Il pensiero emotivo di Carlo Giacobbi | Sciamano di Donatella Bisutti (Delta 3 Edizioni, 2021), nota di lettura

 

Inediti 2015-2020

In Sciamano la poetessa pone in dominante l’horror-amor vacui che suscita l’incommensurabile, la <<Troppa luce per i nostri occhi abbacinati>> (p. 33), nonché il percepirsi abitata da un Veniente (Egli viene, p. 35) <<che non sono io>> (ibidem), il je est un autre rimbaudiano; un’alterità che, tuttavia, si deve accogliere, cui <<far posto>> (ibidem) per consentirne l’accadere.

Un accadere – per così dire – proteiforme, la mutevolezza del quale determina <<l’inafferrabilità della vita>> (p. 36), l’impossibilità di farne cognitio definitiva.

Tale defezione conoscitiva origina dal mancato invenimento della scaturigine, dell’archè, della <<fonte prima / di ogni fonte>> (p. 38), vale a dire di ciò che è situato al-di-là della ratio, solamente pre-sentibile, fiutabile a livello sensoriale.

Del pari, come il principio, anche la fine resta ignota, anche la <<meta [è] invisibile>> (p. 40). Tra gli antipodi dell’alfa e dell’omega, entrambi come detto logicamente inaccessibili, si muove l’io-lirico, il quale si riconosce homo viator, viandante-pellegrino il cui telos non è approdare al <<luogo-tempo degli uomini>> (ibidem) ma l’essere in cammino; detto diversamente la meta è nell’andare, non nel giungere.

In detto transire esistenziale passato e futuro <<si equivalgono>> (p. 44), a dire, forse, che non esistono o, diversamente, che i momenti temporali si confondono in un’atemporalità che disconosce le categorie tutte umane, e dunque convenzionali, dell’ante e del post.

Quello che esiste è solo l’hic et nunc del singolo passo, l’adesso, l’Io sono del divino che si auto-declina all’indicativo presente quale Via (ibidem), topic evocativo del versetto giovanneo <<Io sono la via, la verità e la vita>> (cfr. Gv 14, 6).

In tale <<strada>> (p. 44), nel farsi del cammino, la dualità (quale ad es. la diade vita-morte) è più fittizia che reale; gli opposti si compenetrano, sono distinguibili solo idealmente; le categorie, gli enti, si confondono fino a giungere a quella coincidentia oppositorum che diviene reductio ad unum; il senso delle entità singolari è quello di farsi unità plurale, amplexus si potrebbe dire, come si legge in Molecole (p. 47): <<Il giorno e la notte / (…) il sole e la luna / (…) il bottone / e l’asola / (…) solo entrando l’uno nell’altro trovano il loro senso>>.

L’henosis, la connessione io-mondo, si raggiungono per il medium del corpo, strumento di cui la poetessa tesse le lodi (p. 49, Lode al corpo), recuperando i topics whitmaniani e francescani di cui a Foglie d’erba (con particolare riguardo a I Sing the Body Electric!) e al Cantico delle creature.

Il mutamento che l’Autrice rinviene nell’esperienza vitale la induce a ritenere che i ricorsi vichiani o la teoria dell’<<eterno ritorno>> ripresa da Nietzsche, siano mere finzioni ideologiche.

Lo si deduce dalla lirica di p. 53, ove si legge <<Primavera ritorna / ma non / lo stesso fiore>>, a lasciare intendere che la medesimezza non solo dev’essere esclusa tra due enti, ma anche nell’ente singolarmente considerato e quindi non oggetto di comparazione. Ciò in quanto anche l’ente in sé non è, ma solo diviene, ed il divenire rifiuta – per definizione – l’immobilità dell’essere o l’identità di esso con esso.

L’ontologia del divenire, la rapidità del mutamento, sono rinvenibili in molteplici liriche, quali ad esempio Interno (p. 56), ove d’emblée, quasi con un coup de magie, la Nostra muove il campo visivo dal dentro <<della stanza>> (ibidem) al <<fuori, al di là della tenda>> (ibidem), dove si spalanca la dismisura dell’<<oceano>> (ibidem); chiuso e aperto, microcosmo e macrocosmo, finito e infinito sono in permanente dialettica, così come lo sono il quasi inaudibile rotolio d’una piccola foglia di quercia e, simul, il suo <<chiasso / così forte nel silenzio>> (p. 57) che tale può essere percepito ad un ascolto più partecipe e consapevole.

Ed è proprio l’attenzione consapevole al momento presente (la sati,  oggi traducibile con mindfulness) che affina l’intimo sentire, che connette al sé più profondo, che consente di guardarsi dall’esterno per percepirsi ispirati, agìti, quasi posseduti dal proprio daimon (junghiano o hillmaniano).

È quanto si legge in Ispirazione (p. 67) ove la Nostra si scopre abitata da <<una me che scrive poesia / [che] mi costringe / ad ascoltare / il suo strano canto / [che] Mi sveglia nel cuore della notte / per scrivere le parole che mi detta>> (ibidem); uno Spirito-guida che pare allocarsi in una metaxú, in una terra mediana, labile, posta tra inconscio e stato di coscienza.

In tale zona liminare, preconscia, la Bisutti rinviene l’humus della sua ars poetica; la poetessa, muovendo dalla percezione dell’ambiguità ed indecifrabilità dei propri stati emotivi (p. 69), elegge il linguaggio poetico a forma superiore del dire, capace, attraverso connotazioni che si smarcano dalla lingua di grado zero, di pronunciare la realtà senza semplificarne la natura – per così dire – ossimorica; la vis eversiva del verso rispetto al <<linguaggio quotidiano>> (ibidem), ai clichés, ai loci communes, è funzionale a non banalizzare il mondo, a prenderlo sul serio, a porre in emersione il mysterium dell’esperienza esistenziale.

La póiēsis dunque, per la Nostra, è attività maieutica, volta a dare alla luce l’ombra psichica che alberga nei recessi della mente, a portare in superficie i conflitti maturati durante l’infanzia (cfr. p. 73, Infanzia) e condizionanti le strutture cognitive; quei dissidi interiori che sovente non trovano soluzione neanche in età adulta (cfr. p. 83, Infanzia irrisolta), vissuti in absentia quali vuoti affettivi – tanto paterni quanto materni – difficilmente colmabili ex post (p. 79, <<(…) mio padre (…) non c’era – semplicemente>>; e in relazione alla figura materna p. 81, <<e subito trovava il modo / di sgridarmi per qualcosa, / rimproverare una mia manchevolezza / per esempio mi ero fatta una macchia sul vestito / non avevo ubbidito abbastanza in fretta>>).

Ma affinché si possa – come scrive Jung – portare <<alla coscienza l’oscurità interiore>> è necessario che la pronuncia poetica sia preceduta da una catabasi, da una descensus ad inferos (p. 99, <<Sono discesa là dove la morte affiora>>), dall’attraversamento de La Noche Oscura del Alma indagata da San Giovanni della Croce e da tanti altri mistici.

Solo dopo aver sperimentato <<il grande / silenzio>> (ibidem), solo dopo aver affrontato il <<buio dove / l’anima si lancia a capofitto>> (ibidem) è possibile render-si in versi in modo autentico, far-si parola latu sensu <<onesta>>, per dirla alla maniera di Saba.

 

Testi 1985-1999

Nella sezione in epigrafe la Bisutti opera una sorta di redde rationem della sua produzione poetica intercorsa nell’arco temporale ’85-’99.

Il corpus lirico delle sottosezioni Violenza (La vittima, p. 119 e ss.; Quante morti, p. 143 e ss.) e Testi da Penetrali sembra porre en relief la vis distruttiva di cui può essere capace l’umano; la storia viene qui iconizzata per il tramite d’un immaginario crudo (p. 119, <<la cicatrice>>; p. 120, <<Gli angeli dalle lingue strappate>>) evocativo d’un mondo quale locus horridus, ove il rapporto con l’alterità pare caratterizzato dall’adesione all’adagio hobbesiano homo homini lupus.

Il richiamo al <<filo spinato>> (p. 120), all’atteggiamento pilatesco del <<Lavarsi le mani / sporche di sangue>> (p. 127), il gusto da Marchese de Sade nell’infliggere dolore (p. 132, <<Mentre tu muori / io sorrido>>), unitamente al catalogo dell’orrore di cui alla lirica di p. 134 <<Lingua. / Cervella. / Trippa. / Occhi di vetro. / Denti d’oro. / Protesi. / Che nulla vada perduto>>, riconducono a quell’inenarrabile di cui scrisse Primo Levi in relazione all’olocausto ed estensibile a tutti gli altri genocidi, crimini contro l’umanità ed altre simili nefandezze, di cui s’è macchiato l’uomo del XX secolo.

Gli eserghi tratti dal Salterio (p. 117) e da Osea (p. 141) rispettivamente anteposti a La vittima e a Quante morti sono espressivi di una precisa intentio dell’Autrice; quella di evidenziare l’alienazione dell’uomo dal divino, iniziata con la caduta di cui alla narrazione veterotestamentaria e proseguita con il fratricidio ad opera di Caino; paradigma-archetipo, quest’ultimo, dell’incapacità di riconoscere nell’altro quello che Lévinas definisce la trace d’una somiglianza con il Dio rivelato, un’entità insostituibile di cui prendersi cura, di cui essere responsabili.

È evidente che se l’alterità viene concepita come limite, ostacolo, monstrum, anormalità, inferiorità, allora <<La bruttezza dell’altro / [sarà] un motivo sufficiente / per ucciderlo>> (p. 153), come ampiamente dimostrato dalle ideologie nonché dalle pratiche eugenetiche imperanti nel secolo scorso.

Ma di fronte alla barbarie la Bisutti non elabora alcuna teodicea.

La sua è parola interrogante, quaestio o querelle che resta allo stato di interrogatio, di <<domanda [che] non deve attendere risposta>> (p. 166), poiché ogni risposta si sostanzierebbe in un vano tentativo di dogmatizzare la liquidità – per dirla con Bauman – della vicenda umana.

Una vicenda mai completamente risolvibile dall’uomo, il quale, come si legge nella lirica di p. 173, è chiamato a superare il suo Inganno ottico, a scostare il velo di Maya delle illusioni, mediante pratiche meditative atte a direzionare il focus su di un <<punto>> (ibidem) per scorgere in esso il tutto, fino alla resa del non più vedere, del non più rappresentarsi la realtà, del non più farsi idolo-immagine di ciò che è indefinibile.

Legato a tale tema v’è quello, mutuato dalla relatività di Einstein e dalla fisica quantistica, della curvatura dello spazio-tempo (p. 175, Il cono) il moto del quale non è più necessariamente uni-verso, o caratterizzato dalla linearità in avanti prima-dopo, id est <<da un passato o un presente verso un futuro>> (ibidem) ma anche pluri-verso in ragione dell’osservatore, e finanche, forse, retro-verso, procedente <<incessantemente verso il passato (…) così noi viviamo procedendo all’indietro a partire dal momento della nostra morte>> (ibidem).

Del resto, la possibilità di essere <<al di fuori delle coordinate tempo-spazio>> (p. 182), il fatto che la verità non sia meta acquisibile per <<progressione dinamica>> (ibidem), cioè in avanti, sono assunti dalla Bisutti a ferma convinzione nei versi di Non ci chiede di avanzare (p. 182 cit.) ove la conoscenza pare avvenire per salto quantico (quantum leap o quantum jump), per <<salto di percezione>> (ibidem).

Tale forma cognitiva, a-logica, pre-razionale, rifugge appunto dal continuum della catena eziologica che lega l’antecedente al suo susseguente; il “sapere” diviene avvertimento, percezione, serendipità, illuminazione improvvisa, intuizione.

Ma perché si possa accedere a tale forma di conoscenza, è necessario disporsi alla propria metamorfosi, al proprio svuotamento (p. 183, <<accettare di privarsi di sé / come acqua che si lasci versare / e prende forma da ciò che la contiene / e corre via>>), alla kenosis che pertiene tanto al pensiero cristiano (cfr. Fil. 2, 7 <<Cristo svuotò se stesso>>) quanto a quello buddista che, specie nei testi canonici della Prajñāpāramitā, insiste sul <<vuoto di sé>> in funzione demolitoria delle ragioni che alimentano la pretesa di autosufficienza dell’io quale entità separata dal mondo.

Fuggire la pienezza (p. 185, <<l’acqua di un vaso / fugge la pienezza>>), de-costruirsi (p. 189, <Più ci affanniamo a costruire noi stessi, più aumenta la velocità con cui ci avviciniamo alla nostra morte>>), <<togliere, fino alla perfetta trasparenza>> (p. 191), <<sottrarre l’eccedenza del tempo>> (ibidem), vuol dire smettere L’armatura (p. 194) d’ogni costrutto mentale, d’ogni dogmatismo, per abbandonarsi fiduciosi al naturale fluire senza opporvi resistenza, atteso che <<Più uno lotta contro le onde, più l’acqua gli invade la bocca, gli occhi>> (p. 197); in tal modo, tutto ciò che percepiamo impediente <<cessa di essere ostacolo per divenire veicolo>> (ibidem) e, dunque, strumento di transito, di Passaggio (p. 189), di Pasqua latu sensu intesa, di Esodo liberante.

La poesia della Bisutti invita a non restare in superficie, ad indagare la sostanza contenuta nell’apparenza della forma, a scoprire <<il sapore del frutto>> (p. 209) che è sotto la buccia, a mordere la realtà per farne esperienza.

Ogni umile cosa (Soffione, Piselli, Fiori, Legna) per l’Autrice, assurge ad occasione di meditazione; la realtà è correlativo oggettivo d’un significato più alto o profondo, nascosto, segreto, da cui la natura profondamente analogica e metaforica della silloge in commento.

Allo stesso tempo i versi esprimono, anche in tale macro-sezione, una insistita conflittualità dialettica; l’infinitamente piccolo contiene l’infinitamente grande (p. 225, <<Una briciola contiene il pane>>); il <<Sentiero è una direzione senza indicazione di direzione>> (p. 231), in pari tempo <<momento dell’andata sia (…) momento del ritorno>> (ibidem); <<La musica del silenzio (…) è solo rumore>> (p. 233).

E tuttavia, come già detto sopra, le antitesi sono sempre vocate alla sintesi, al connubio, alla mescolanza, alla coincidenza (cfr., a fortiori, Coincidere, p. 241), alle Correspondances baudelairiane <<de longs échos qui de loin se confondent / Dans une ténébreuse et profonde unité>>.

Ma saremmo lontani dal vero se ci limitassimo a definire la poetica della Bisutti solo incline allo spirito, alla trascendenza o alla metafisica.

In diverse liriche di Movimenti (p. 239 e ss.), la koinonìa <<corpo e anima>> (p. 242) che rende l’Amore (ibidem) esperienza totalizzante, si atteggia a fatto carnale; l’atto amoroso è latu sensu eucarestia, consumazione d’un corpo che si fa pasto, assimilazione dell’altro in sé, sintesi, dunque, di Eros e Thanatos (p. 245, <<Ti avrò mangiato e succhiato / svuotato / (…) / vorrei che godessi anche tu / della felicità immensa / di essere cibo>> in Canzone d’amore cannibale; p. 247, <<Lo amavo molto. / Volevo / tutto di lui – divorarne / ogni pezzo – succhiare / sperma e saliva – scorticargli la pelle / con la lingua – masticarlo intero>>).

 

Sciamano, Donatella Bisutti, Delta 3 Edizioni, 2021.