Sogni di Emanuela Rambaldi | Due. Il cinese

 

Caro Michel,

è un piacere avere tue notizie, soprattutto perché sono buone – cosa sempre piuttosto ardua, e più che mai di questi tempi.
Come ti invidio, sempre al caldo, a gironzolare nel sud del mondo.
Anche se in verità, il freddo sembra averci abbandonato in questi giorni, ma potrebbe essere un altro dei suoi inganni. Lo sai che ho un freddo atavico, perenne. Sarà perché la notte in cui sono nata avrebbe dovuto essere tenue e soffice come accade in primavera, e invece nevicava. Sono stata strappata al calore, al tepore del liquido submarino nel quale tutti galleggiamo prima di vivere. Deve essere cominciata lì, la mia rivolta contro il freddo della vita.

Non ti scrivo perché ci siano novità, ma, solo per il piacere di immaginarti e di fingere di parlarti. E poi, lo sai, sono una grafomane.
La scrittura è una necessità, e insieme uno sforzo. Si legge e si rilegge e si corregge, per trovare parole migliori, ma le parole non sono mai come dovrebbero essere e allora si riscrive poi – i pigri come me – decidono di lasciar perdere perché sanno che le parole migliori non le troveranno mai.
Il problema dello scrivere quando non si ha niente da dire, non è di facile soluzione. Ma confido nella tua comprensione.

Il gruppo sta bene. Ci tolleriamo, con rispetto. E non è poco.
Parliamo molto.
Abbiamo cominciato un gioco. Ci raccontiamo i sogni. Quelli veri, se uno li ricorda. O quelli inventati. Però i racconti devono avere un certo stile, questa è la regola. Un certo ritmo, e meglio ancora, una morale.
Il primo è stato Marcel, quello che ha il portamento dell’uomo forzuto del circo, anche se non ne ha propriamente quello che si definisce physique du rôle. Il suo sogno, devo dire, gli somiglia. Ma non è di questo che ti voglio parlare.
Io, il mio sogno, lo devo ancora raccontare. E non so se lo farò. Magari lo inventerò.

Siamo un bel gruppo, alla fine. Eterogeneo, ma compatto. E abbiamo una cosa in comune, la decenza di non abbandonarci alle lamentazioni. E’ il nostro collante, la consapevolezza della nostra beatitudine. Gli americani hanno un termine per questo. Blessed. Benedetto. Ma come lo pronunciano loro, ha un tono laico. Fortunato. Ci possiamo permettere questa vista, questi colori. Che altro?
Abbiamo chi si prende cura di noi, in modo benevolo. Siamo indotti alla sicurezza. Che importa se è una menzogna? Lo so, non si è mai sicuri nella vita. E allora? Cosa saremmo, senza le menzogne? Morti probabilmente.
Abbiamo chi ci accompagna dolcemente verso la fine dell’ansia.
E poi c’è il mare.

Un bel gruppo, sì. Quasi tutti hanno rinunciato ai ricordi. Non sempre però. Io, ultimamente, penso spesso alle nostre conversazioni sulla scrittura. Mi sono venute in mente quelle sul cinese della Duras. Il cinese era bello, dicevo io. E tu, no, certo che no, è documentato, era brutto. Non ricordo più da dove venisse questa tua idea. La mia, quella della bellezza, veniva dalla letteratura, questo è certo.
I veri poeti, i veri scrittori, non sono stregoni. Sono alchimisti. Non elaborano strani riti con formule sconosciute e ingredienti misteriosi, ma prendono le parole – quelle che conosciamo tutti, e le compongono in una formula perfetta che noi, i lettori, non saremmo mai stati capaci di immaginare.
Forse, alla fine, non è che io poi ami i libri. Amo le parole che ci sono dentro e gli alchimisti che hanno saputo ordinarle, una dopo l’altra, così sapientemente, proprio in quel preciso perfetto modo in cui io avrei voluto ordinarle, ma come non sono mai stata capace.

Un po’ quello che fai tu con le fotografie.
La fotografia era già li, dici tu. Io l’ho solo vista. Avrebbe potuto farlo chiunque. Eh, però, dico io, l’hai fatto tu. Non un altro. Sta in questo l’arte. Una frazione di secondo. Un guizzo.

Seduta al tavolo di un ristorante all’aperto, osservavo un cinese sulla trentina, viaggiatore solitario. Parlava con i turisti del tavolo a fianco. Beveva te. Ordinava da mangiare. Aveva una maglietta bianca, attillata, e un paio di jeans. Dalle maniche troppo corte si lasciavano ammirare i movimenti dolci dei muscoli, appena un po’ abbronzati. Il cinese non era bello. Aveva un viso irregolare, alla Charles Bronson, labbra carnose, indossava piccoli occhiali, parlava senza sosta, con enfasi. Sprigionava una sensualità serena, che non aveva bisogno di dimostrare nulla, che bastava a se stessa, che esisteva per la delizia degli occhi appannati di turiste occidentali di mezza età.
E poi, come accade spesso nei sogni, improvvisamente tutti i miei amanti mi erano apparsi fusi nel suo corpo, inatteso e bellissimo. Avevo creduto lui avesse voluto evitare il mio sguardo invece era arrivato, veloce e leggero come tutte le sorprese, e mi aveva stretta come si stringono i vecchi amici e gli amanti perduti. E mi ritrovavo a pensare che non avevo notato prima che i suoi occhi fossero così azzurri.
Poi l’avevo riconosciuto. Come era potuto passare il tempo e renderlo così bello, il corpo asciutto, il sorriso bianchissimo, e avergli lasciato solo quella sfumatura di tristezza che tanto gli donava sugli occhi chiarissimi?
Era calata la notte e si erano spente tutte le luci. E il cinese mi aveva ricordato di come li avevo traditi tutti, i miei amanti. Passandogli la lingua sul collo mi ero ritrovata a fare confronti. Vinco io, mi aveva detto, perché nei sogni i tradimenti non contano.
E io avevo avuto la certezza che qualunque cosa fosse successa, qualunque distanza ci avesse separati, lui non mi avrebbe potuta abbandonare – mai. E tutte le volte mi avrebbe ritrovata – e ci sarebbe stato di nuovo quel lungo abbraccio, dove io sarei potuta rimanere – al sicuro.

Dunque? Dunque niente. Perciò non lo racconterò, questo sogno, se non a te.

Ti abbraccio.

Giselle.

 

***continua***