Sogni di Emanuela Rambaldi | Quattordici. Scrivere, o ciò che resta.
La vita è fatta di penultimi momenti, dei quali non ci si rende conto.
E di ultimi, dei quali ci si rende conto troppo tardi.
La terrazza ora ha tavolini, sedie, ombrelloni. Sono oggetti che creano possibilità.
Pomeriggio.
Hélène e Robert improvvisano un metodo, si accordano per una vaga regola, con la complicità del caso e delle somiglianze.
Chini sui fogli, prendono appunti, alzano lo sguardo, tornano sulle pagine. Leggono, pronunciano ad alta voce, modificano, aggiungono. Rileggono, analizzano, ascoltano, discutono, riflettono. Aggiungono ancora.
Fanno a brandelli periodi. Spostano frasi, trasferiscono simboli, valutano punteggiature.
Correggono ripetizioni.
Sommano segni a segni.
Separano, ricompongono.
Poi, prima dell’ultimo gesto, la lettura ad alta voce, si occupano delle lacune.
Sfrondano, riducono, cancellano.
Annullano.
Il poco che si fissa sul foglio è destino che rimanga, dopo che il superfluo è rimosso.
Scrivono per sottrazione.
Ogni tentativo è un’onda. Un eccesso di mare sulla sabbia che si ritrae e lascia solo schiuma. Il velo umido – l’ombra di ciò che è appena stato, scomparso per sempre, ma che ha cambiato colore alla sabbia – è quello che Julie ascolterà.
Avevano cominciato con un esercizio. Per prendere confidenza, si erano detti.
Avevano lasciato che le loro voci si confondessero.
– Un’urgenza.
– Una febbre.
– Una vertigine.
– Un calo di pressione.
– Un modo per non morire.
– Un modo per non vivere.
– Inseguire le parole. Stanarle. Anche quando ci sembra che siano già state tutte dette e non sia più possibile trovarne altre. Anche quando poi non si sa cosa farne.
– Ambire all’umiltà del genio.
– Aver voglia di lasciare tracce.
– Romanzare la propria vita per farne letteratura.
– Non cedere alla rinuncia.
– Fingere di passare indenni attraverso le ore.
– Accettare la coscienza della mediocrità. E rifiutarne la vanagloria.
– Rubare le vite degli altri. Essere onesti e dichiararlo.
– Correre il rischio di non essere letti.
– Convincersi che dipingere con le parole sia un’espressione che conserva un senso.
– Guardarsi da lontano. Non riconoscere il talento. E avere il coraggio di abbandonarsi.
– Interessarsi ai ricordi.
– Pensare che valga ancora la pena.
– Sorvegliarsi. Non finire distrutti dalle proprie maledizioni.
– Costruire sulle mancanze.
– Fingere di non aver mai abitato altre vite, aver frequentato altre sorti.
– Coltivare il callo nel dito medio.
– Compiere azioni dissennate. Strapparsi di dosso i propri demoni e rinchiuderli in un libro credendo di annientarli.
– Pretendere che siano le parole ad essere amate, al posto nostro.
– Parlare d’altro parlando di se stessi.
– Disegnare i propri limiti, accettarne i contorni.
– Non opporre resistenza. Buttarsi a capofitto nel proprio inferno.
– Fare pace con i propri rimpianti.
– Denudarsi, varcare il confine.
– Farsi carico dei propri personaggi, della loro esistenza, del loro dolore.
– Non romanzare la propria vita per farne letteratura.
– Correre il rischio di essere letti.
– Distrarsi. Farsi travolgere dai propri fantasmi e perdersi.
– Fingere di non sapere fare altro. E se la vita lo impedisce, fingere di non riuscire a fare altro.
– Tenere compagnia alle parole, per non lasciarle spegnere. Per non lasciarle morire.
– Evitare la presunzione che la propria miseria possa interessare a qualcuno.
– Far sì che l’arte esista, malgrado gli artisti.
– Oppure dire basta. Quando la nausea supera l’ebbrezza. Quando l’ansia allaga le reni. Quando la paura della pagina scritta supera quella della pagina bianca. Quando si detesta ogni parola, ogni virgola, ogni pausa, ogni respiro. Buttaretutto. Un grande falò, come da tradizione.
– Che senso ha, Robert?
Lui la fissa, fissa i suoi capelli. Si rende conto di quanto siano biondi.
Lei se ne accorge.
– È il sole, si schermisce, arrossendo. Sembrano più chiari, con questa luce.
– Conoscete questo mare, Hélène?
– Da sempre. Da bambina. Dicono non sia un vero mare.
– Che importa.
– A volte mi sembra oltraggioso che il mare non si accorga di niente.
Robert per un po’ rimane in silenzio. Tra poco, al tramonto, abbandoneranno la terrazza e i gabbiani torneranno ad essere i soli guardiani del mare.
Questo indugiare fino alla fine, fino al buio, fino al punto in cui l’orizzonte scompare, gli sembra assomigliare ad un momento perfetto, che non necessita di un dopo.
– Abbiamo l’idea di un inizio Hélène?
– Forse.
L’inizio è un litigio.
Sembra duri da sempre. E’ violento. Di quelli che lasciano spossati.
Decreta una fine. O forse tutto era già svanito prima che la banalità della violenza prendesse il sopravvento. Era morto col non guardarsi, non toccarsi, per troppo caldo, troppo freddo, troppo tardi, troppo presto, troppo impegnati, troppo distratti.
Anche la stanchezza, quella che si urlano in faccia con disprezzo, anche quella sembra ci sia da sempre. La differenza, forse, ora, è che produce conseguenze. Questa voragine, ma scavata piano, molto prima di qualsiasi deflagrazione.
Da subito, si teme che uno dei due faccia una sciocchezza di cui si pentirà. Da subito si ha paura dell’irreparabile.
Si pensa. Cosa sta accadendo. Dove portano queste pagine, queste parole, che ci trapassano lo sguardo e ci fanno soffrire, e perché non le abbandoniamo finché siamo in tempo. Perché non chiudiamo subito questo libro. Perché non ci allontaniamo. Usciamo. Che bisogno abbiamo di questo dolore. Solo un pazzo, potrebbe pensare che questo dolore ci faccia bene.
Ma si continua a leggere. Come se, nella scrittura, persino il dolore fosse una cura.
Ad un certo punto ci sembra di intravedere una possibilità. Che questi, che sono diventati due estranei, che si sopportano solo nel silenzio o nel chiacchiericcio di serate inutili, nel parlare d’altro, del più e del meno, si ricordino finalmente cosa li ha portati fino a qui.
Un giorno, millenni fa, si sono guardati, si sono annusati, e insieme hanno aperto un varco. Si sono scelti.
Ad un certo punto – in noi – si insinua la speranza che qualcosa di buono possa nascere da questo massacro. Che alla fine, decideranno di non rinnegarla, quella scelta. E sopravviveranno alla distruzione.
– E’ come quando si vede arrivare il temporale, ma si è ancora nella parte soleggiata della costa. Il nero avanza veloce da nord. Il vento incalza, sempre più violento. Ci si sforza di non cedere al panico. Ci si aggrappa alla speranza che di colpo il vento cambi e ributti indietro indietro tutte le nuvole. Si aspetta, scrutando il cielo.
Quasi sempre si decide di fuggire troppo tardi, quando ormai la tempesta è fuori controllo. A volte però, accade che lo si faccia in tempo, un attimo prima che le nuvole coprano per sempre il sole e la pioggia cominci a cadere, sferzante, dolorosa, gelida.
– E’ a questo che aspiriamo.
L’illusione che vincendo la scrittura, vinca la vita.
***continua***
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