Tra le terre di Sandro Pecchiari | Al-Urdunn
Entrando da Umm Qays, dopo gli sbarramenti in mezzo al nulla a sud di Tiberiade, il verde delle coste del lago si svuota in un giallo scartavetrato.
Al-Urdunn – Giordania – è temperature soffocanti, strade in cui la vita si aggroviglia in gangli inafferrabili, caffè per tenersi svegli e affrontare la fatica dei chilometri. Il caffè servito in una quantità debordante è ben lontano da quello servito in tazzine piccole, spesso preziose, che si beve in Israele: la vita dei guidatori e dei viaggiatori qui impone bicchieroni di carta per asporto, una dose bomba per una persona sola che potrebbe soddisfarne altre cinque, sei. E così la quantità eccessiva di caffè è la causa dell’eccesso innervosito che si percepisce attorno: la strada è zeppa di qualsiasi cosa, immondizie in primis, asini, dromedari, trattori, mercati piazzati negli incroci, verdura e frutta in abbondanza, dossi per rallentare la velocità, inaspettati, raramente segnalati. Gente dovunque, ritratti di regnanti, poster di prodotti occidentali, officine meccaniche (per fortuna), micromoschee da paese, supermercati, bancarelle e suq alla rinfusa.
Il mio sillabare l’arabo da prima elementare si erge in boato da stadio quando riesco a capire i messaggi letti in velocità, mentre scanso asini, qualche dromedario, i pedoni saltabeccanti e incuranti, le macchine che seguono delle regole sicuramente aliene. E i clacson continui, da crampo alle mani…così il filo dei pensieri e i discorsi si frantumano mentre la macchina si imbizzarrisce su un ennesimo dosso che bang arriva.
La curva a novanta per ‘Ammān pare condurre in una strada secondaria o in una strada sbagliata, invece inizia una lenta inesorabile affascinante torrida salita che rivela gradualmente una enorme bolgia semi-desertica che ferisce gli occhi ma non riesce a farli chiudere. La terra li conquista e li soggioga con datteri e melograni. E non finisce mai.
‘Ammān la bianca, inizialmente su sette colli come Roma, attualmente accalca e calpesta inesorabile ventidue colline e disorienta il viaggiatore tra spaghetti junctions che portano dovunque (riuscendo a non perdersi), stradine arabe, resti romani. La Cittadella, doveroso sforzo culturale, accoglie i turisti sudaticci con i resti del tempio di Ercole, che spero sia ancora presente.
In effetti ci vuole uno sforzo erculeo per non soggiacere all’esosità dei guidatori dei taxi che è necessario prendere per visitare qualsiasi luogo; la macchina è meglio lasciarla nel parcheggio dell’albergo. Con i tassinari bisogna mostrarsi veri machos: vogliono portarti dove vogliono loro, prendono la strada più lunga anche contro l’evidenza del navigatore e magari ti propongono qualche lupanare dove passare qualche oretta per fraternizzare con i locali. Sempre salmodiando innumerevoli lodi ad Allah e al sovrano. Così capita facilmente di arroccarsi sfibrati e devastati a riposare per qualche giorno in uno dei colli, facilmente quello degli alberghi a Jabal ‘Ammān, e dimorarvi con un Hic manebimus optime di comodo, ripagato sicuramente da ottimo cibo, dolcetti devastantemente irrinunciabili, gioiellerie rutilanti di oro sgargiantissimo. Per noi non abituati, i capannelli di scure donne rumorose e scintillanti di risate, rigorosamente avvolte nel chador, in ammirazione estatica delle vetrine, le trasforma tutte in grotte di ‘Alī Bābā.
Uno si chiede sempre, banale dirlo, che cosa indossino sotto il mantello e che gioielli possano mai scegliere, strettamente intabarrate come sono. Le donne arabe a Tel Aviv, in un’atmosfera meno rigida, si fanno aria con i lembi del mantello scuro, rivelando vestiti coloratissimi e gioielloni vistosi. Una gioia per gli occhi.
Andarsene dal labirinto della capitale non credo susciti alcun rimpianto.
Jarash e Madaba sono sirene efficaci: poco frequentate in agosto, torridissime, con però il vantaggio di non trovare praticamente nessuno e potersi sciogliere comodamente nella nessunissima ombra di Jarash, per il divertimento dei tre- quattro guardiani e avere l’intera città a propria disposizione senza comitive ululanti et similia. Con l’emozione di camminare per le strade dell’antichissima Antiochia.
Madaba accoglie quietamente con negozietti, barettini, anche improvvisati, ristorantini e qualche ristorante significativo. L’obiettivo della visita è farsi rapire dai monumenti e dai mosaici sparsi in giro nella cittadina. La mappa, sopravvissuta in buona parte, della Terrasanta, nella chiesa di culto greco ortodosso di S. Giorgio, è un fumettone riconoscibilissimo di ogni singolo luogo del mondo parzialmente scomparso del sesto secolo d.c., copre l’enorme regione da Tiro al delta del Nilo. Tutto segnato minuziosamente, tutto precisissimo con delle punte di umorismo inaspettato: per sottolineare la salinità del Mar Morto, ad esempio, i pesci che scendono lungo le acque del Giordano fino al mare, invertono la loro direzione per scapparsene velocemente da acque così impossibili. Simbolicamente i pesci che discendono la corrente e quelli che la risalgono segnano il punto preciso del battesimo di Cristo, come però anche a Yarden, in Israele, molto più frequentato. Sembra che siano sempre doppi: basta visitare i due luoghi dell’Annunciazione a Nazareth, le due fontane di Maria, Kafr Nahum, Kafr Kanna con le chiese della moltiplicazione dei pani e dei pesci, le cene, l’acqua trasformata in vino e quant’altro… Nei mosaici sono ben visibili anche le tracce dei guasti del periodo iconoclasta: alcuni personaggi a bordo delle barche sono stati sfigurati irrimediabilmente. Nihil sub sole novi purtroppo… La coerenza di non fermare la propria ingiustificata violenza davanti alle opere d’arte sembra non passare mai di moda.
Però, oltre alle città, i monumenti, i musei, il caos continuo di attività, la Giordania regala, ed è la maggior sirena della mia visita, il silenzio totale del sud. Dopo Petra e lo stupore che suscita indelebilmente, nonostante sia diventata una trappola per turisti, è Wadi Rum che chiama e attrae. Grazie anche ad amici arabi e beduini che ci hanno ospitato nel loro campo piccolissimo fuori dalle rotte convenzionali dove vivere con i loro ritmi originali, lentissimi e discreti, lunghe chiacchierate vicino al fuoco appena la temperatura cala sensibilmente, tè alla menta e cibo onesto. Fuori dal tempo, fuori da ogni possibile spazio che ricordi il pianeta Terra, con una luce incredibile e un’aria da mangiare. Oltre agli wadi da visitare, le memorie di Lawrence d’Arabia, vivissime e inossidabili (la trilogia sacra qui è Allah, il sovrano e Lawrence), l’osservazione del cielo enorme e zeppo di stelle, distesi a braccia allargate su una roccia, attorniati da chilometri di sabbia ripagano di tutta la confusione, la fretta e la fatica precedenti. Qui bisognerebbe lasciarsi decantare per settimane, rallentarsi, rallentare il linguaggio, i gesti, ripulendoli fino a farli diventare essenziali e dall’essenzialità trasformarli in una lingua nuova.
22/03/2022 alle 17:07
Grato nelle ricerche che sento