Sogni di Emanuela Rambaldi | Sedici. Spellbound.

 

Caro Michel,
il tempo è una pozza di pura gioia, quando ti scrivo. In questo gesto divino, che è il far scorrere la penna sul foglio, ritrovo me stessa.

Tutto, al solito, fluisce. Ci dedichiamo a cose futili. Il mare, la notte, il sonno, noi stessi. Ci prendiamo cura, in qualche modo, l’uno dell’altro.
Spesso, ci sorprendiamo sia davvero possibile. Sopravviviamo. Viviamo. E ci sembra, di essere al sicuro, persino, a volte.
lo so, il mondo brucia e noi ci occupiamo di inezie. Ma se anche il mondo lo facesse, forse smetterebbe di bruciare.
E poi, qui, lo sai, abbiamo rinunciato all’ambizione tutta umana di dominare la vita.

Ho sognato che eravamo tutti vittime di un incantesimo.
Non potevamo fare più nient’altro che parlare. Non riuscivamo a smettere, tutti quanti, ma all’unisono, senza confonderci. Le nostre voci erano insieme coro e soliste. Ognuno diceva di sé, e da ognuno di noi affioravano limpide le parole, senza che si sovrapponessero, che si urtassero. Non era il caos dei linguaggi, era la fusione di tutti i nostri io distanti e diversi in una naturale e ovvia comprensione universale. La terrazza era diventata una specie di enorme giara che raccoglieva tutte le nostre parole e le moltiplicava. Una mano enorme vi affondava un cucchiaio e le mescolava, le scomponeva per crearne di nuove e una voce suadente ci invitava a non smettere. Malgrado la dolcezza apparente, io sapevo non si trattava di un suggerimento, ma di un’imposizione.
La voce ci strappava per sempre al mutismo, ci impediva il silenzio.
Poi mi rendevo conto che la voce era quella di Robert, che ci diceva, raccontate, raccoglieremo tutto nel libro, Hélène ed io, e il libro sarà di mille pagine e poi ancora mille e non smetteremo mai di scriverlo, perché insieme, noi scriveremo il libro infinito, in cui tutti ci specchieremo, e ci ameremo nella misura in cui ci riconosceremo.
Ma io, pensavo, non ho mai saputo raccontare storie, ho sempre vissuto alla periferia della scrittura, e della vita, spesso, mi sembra di conoscere solo la stanchezza. Ed ero davvero così stanca, ma insieme così ebbra che non avrei smesso neppure se avessi potuto.

E poi eri tu, Michel, al telefono, muto. Io sola parlavo. E delle frasi che pronunciavo ti indicavo quelle da conservare e quelle da dimenticare. Come si trattasse di scrittura. Come si trattasse davvero del libro.
Tu tacevi, perché ancora la possedevi, l’assenza di suoni. Che stravaganza, pensavo, dopo tutte le parole che mi avevi regalato, nella vita. E io ti dicevo che avrei voluto essere con te, in quel mare che non era più rassicurante abitudine, ma era terra straniera, dove davvero avrei voluto perdermi per non tornare mai più. E ti dicevo, tra poco esploderà l’estate e il profumo dei tigli invaderà le stanze attraverso le finestre aperte e impregnerà i muri e chiunque le abiterà lo indosserà come si indossano i desideri. Allora, ti dicevo, imparerò le leggi dei colori, i segreti della magia, ti cercherò e ti raggiungerò, ovunque tu sia. Sarò bella, Michel, bella come una rivoluzione.

Nessuno di noi voleva liberarsi dall’incantesimo, nessuno di noi voleva risvegliarsi, perché tutti sapevamo che per un po’ il mare ci sarebbe rimasto negli occhi, poi lo avremmo perso.
Ruth augurava a tutti di non arrivare mai al punto della vita in cui la monotonia diventa un modo per ripararsi dalla morte.
Qualcuno, non ricordo più chi, diceva che nel giorno della malinconia solo attraverso il sogno di questo mare ne avremmo tollerato l’abbandono.
Paul dichiarava di voler morire ubriaco, di fronte alle onde. Ma nessuno gli credeva. Perché di fronte al mare Paul poteva urlare di felicità o desiderare di morire, ma non morire davvero.
Così tutti noi continuavamo, con gli occhi chiusi, a parlare, storditi, euforici, rapiti, ammaliati.
Perché ancora non fosse il momento delle promesse. Non ancora il tempo degli addii.

         

***continua***