Sogni di Emanuela Rambaldi | Uno. La tigre
… ho serbato il sogno ingenuo di diventare uno scrittore, cioè un uomo che tenta di salvarsi da sé. Un uomo che per conservare un po’ di slancio verso l’avvenire, si sforza di cambiare la propria esistenza con quella delle parole.
Yasmina Reza, Adam Haberberg, 2003
Tre sagome di fronte al mare.
Le vediamo da dietro, definite contro l’azzurro che riempie il resto dello spazio visivo.
Sono abbandonate su sedie a sdraio. Immaginiamo faccia freddo perché la forma di ognuno di loro ricorda corpi infagottati in cappotti e coperte.
Parlano.
Sentiamo le loro voci.
– Ma voi, la mattina, ve li ricordate i sogni?
Femminile, sottile, dolce, giovanile, ma potrebbe ingannare. Spesso le voci non ci corrispondono.
L’aria è tersa. La linea che separa il mare dal cielo è netta, pulitissima. Nell’azzurro compaiono i gabbiani. Lo fanno con la grazia che solo gli uccelli possono avere. Decorando l’orizzonte con il volo.
Un sospiro.
– Mah.
Un silenzio.
Poi di nuovo la voce delicata.
– Quando ero giovane, i sogni, al mattino, li scrivevo, per non dimenticarli.
Ecco, appunto. Le voci ingannano. Non è giovane, o almeno non così giovane come ci era sembrata.
Silenzio, ancora. Nessun mah.
Forse l’argomento non interessa.
– E li ho sempre capiti. Perché io sogno in trasparenza. Non serve interpretazione.
– Io sì che me li ricordo, la mattina. E anche dopo. – Voce maschile, da affabulatore. – Se volete ve ne racconto uno.
Entra da sinistra. Va al centro e si appoggia alla ringhiera.
In piedi, guarda gli altri. Guarda noi. Un sorriso a metà strada tra il beffardo e il compiaciuto.
Siamo su una terrazza.
– Io lo racconto e voi me lo spiegate, eh Giselle? – si rivolge alla donna dalla voce tenue.
– Mi confondete. Lo fate apposta. Ho detto che capisco i miei sogni. Non quelli di tutti. – si ritrae lei.
Cosa ci facciamo qui? Stiamo aspettando l’estate. Stiamo sognando di ritornare indietro. Il calore questo fa, inumidisce la pelle. Colora i tratti del viso. Insomma, ringiovanisce.
– Che fate di bello?
Voce squillante, giovane davvero. Un giaccone nero abbottonato a metà su leggeri pantaloni chiari. Una sigaretta tra le dita.
Anche lei entra da sinistra. Anche lei si appoggia alla ringhiera, accanto all’affabulatore, ma rivolta verso il mare.
– Si parlava di sogni – dice lui.
– Ah, questa notte vi ho sognato, tutti. – Si volta. – Eravate in piscina e galleggiavate su grandi materassini colorati. Dall’acqua calda emergevano ampi sbuffi di fumo. Avevate bellissimi costumi da bagno, un po’ retrò. Non eravate per nulla infreddoliti. Come se il calore dell’acqua venisse trasferito al materassino e da questo a voi tutti, che ve ne stavate sdraiati, placidi, con il corpo al sole. Strano, voi che avete sempre freddo, no?
– Eravamo felici? – chiede la voce tenue.
– Sì, direi di sì. – si ferma un attimo a pensare – decisamente sì. Sorride. – Finisco la sigaretta e vado, aggiunge, con un altro sorriso – ci vediamo a pranzo.
– Io nella mia vita ho fatto tanti sogni, ma di giorno.- voce femminile, roca, bassa, ma ferma.
– “Chi sogna di giorno è pericoloso, perché può rendere possibile il suo sogno”. – Le risponde una voce maschile, roca, bassa, lievemente sprezzante. Ecco. Facciamo la conoscenza con l’intellettuale del gruppo.
– Allora, lo volete sentire il mio sogno? L’affabulatore è impaziente.
– E’ notturno o diurno? – L’intellettuale, non si capisce se sincero o provocatorio.
– Notturno, ovvio.
– Io nei sogni sono sempre in luoghi dove non vorrei essere, con persone che non vorrei vedere, a fare cose che non vorrei fare. – La voce profonda è un tantino annoiata.
– Vabbè, se non interessa…
Cosa ci facciamo qui? Preghiamo che la morte arrivi senza essere annunciata.Tornare indietro è impossibile. Esiste una cosa più terribile di questa?
Sembra scoraggiarsi per un attimo, poi continua.
– Sono in un campo. Uno di quelli ai margini delle città. Grande, sporco, spoglio, spelacchiato. Più in là vedo i viali di circonvallazione. Lo attraverso per raggiungere una casa in costruzione. Di lontano vedo un uomo fuggire, raggiungere un’auto, partire.
Mi accorgo troppo tardi del motivo: una grossa tigre al centro del campo. So che mi ha visto. Non posso scappare. Mi inseguirebbe. E nella corsa, vincerebbe.
Mi lascio cadere a terra. Spero così di attirare meno la sua attenzione.
Ecco che la tigre si avvicina. So con certezza che mi sbranerà. Immagino cominci dal viso e me lo figuro fatto a pezzi.
La tigre mi annusa. Io – con un gesto folle – le metto una mano sulla testa e comincio ad accarezzarla come si fa con i gatti. La tigre – inspiegabilmente – accetta le carezze. Si sdraia a sua volta accanto a me, mansueta. Continuo ad accarezzarla. Lei lascia fare.
Accorre una folla di curiosi.
Mi sveglio.
– C’est tout?
– C’est tout. Non vi disturbate ad applaudire. – Nel dirlo lo vediamo sorridere soddisfatto, un po’ sornione.
– No no, gli applausi qui servono. Complimenti al domatore. Non è facile, nella vita, saper placare le nostre belve.
La scia di un aereo trafigge come una lama sottile il piccolo groviglio delle nuvole che si è formato intorno al sole e ne esce indenne. Libera. Luminosa. Tutti sollevano la testa per guardarla.
La vita è così. Come i sogni. Ci disorienta.
***continua***
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