VENITE A DANZARE NEL DILUVIO: Che mangino caos di Kae Tempest, profetessa rap

 

Una voce tumultuosa e ipnotica quella di Kae Tempest, giovane rapper, scrittrice, drammaturga, performer inglese in grado di trascinare le folle e mettere d’accordo pubblico e critica. Nata e cresciuta 35 anni fa a Brockley, un quartiere difficile e multietnico nella periferia sud di Londra, Tempest è in grado di scrivere una poesia più che mai contemporanea ma radicata nella tradizione letteraria inglese e classica. Non a caso, nell’epigrafe del libro compare una citazione di Blake, la cui poesia profetica e visionaria, anch’essa scaturita da una vita nei sobborghi squallidi e poverissimi di South Bank, è stata la molla che l’ha spinta a scrivere.

Let them eat chaos, tradotto in italiano da Riccardo Duranti (Edizioni E/O, 2016), è sia un poema “scritto per essere letto ad alta voce”, come dice esplicitamente Tempest, che un album, entrambi di grande successo. 

Analogamente alla Terra Desolata di Eliot, anche questo poema si configura come un’opera corale, ambientata alle 4.18 di un mattino qualunque, in una Londra problematica e contraddittoria, nella quale sette personaggi insonni si ritrovano a fare i conti con i propri drammi e ad interrogarsi sullo stato del mondo, mentre le nuvole in arrivo dai quattro angoli della terra stanno per scatenare una pioggia torrenziale sulla città.  Perché, come spiega Kae Tempest, è proprio nell’ora in cui  l’alba è ancora lontana che siamo completamente esposti alla nostra vulnerabilità, senza la possibilità di nasconderci da noi stessi, trincerandoci dietro il lavoro, la famiglia o i figli. E, in solitudine, i nostri pensieri come quelli di uno dei protagonisti, Pete, “sembrano un branco di cani affamati/che si litigano/l’ultimo/osso/che gli è/rimasto”.

Del resto, non è la prima volta che nella letteratura inglese ci imbattiamo nei drammi delle 4 del mattino, l’ora dei complotti, degli incendi  e dei suicidi (basti pensare al Riccardo III di Shakespeare, a Jane Eyre o alla 4.48 Psychosis di Sarah Kane). Forse, però, nel caso di Kae Tempest, ancora più calzante è il riferimento a Philip Larkin che, alle 4 del mattino, “brancola verso il letto dopo una pisciata” e scostando le tende trasale nel vedere una luna che gli ricorda una giovinezza ormai lontana (Sad Steps) o si ritrova sveglio e mezzo sbronzo  a fissare il buio e ad aspettare l’alba, pensando alla “morte infaticabile, d’un giorno intero sempre più vicina” (Aubade).

In Larkin, così come in Tempest, è proprio la messa in scena del quotidiano, descritto con il linguaggio diretto e accessibile dell’uomo ordinario, senza tralasciare dettagli a volte sgradevoli, a caratterizzare il testo. Un linguaggio che si risolve però anche in una grande profondità emotiva e psicologica ed è talvolta attraversato da accensioni improvvise e attimi di lirismo intenso.

Da un punto di vista strettamente formale e compositivo, Let Them Eat Chaos è un poema dal ritmo incalzante, in parte caratterizzato da strofe di lunghezza variabile che si alternano a versi singoli, fulminanti, dove il flusso di coscienza viene repentinamente interrotto: qui è spesso la voce della società dei consumi a parlare, tramite slogan o proclami, ma anche la voce dell’inconscio, che porta alla luce verità sconvolgenti e taciute, in un gioco di sovrapposizioni e giustapposizioni che non può non ricordare nuovamente la Terra Desolata di Eliot. Non mancano però distici a rima baciata, che si ripetono come un refrain, al pari delle ossessioni di cui sono vittime i protagonisti dell’opera e terzine o quartine a rima alternata dal sapore talvolta oracolare, la cui funzione è di rallentare il ritmo, dando particolare risalto al contenuto.

I sette protagonisti di Let Them Eat Chaos sono persone qualunque, la cui vita non è molto diversa da quella di molti giovani coetanei della stessa Tempest che abitano nelle periferie delle grandi città: se nella Terra Desolata di Eliot, Londra è la Città Irreale  con “folle di gente che camminano in cerchio”,  Tempest, voce narrante di questo poema corale, ci ricorda che “andiamo in giro tutto il giorno/ma non riusciamo/ad andare /avanti”.

Il primo dei sette personaggi che incontriamo è Jemma, ex tossica, che sta provando a riscattarsi dopo anni di Ketamina a colazione e bevute fino a farsi scoppiare il cervello, ma non può dimenticare: “ho il cuore ricoperto/di nomi scritti con lo spray/di tutti gli amici/che si sono persi per la strada” e fatica a dormire, perché “i cattivi che ho sulla schiena nel buio/mi stringono forte/tu, invece, non mi hai mai tenuta stretta”.

Diversa è la storia di Esther, badante appena rientrata da un doppio turno, che  abita “nei seminterrati accanto ai garage/dove la gente butta i materassi” ma in cucina tiene “una foto in bianco e nero/ di rondini in volo” e mentre è impegnata a prepararsi un panino, pensa angosciata allo stato del mondo, a “tutto il sangue versato per tirar su questa città/tutti i corpi precipitati/le radici strappate dalla terra/per permettere questi giochi”. Esther è la prima dei sette personaggi a sentire dentro di sé che ribellarsi è possibile, anche se non facile perché “le rivolte sono minuscole/mentre i sistemi sono enormi”.

Un altro personaggio che è sicuramente ispirato alla violenza quotidiana di alcuni boroughs londinesi è Alicia, giovane ragazza madre il cui partner è stato accoltellato a morte. Anche in questo caso Tempest alterna descrizioni di una quotidianità spietata a versi di un lirismo struggente: dopo aver visto il suo compagno che “si teneva la pancia/con la camicia insanguinata”, per giorni vaga “sola per la brughiera sotto la pioggia/sputando versi ritmati nell’erba” e comprende che “si  muore perché altri possano nascere” e che “il senso della vita è vivere/amare se si può/e poi tramandare”.

Nel quartiere ormai sempre più gentrificato,  dove le vecchie topaie sono diventati  appartamenti extralusso e le case popolari si alternano ai grattacieli di vetro, l’omosessuale Pia vive “al quinto piano, dove il vento ti si aggrappa alla mascella/e ti stringe come una morsa”, respirando “grigio olio per friggere e verde Londra umida” mentre la ex squatter Zoe si trova improvvisamente sfrattata e, come tanti altri, fruga “nella melma per sopravvivere”. Perché in questa nuova Londra pensata per i ricchi non c’è più spazio per le tracce del passato e  invano Zoe cerca “le vecchie firme/di graffiti che una volta significavano/territorio sicuro” perché “ogni geroglifico viene cancellato, alla fine”.

Simbolo dei nuovi ricchi abitanti del quartiere è Bradley, giovane e rampante PR maniaco della forma fisica che “riesce a pagare il mutuo/però non si sa come mai/la notte non riesce a dormire”.  Il motif shakespeariano del sonno come sogno e, nel contempo, morte,  ritorna a più riprese nel testo e viene interrotto solo dall’arrivo sconvolgente di un diluvio biblico che costringe i sette personaggi ad uscire in strada, lasciandosi alle spalle il proprio claustrofobico mondo di paure e ribellioni sopite per unirsi in un abbraccio cosmico.

Ed è la voce della tempesta/Tempest a parlare direttamente ai passanti:  “Intenti a sfuggire la pioggia/come se non foste mai stati baciati (…)/Venite a danzare nel diluvio”, perché se è vero che nessun uomo è un’isola (la citazione di John Donne ritorna più volte, con lievi variazioni, nel testo), occorre che qualcuno oggi torni a ripeterci a gran voce che “il mito dell’individuo/ci ha lasciato scollegati smarriti/in uno stato pietoso” e che “siamo scintille/particelle/di una costellazione più grande”.

La pioggia tira fuori la forza  primordiale e incontrollabile che i protagonisti del poema tenevano sopita: così Pete, che ha trovato nella poesia una via di fuga alla sua vita senza prospettive,  “scoppia in una risata antica/un ululato” e Esther “sente se stessa prorompere in uno strano latrato”. 

Sconvolti ed eccitati dalla furia degli elementi i sette personaggi scendono in strada, ciascuno con i propri abiti assurdi e le proprie ossessioni e si abbracciano, “sconvolti e ridenti/con la pelle fradicia di pioggia”, perché solo sentendo l’altro, entrando dentro l’altro, si potranno salvare. Si tratta, forse, di quello che Eliot, nella parte finale della Terra Desolata, chiama “la terribile audacia di un momento di abbandono/che una vita di prudenza non potrà mai revocare”.

Tuttavia, se la Terra Desolata di Eliot si chiude con un “secco sterile tuono senza pioggia”, precludendo ogni possibilità di rigenerazione attraverso la “Morte per acqua”, qui i corpi si offrono alla tempesta e “le ossa colpite risuonano in coro”. Ma l’unica condizione davvero necessaria affinché questo battesimo sia il punto di partenza per un cambiamento radicale è, per Tempest, amarci gli uni gli altri ogni singolo giorno della nostra vita, senza porre condizioni. E, aggiungeremo noi, continuare a scrivere o a leggere una poesia potente, senza maschere né finzioni, come questa.

 

Kae Tempest

Kae  Tempest (pseudonimo di Kate Esther Calvert), scrittrice e rapper inglese, è nata a Londra nel 1985. La sua opera comprende i drammi Wasted, Glasshouse Hopelessly Devoted; le raccolte di poesia Everything speaks in its Own Way e Hold your own; gli album Balance (con i Sound of Rum) Everybody Down, Let Them Eat Chaos (uscito contemporaneamente anche come poema) e The Book of Traps and Lessons. Nel 2016 ha anche pubblicato il romanzo The Bricks that built the Houses, divenuto rapidamente un best seller. Con il poema Brand New Ancients è stato il primo poeta under 40 ad aver vinto il prestigioso Ted Hughes Award.