Risonanze di Massimo Parolini | Un abitare scomposto: echi da “Elegie per Calypso” (Delta 3 Edizioni, 2023) di Maria Consiglia Alvino

 

LA VOCE DEI LIBRI/ Elegie per Calypso: echi di malinconia e ...

“Quant’è bella giovinezza/ che si fugge tuttavia;/ del diman non v’è certezza/ chi vuol esser lieto sia!”, cantava Lorenzo de Medici nel suo canto carnascialesco dedicato nel 1474 a Bacco e Arianna. Memore del carpe diem oraziano,   il Magnifico ribadiva il concetto dell’importanza, per l’uomo, di vivere il proprio presente con pienezza, senza ansie per il futuro e nostalgia per il passato, soprattutto nell’età più bella, quella della giovinezza.

Questo contrasto psicoantropologico fra desiderio di fissarsi nel presente e nevrosi dell’essere sempre proiettati sui ricordi e sulle anticipazioni-ansie del futuro, è centrale nella raccolta Elegie per Calypso (Fara Edizioni, 2022) di Maria Consiglia Alvino.  Quaranta poesie, da Ogigia a Casa, nelle quali si disegna un itinerario dialettico teso fra, appunto, desiderio di presenziale eternità e tempo, realisticamente, diveniente.

Nell’isola dell’immortale ninfa Calypso troviamo troviamo un “Mare calmo, blu mediterraneo./ Mi dici parole, resta con me./ Qui è tutto sonno e profumo,/ acceso amore perenne sorde felicità, presente (Ogigia). Nell’io, e nell’altro, negli enti, traspare talvolta, nella luce del tempo opportuno-kairos “Una figura lieve”, riflesso e messaggero della “ la divina bellezza” (ibid.). La poetessa-Odisseo è stretta nel polemos fra l’ atemporale battigia (che ha il volto della luce estiva) di Ogigia (soggetto dell’amore e della cura di Calypso) e la comune coscienza del divenire (“la sonagliera del tempo”, Integrare il frammento) che è anche ritorno a casa; l’uomo Odisseo che vive nella nostalgia del passato, della propria terra e degli affetti lontani, relegato ad un “lido petroso” vivendo “la lacerazione presente” sentendo però il sospiro, attorno, degli dei, che “mandano luce dai sassi” (Odisseo) (come lo straniero “dipartito” di cui parla Heidegger a proposito della poesia “Sera d’inverno” di Trakl, che supera soglia-dolore impietrita, accolto da pane e vino sulla mensa), è talvolta prigioniero di un sogno aionico, che eternizza in una disconnessione della mente con la percezione del divenire, togliendo margine e profilo agli enti: Il sole smargina le cose,/ le colline, le case, la strada,/ la strada. Luce sciante/ sui noccioli, nel sangue,/ vento forte sulla disconnessione/ presente./ Un’auto bianca scorre distante./ Condomini di sonno e un monte/ da scalare nascosto, l’infanzia./Tutta questa vita./ Siamo luce, non so./ Definire, disegnare,/ che poi è la stessa cosa,/ fiori sbattuti nel blu./  Cosa resterà di me e di te/ un testo apocrifo senza titolo/ diario di un mare altro/ di un altro verde,/ un’estate chiara, lontana (Scordando Itaca).

La poetessa  vive l’estate come “un bambino appena nato” i cui vagiti gli “scrostano il cuore” (Calypso).

Nel “sordo fruscio dell’io” si desidera “un poco rimanere, altrove. /Voler essere una donna sulla battigia,/nulla più” (Calypso). Essere qui ora, nell’isola “dove tutto muta inerte”, dove come specchi ed echi si può rimanere immobili nella ripetizione, come la musica, senza guardie alla frontiera (In Nasso);   nel presente del vissuto che si dimentica del divenire, stringere “l’ora alle dita” (Canto di Menade), chiamati insistentemente dal nostos dell’Altrove, che è ritorno circolare all’Origine, allo scoglio, alle forme primordiali iperuraniche di un paradiso perduto, movimento incessante dall’Autocoscienza hegeliana che nell’ Aufhebung che afferma, supera e conserva (come negata) ogni forma del suo cammino diretto verso Casa, verso l’Origine. L’ anima  lucertola brucia di desiderio di chiarore e fuoco ma si ritira, per paura, nella “tana oscura” (Lucertola). Nel tiramolla fra un sogno e la morte sempre incombente, cerchiamo di darci un Nome che ci fondi : “La vita, questa vita che vivo da morta/ io la vedo scorrere tutta intorno/ acqua di fiume verso ignoto mare” (Dentro Calypso); “vorrei fermarmi dentro a un’ora, un nome” (Il prato).

Il pensiero che coglie il fondamento, talvolta si fa lievito madre e coglie, con Parmenide e il suo epigono novecentesco Emanuele Severino, l’eternità dell’essere, l’illusione del divenire: “Le cose che guardo sono tutte eterne/ erano qui da tempo, nella congerie/ di attimi e fotoni, senza tempo” (Lievito madre). Rimane “l’ossessione del presente”, una  “gioia fugace”, un “controra d’oro” in lotta perenne con “la distruzione” e  “l’angoscia del giorno che muore, del niente che resta” (Essere aedo).   La caduta nell’abisso può essere preludio di gioia, se nella stanza brilla, alchemicamente, una pietra pronta a trasformarsi in oro: “Quando svanisce, tutto si rivela” (Penelope). Spesso la parola -pur poetica- non esaurisce la vita, il vissuto, è sbiadita “La vita c’è stata, non voglio dirla” (Icaro): le parole sono uno straniero trakliano sulla soglia impietrita: “Vedo arrivarle da lontano,/ parole straniere, divelte”/ […]/ Lo so, posso ancora/ parlare, scrollare questa furia/ di dosso, la chiamano poesia” (Essere aedo). Si richiede un canto delfico, parole pure al posto di “precipiti vagiti” (Canto delfico): ma resta sempre uno scarto, non dicibile, l’oggetto a lacaniano, uno specchio “di contingenze e di arsure” (Dentro l’estate),  il fiato vitale che si vuol risentire. E allora soccorre l’angelo necessario, un’azzurra intelligenza cui chiedere un confronto, la cifra che schiuda l’essenza di una “vita che brucia intorno” (Astronomica) e ci assale. Altre volte si sente invece che “la vita vera” si “pensa e non si vive” (Penelope): il logos-linguaggio è più forte del vissuto stesso. Ma quel logos che è anche l’essenza dell’uomo è ciò che rende sofferenti  e violenti (coscienti del nostro essere-per-la-morte). Gli elementi naturali ci ricordano la pace della semplicità: “Ci vuole nuova acqua,/ la libertà del fiore/ schiuso senza pretese/ un limpido spirito/ bambino/ contare parole buone/ soffiare via la rabbia infusa/ intorno, senza ragione” (Cantico di benedizione). In ascolto di “una vita silenziosa” che non ci “appartiene/ là le cose accadono, accadono/ e basta” (Il mondo all’alba). Bisogna avere “l’ostinazione del bocciolo” (L’orchidea), uno “scabro e nudo animale” (Integrare il frammento),  perché  “non importa se tutto ora è niente,/se una vita non più accade./ Se impazzissi e davvero fossi,/ se non avessi contagio nel sangue,/ vegetale limpido sarei, dentro il sole e nulla più” (L’orchidea) . Essere un bambino, che sa il presente (senza nostalgie e pulsioni di morte): “I piedi nel blu. L’acqua marina/ ti sfiora. Tu ridi/ senza sapere che questo,/ l’abbraccio presente./ Guance al sole, l’inverno lontano./ Sciaborda la gioia, mattino d’agosto./ Sei cresciuto in silenzio, come l’erba/ ostinata del campo. Ti guardo/ cogliere i giorni, sei la risacca,/ spuma e radice. Fossi anche io/ alice veloce, ti seguirei nel salto/ senza più chiamare le cose./Pesano le ali talvolta, allora/ occorre restare. Ti vedo portare/ i raggi, risvegliare un canto assolato,/ io e te dentro il tuo mare (Il mio bambino).

Un bambino che però, crescendo, conoscerà il divenire e l’ombra della morte, le stagioni diverse dall’estate.

Sai, tutto cade./  […]/ E tu, bambino, non ti ho dato/ la luce per consegnarti alla tenebra./ Un dolore mi preme, saperti mortale./ Non ci sono acque di invulnerabile Stige,/ se non questo cuore da offrirti. Allora/  studiamo la terra e i minuti/ l’erba è qui ed è fresca./ Ricordala un giorno, quando/ sarà troppo tardi, ricorda così./ L’autunno di miele/ le castagne e il latte stillante/ questa ancora giovane madre/ questo poco di Tutto (Teti).

Ma nella tensione-pulsione del divenire la poetessa, lasciare fuggire l’ora d’oro dalle dita, la troppa luce, e disegna “geometrie di fuga” (Dentro l’estate) dall’isola dell’immortale Calypso, sentendosi prigioniera, cercando un ritorno a casa perché, come ricorda Heidegger scavando nella poesia di Hölderlin, “i navigatori sono in viaggio verso l’origine del loro proprio essere. Perciò non possono mai diventare avventurieri”. Per loro la traversata del Fuori, il viaggio nell’Altrove, sono esperienza di una alterità irriducibile. Il viaggio del poeta-navigatore può trasformarsi in “una peregrinazione che già dal suo inizio è un ritorno a casa”:

“Qui si inizia e si finisce/ Qui solo l’attesa è infinita/  […]/  le ombre non muoiono/ le vele sono i miei pensieri bianchi/ Non mi volto” (Casa).

 


Maria Consiglia Alvino è nata ad Avellino, nel 1987.  Laureata in Filologia, Letterature e Civiltà del Mondo Antico,  ha conseguito nel 2017 il dottorato di ricerca in Filologia, con specializzazione in letteratura greca antica, presso le Università di Napoli Federico II e Strasburgo. Insegna lettere presso il liceo “V. de Caprariis” di Atripalda (AV), dove vive. Fa parte della comunità poetica Versipelle. Suoi testi in poesia e prosa sono apparsi in blog, riviste e antologie. Collabora con le riviste online Exlibris20 e Readaction Magazine. Nel 2022 è stato pubblicato il suo romanzo d’esordio A volte la neve (Readaction Editrice, Roma), nel 2023 la sua silloge poetica Elegie per Calypso (Delta 3 Edizioni, vincitrice del premio nazionale  L’inedito – sulle tracce del De Sanctis, XV edizione).