Testo inedito da Ritorno agli Dei

di Elena Micheletti

 

Mentre
mi sparisci dalle mani
e l’intonaco della tua faccia cade,
dimentico
per quale tuo profilo ho perso il senno
perché destra
o sinistra
fa lo stesso.
E non è una magia
né l’antica astrologia delle cose:
è una Penelope che lascia la tela
e muore.
Mi sono fatta forbice, carta e sasso
ho scoperchiato le stelle.
Mentre tu,
sei rimasto tu.
Un nome ed un cognome,
pagliuzza in un occhio,
asso che prende tutto.
Il mio petto è quattro volte Itaca
ma non chiede a nessuno
di ritornare.
Mi parlavi di un cancello
in fondo al Vicolo della Storta
e avevi ragione:
ad attraversarti non si arriva

da nessuna parte.

Se Penelope alchimista abbandona l’opus, è l’Odissea stessa che si incastra, si blocca al punto in cui la narrazione incide nel presente la propria fine. Se l’anima amante, accesa nella brama del rispecchiamento di sé, gioca d’azzardo puntando sull’Altro e arriva a farsi carta o sasso, lascia all’amato il ruolo che più gli è consono, ed è proprio quando si trasmuta in forbice che c’è da preoccuparsi. Il testimone della storia a questo punto passa direttamente nelle mani del destino. La forbice perde di fronte alla durezza della pietra ma ogni efficace Atropo è in grado di agire anche a mani nude. Semplicemente, lascia andare, elimina l’accordo e sa scordare: Atropo è l’inesorabile, lungimirante giustizia figlia di Temi – o della Notte, abile nell’arte dell’oblio. 

L’anima tessitrice potrebbe unire il Senex al Puer, i tanti volti del principio maschile nell’Uno, così come James Hillman racconta in Saggi sul Puer (1988), evocando nella mia fantasia la nutrice perennemente allattante e curativa, le virtù degli arcani maggiori. Quando Penelope arriva a indossare il ruolo della terza Moira, dunque, possiamo ipotizzare che nella propria attesa laboriosa abbia riconosciuto l’estremo opposto, il momento in cui è possibile togliere con decisione i punti piuma e i punti croce, far saltare le cuciture, i cavi, sbaragliare la trama, sparigliare ogni logica. Senza la Grande Artefice cade il mito e scompare qualsiasi eroe errante, perché non c’è più nessuna meta. L’eco di lei risuona come Itaca polimastica – il corpo dimora del Tutto. Questa Penelope sì che conosce la legge del cancello terminale. Nelle sue mani ogni poema si ferma al punto di non ritorno, senza più un filo che possa macchinare la relazione oppure disfarla. Imparare a lasciare andare è un principio importante della Mindfulness, esercizio quotidiano da affinare tanto quanto il saper portare avanti, utile a non vincolarsi alla tela a tutti i costi.

Scrive Hillman: “Quando la Psicologia Archetipica parla d’amore, essa procede in modo mitico perché è obbligata a ricordare che anche l’amore non è umano. Il suo potere cosmogonico, al quale partecipano anche gli esseri umani, è personificato dagli Dei e dalle Dee dell’amore. (…) Il potere cosmogonico dell’amore di strutturare un mondo attira in esso gli esseri umani in conformità con i vari stili di Dei dell’amore. Vi sono, inoltre, stili di amore che si manifestano in divinità apparentemente estranee all’amore: Atena ama Ulisse coi suoi consigli, con la sua protezione e il suo aiuto a riunirsi con Penelope; Ermes ama Priamo col suo intervento nel furtivo accordo notturno per riottenere il corpo del figlio ucciso. Ciascun Dio ama a suo modo.” (Re-visione della psicologia, 1975)

Se Atena ama Ulisse come una consigliera, se Circe si fa per lui contenitore magico della brama arcaica, se Nausicaa lo ammira e idealizza, Penelope no. Lei è il faro, costante virtù dell’indicare ipotesi di speranza, una speranza che è sempre recuperabile, finché morte non ci separi da noi stessi, raschiando il fondo del vaso di Pandora. Filando le gesta dell’Altro, l’anima ideatrice le traduce in termini di tempo e spazio, prolunga i giorni per mille e una notte. Verso dove, fino a quando…

Visualizzando le figure femminili dell’Odissea in un coro intorno al fuoco sacro del Sé, il perno della Ruota (lama X dei Tarocchi) che queste vanno a comporre non somiglia necessariamente a Penelope e non è di certo Ulisse. Il centro non si rivela donna e nemmeno uomo, perché noi degli  eroi, degli dei e delle dee siamo simulacri sconsacrati, inconsapevolmente prede degli stessi miti che rappresentiamo in un letto a due piazze, in una cucina, qui nelle abitazioni che raccolgono i nostri amori. Ci si aspettava di poter attraversare il Mondo (arcano XXI), e invece, spesso, non si arriva da nessuna parte. Capita allora, lasciando andare il rocchetto, di ritrovare il senno perduto nella narrazione che ci imprigionava. 

Se un giorno Penelope/Shahrazad decidesse di ritornare al telaio, gigantessa dal seno vasto quanto un arcipelago ma bastante a se stessa, se prendesse possesso di navetta e pettine per farne un veliero tutto per sé; se il fare e disfare fosse mirato alla custodia delle trame, leggeremmo il suo racconto per altre mille notti.

Sembra già di scorgerla nei versi, seduta in posa riflessiva con il libro in grembo, una Papessa dei Tarocchi (arcano II), che è dimora in eterna cova, a riscrivere il senso di sé e dell’Altro, dopo aver incontrato l’Appeso (arcano XII), fermo immobile senza progresso né approfondimento, per poi scegliere di voltare la carta della Senza Nome (arcano XIII). Gestante di parole, entra a gamba tesa nella carta mortale. Tra la tela di Penelope e l’uovo sacro custodito dall’icona arcana c’è una somiglianza, ma tutto ha un limite, anche la Fede – virtù così ben rappresentata da entrambe. Ci sono uova e ovuli che, se non fecondati, vengono eliminati con le mestruazioni. Esistono libri che abbandoneremo a metà, senza più leggere né scrivere una sola parola. Conosciamo progetti abortiti, fatti a pezzi, sfruttati al massimo e poi messi da parte perché non adatti a noi. Digressioni che conducono a strade senza uscita. Possiamo tessere arazzi che a un certo punto no, non valgono più la pena. Non è mai tempo perso, il morire a se stesse. 

“Liberato da queste mistiche del figlio-grande madre, il femminile potrebbe mostrare altre individualità, come nell’Odissea, dove, infatti, esso ricopre parecchi ruoli” scriveva ancora Hillman in Saggi sul Puer: “Il femminile nell’Odissea opera sempre in direzione della ricomposizione della casa divisa di Itaca”. Fosse anche nel proprio corpo, aggiungiamo noi, perché è solo ritrovando il vuoto che può nascere un nuovo disegno.  


Elena Micheletti nasce ad Ancona nel 1987. Dopo aver conseguito gli studi in Lettere Moderne presso l’Università di Bologna, inizia a lavorare come docente di scuola secondaria e si dedica maggiormente alla poesia.
Vince il primo premio del Concorso Poesia senza confine di Agugliano (An) nel 2017. Nello stesso anno è segnalata al Concorso Bologna in Lettere. L’anno successivo arriva tra i sei finalisti dello stesso Concorso. Nel 2020 è invitata al Festival omonimo come ospite. Sempre nel 2020 pubblica la sua prima raccolta poetica, intitolata Coazione a ripetere (Nulla Die).
 
Ritorno agli Dei è il titolo della raccolta alla quale Elena Micheletti sta attualmente lavorando.