio-temporale.

Il Nostro attribuisce all’entità-Male l’ipocoristico di Zebù (con chiara allusione al demone Bel-zebù). L’utilizzo del vezzeggiativo-diminutivo è scelta tutt’altro che occasionale; lo stesso è funzionale, nell’intentio dell’autore, ad umanizzare il maligno, a rivolgergli uno sguardo compassionevole.

Le petit diable, il <<bambino>> (cfr. p. 6), il <<Mefistofele piccino>> (cfr. ibidem), il <<piccolo Zebù>> (cfr. p. 8; 12; 14), il <<piccolo demonio>> (cfr. p. 12), il <<diavolo bambino>> (cfr. p. 15) – e si potrebbe continuare – sono locuzioni volte a generare nel lettore una sorta di sympátheia, atta, quest’ultima, a vedere-sentire nel Male, nient’altro che un <<monello>> (cfr. p. 16) malato, id est manchevole d’amore, le cui irriverenze, dispetti, lascivie, inganni, furti ed altre similari furfanterie, sono frutto, appunto, d’un vulnus affettivo.

Quanto esposto è confermato dai commoventi, tenerissimi versi di pp. 23-24, ove Cortese ritrae Zebù bambino nella tristitia della sua solitudine: <<Talvolta se ne sta solo / ginocchia sotto il mento (…) Nessuno lo vede e piange / nel silenzio che fa spavento>> (cfr. p. 23) o nell’atto di compensare il suo <<arcano bisogno d’amore>> (cfr. p. 24) con <<un lecca lecca a forma di cuore>> (cfr. ibidem).

<<Zebù bambino>>, in altri termini, è allegoria – o per dirla con Luperini <<metafora continuata>> – dell’inclinazione alla malvagità che alberga in ognuno; correlativo oggettivo di quell’essere allettati dai <<fiori di melo e serpenti>> (cfr. p. 8) di cui alla narratio veterotestamentaria o, se vogliamo, archetipo dell’ombra Junghiana.

Il maligno, seppure edulcorato dalla tenerezza che ispira il <<bimbo Zebù>> (cfr. p. 16), resta comunque maligno. L’autore pone bene in claris la natura distruttiva e disumanizzante del demoniaco, del <<sei sei sei>> (cfr. p. 13), della Bestia di cui alla Rivelazione giovannea.

Zebù è ludopatico (cfr. p. 6, <<A dadi inganna il tempo malvagio>>); è piromane (cfr. p. 11, <<Brucia il capanno e tanti saluti>>); è omicida – sia pure in senso figurato – (cfr. p. 12, <<Manda al cimitero / la maestra>>); è ladro (cfr. p. 16, <<Ruba la spada di legno a Gesù>>); è bullo (cfr. p. 18, <<”Sei una schiappa>>, <<Sei grasso>>, <<Sei brutto>>. / Ai compagni di gioco dice tutto>>); è sacrilego voyeur (cfr. p. 22, <<Sbircia dalla serratura / il piccolo Zebù. / Guarda intrecciati e nudi / i genitori di Gesù>>); è Anticristo paolino che vuol porsi al posto di Dio (cfr. p. 21, <<Gioca ai funerali di dio>> con recupero del Requiem aeternam Deo di cui a <<La Gaia scienza>> di Nietzsche), che <<Ama la ricreazione>> (cfr. p. 12) ossia la ri-creazione, una novella Genesi del Male.

Ma l’indagine di Cortese non si arresta alla quaestio facti; essa è teleologicamente orientata ad invenire le ratio da cui principia la devianza dei prototipi umani in cui s’incarna il demone Zebù; l’argomento difensivo del quale, addotto a discolpa, è tutt’altro che infondato: <<”L’ho imparato dagli uomini”>> (cfr. p. 20) obietta, a voler intendere che malvagi non si nasce, lo si diventa in ragione di determinismi (ad es. biochimici e culturali) che, seppure non lo annullano, diminuiscono grandemente il libero arbitrio.

Il male, il nemico di Dio, non è un’entità disincarnata dalla storia; in esso possiamo scorgere il volto dell’umano abbandonato a sé stesso, non amato, il dolore cui siamo indifferenti (cfr. p. 23 cit.), lo struggimento d’amore che non siamo disposti ad accogliere (cfr. p. 24 cit.).

La morfologia verbale è connotata dall’uso reiterato dell’indicativo presente (cfr. p. 7, <<Accende>>; p. 16 <<Ruba>>; p. 22 <<Sbircia>>, etc.) che opportunamente cala la presenza del male nell’hic et nunc della vicenda umana, quale entità – come sopra detto – storicamente verificabile per esperienza diretta.

La relazione tra i versi è di impronta – per lo più – paratattica.

Le proposizioni sono collegate tra loro pur restando autonome dal punto di vista semantico e sintattico (cfr., a titolo esemplificativo, p. 7, <<Accende mille fiammiferi nella notte. / Si brucia il ciuffo e le scarpe rotte. / Brucia un nome scritto su una nave. / Brucia la porta per far cadere la chiave.>>).

Il dettato è piano; il registro comune, più denotativo che connotativo, sicché significante e significato tendono a coincidere, non ravvisandosi particolari scarti linguistici.

A livello prosodico, in linea di massima, le misure versali alternano decasillabi (cfr. p. 9, <<Ha macchiato i calzoni puliti>>), endecasillabi (cfr. p. 21, <<Le mani che di giorno hanno picchiato>>) tredecasillabi (cfr. p. 11, <<Incendia la torta del suo compleanno>>) ad altre più brevi, con reiterato uso della rima baciata (AA BB) o alternata (AB AB) in strutture monostrofiche, come ad esempio le quartine che seguono: <<Ha macchiato i calzoni puliti / con il succo di frutti proibiti / poi col verde dell’erba e la terra / dimenandosi a finger la guerra.>> (cfr. p. 9); <<Ali nere d’angelo randagio / ha sul dorso Zebù bambino. / A dadi inganna il tempo malvagio / il signor Mefistofele piccino.>> (cfr. p. 6).

Il poemetto che Cortese consegna al lettore, lungi dal costituire una mera filastrocca per bambini, è opera matura e consapevole, dalle profonde implicazioni filosofico-teologiche nonché sociali di cui sia pure per cenni s’è detto.

Ed è poesia autentica, poiché audace, scevra da reticenze, volta ad evertere ogni forma di tabù del pensiero e dunque a farsi libero strumento conoscitivo.