Risonanze di Massimo Parolini | Prove d’inchiostro: aqua alta e indugi nella poesia onesta di Francesco Sassetto

 

È una poesia altamente civile, quella di Francesco Sassetto, intendendo l’aggettivo, come ricorda Stefano Valentini (nel suo analitico saggio anatomico/autoptico conclusivo della raccolta) “poesia di rapporto e relazione reale, tangibile, quotidiana non solamente con sé stessi, ma soprattutto con gli altri. Non genericamente con l’altro, entità più o meno astratta, ma con gli altri, concretamente individuati e percepiti”, una poesia “di relazione che non guarda alla generale condizione umana sotto un profilo cosmico ed esistenziale” ma “indagando il rapporto concreto che s’instaura tra gli uomini, l’uno con l’altro e l’uno contro l’altro, immersi nella propria epoca”. E lo è, civile, non solo nella raccolta più recente (Il cielo sta fuori, Arcipelago itaca, 2020) di cui ci accingiamo a far echeggiare qualche risonanza, ma anche, come ci ricorda sempre Valentini, anche nelle raccolte precedenti, a partire dallo “sradicamento esistenziale unito al senso di una destinazione indefinita e incognita, aggravato dalla condizione di pendolarità e precarietà lavorativa” della prima raccolta (Ad un casello impreciso), procedendo nella ricerca di origini e radici della successiva (Background, diverse poesie della quale, anche in parte rielaborate, confluiscono nella nuova raccolta), fino alla raccolta Stranieri, in cui la condizione di straniero diviene approdo comune di una condizione esistenziale, antropologica, sociale.

Una poesia che attinge a semplici fatti quotidiani, vissuti personalmente o di cui l’autore è venuto a conoscenza, comunque entrati nel proprio vissuto giornaliero: ad essi, la “poesia onesta” di Sassetto, per rievocare Umberto Saba, “astemia” e “sobria”, non aumentata, ha “la scrupolosa onestà dei ricercatori del vero”, uno “scandaglio” che cerca il proprio fondo.   

Il titolo della raccolta è un verso conclusivo della poesia Mani di rosa, ispirata a un centro di massaggi cinese, dove le ragazze stanno rinchiuse prigioniere di un congegno di mercato, che forse nel regno dei cieli andranno avanti ma intanto annegano le mani nel sudore dei clienti: ecco, il cielo, esterno, in alto, non dice niente, sembra indifferente alla mercificazione dei corpi e delle anime: un cielo, contenitore che indica un contenuto o, meglio, un creatore, metonimia di un Dio silenzioso, è cifra del percorso poetico della raccolta: le poesie iniziale Background (ripresa da una precedente raccolta) e finale Non importa interrogare (ibid.) fungono da cornice esemplificativa di tale percorso: dipende da dove si viene, dalle radici, dal vissuto, se la poesia parla degli altri e con gli altri, anche se alla fine si è stanchi di accettare e non dire niente. Come ricorda sempre Valentini, le parole chiavi appaiono evidenti, lungo i versi: i nomi, il vuoto, il niente, la bufera, l’amore salvifico nonostante tutto, il cielo-fuori- che però va sempre guardato. La società vive una perdita di valori, l’ultimo uomo nietzschiano grida al mercato della consumopoli la morte di Dio, ma viene ignorato: indifferenza, menefreghismo, disincanto associati, spesso nei più giovani, quasi come reazione e rigurgito nella necessità di darsi un senso, alla facile violenza-sfogo, contro i diversi, i deboli, gli immigrati, gli incapaci, nella ricerca di un’identità semplificata, smemorante la vocazione, pur commerciale, antica di Venezia per il confronto multietnico. Il cielo sta fuori: come ricorda lo scapigliato Arrigo Boito nel suo Dualismo Dio può essere percepito come un capriccioso creatore che  ci scagliò sull’umida/ Gleba che c’incatena  il quale poi dal suo ciel guatandoci/ rise alla pazza scena,/ e un dì a distrar la noia/ della sua lunga gioia/ ci schiaccerà col piè.  

Nelle due sezioni successive della raccolta di Sassetto il rapporto si fa duale e protagonista è l’amore: esso, nella perdita degli immutabili e nella caduta degli dei, sembra l’unica ancora di salvezza, nell’alta marea incombente. Ma ben presto si rivela esso stesso conflittuale, problematico, pieno di incomprensioni e incomunicabilità, di rinunce e distanze: e spesso finisce alla deriva. Ciò che poteva dare consistenza a un’ombra si rivela anch’esso  contraddittorio, dialettico, spazio dove la differenza s’incarna e si fa strappo che unendo divide, di fronte all’alterità, spesso irriducibile, non solo del cielo, ma dell’altro, che può essere con Lévinas ciò  che a partire dal  volto è traccia di infinito, di alterità, limite e termine della domanda su di sé, esperienza centrale di noi stessi e della nostra vita  ma anche, con Sartre, l’inferno, luogo dell’incontro e dello scontro, luogo che ci accoglie ma col tempo può star fuori e porci fuori. Perché, sempre con Lévinas, se la vera vita è assente, noi comunque siamo al mondo, e in questo mondo troviamo l’Altro, che ci interroga e ci inciampa. L’altro, anche quando ci cammina vicino e vive in un rapporto affettivo-duale, si rivela spesso un estraneo e rivela la nostra estraneità a lui, mentre si svela la nostra estraneità a noi stessi: ecco, forse, perché, “il cielo” deve stare (esistere), pur lì, fuori, come orizzonte, certamente dialettico e problematico più che salvifico, ma spazio a partire dal quale il finito (sbattuto dalla bufera, sommerso dall’aqua alta, inghiottito dal tempo divoratore) si definisce col suo Non-io, con la sua infinitudine aperta.Però di questo Dio non se ne può fare a meno, almeno come sfondo-orizzonte necessario per elevare la colpa a livello meta-fisico, perché gli uomini resterebbero indifferenti e noncuranti anche dello sdegno della poesia civile che, al massimo, potrebbe provocare una reazione nei violenti della prassi. Forse è superato anche il cielo industriale di Pagliarani, quello d’acciaio, citato, che non finge Eden: le grandi fabbriche (come la Sirma, Società Italiana Refrattari Marghera, e la Montedison) col loro conto di lutti e distruzione della salute e dell’ambiente, sono ormai chiuse,  riconvertite, e in fase di chiusura) e Venezia non è Milano o Bombay. E’ più uno spazio Apeiron, anassimandreo, dove non si china il dio che si fa carne, che si fa l’altro che mi chiama. Forse si è in attesa di una rivelazione, perché il cielo non può essere veramente vuoto, anche se è muto, anche se non si fa nome: e sulla terra orizzontale il poeta, come ha ricordato in varie occasioni il poeta Gianfranco Lauretano, svolge il suo ruolo fondamentale, quello di osservatore e guardiano dell’umano, di vestale dei valori umanistici e umanitari continuamente calpestati e prevaricati dal consumismo, dalla mercificazione, dall’oggettivazione, dal tecnicismo scientifico dilagante e omologante. Ecco che, rincorrendo rimbaudianamente la propria Alba, il poeta dice e si fa dire i nomi, dà esistenza e dignità agli ultimi, ai giovani profughi fuggiti da violenze di ogni genere, alle tristemente attuali morti bianche sul lavoro, agli anonimi lavoratori veneziani gettati fuori dalla propria bottega o semplicemente dalla propria mansione, magari con un messaggino. Gli uomini sono responsabili di questo degrado, di questo svuotamento, di questo franamento dell’umano: Dio è morto, come ricorda Guccini, nelle auto prese a rate, nei miti dell’estate, ma il cielo sta, pur fuori, e il dentro si definisce a partire da questa separazione, non dalla sua non esistenza: in fondo, sembra dirci Sassetto, negli uomini non si può più sperare, non c’è nessuna umanità pasolinianamente ingenua, periferica, selvaggia, dove si mantenga ancora l’umano: si fugge dalla fame e dai conflitti etnici e in Italia si trova lo sfruttamento del caporalato o sessuale; al massimo si può, non parlando col cliente, avere una funzione di guardiano-accompagnatore di corpi nel supermercato. Valori che i profughi, gli sfruttati, possono capire di più, come la Libertà, da noi dimenticata come i nomi e i volti dei partigiani le cui statue sono ormai accarezzate e ricordate solo dalla marea dall’acqua sporca lagunare (anche nelle date canoniche, della ricorrenza della memoria partigiana); sono valori che anch’essi, a contatto con la nostra società, proprio integrandosi e assimilandosi, dimenticheranno, diverranno flatus vocis, niente. Come ricorda sempre Valentini nella sua ricca analisi: ”A che vale trovare radici, se ogni appartenenza viene annullandosi? La mescolanza delle genti si realizza per casuale affastellamento, per forzata necessità, per un aggrovigliarsi che è quasi un edificio babelico o un girone dantesco, figlio delle esigenze dell’artefatto benessere consumistico che segna questa era rapace. Quei valori vengono ignorati, murati / nei discorsi di circostanza”. E il cielo però continua ad esistere (fuori). A nulla vale il limes fatto di muri, recinzioni, cancelli, siepi, chiusure, nel tempo dell’arsura e dei mutamenti climatici e nel miraggio che il modello omologante della (pubblicizzata) cuccagna occidentale invia via etere ai paesi poveri: la bufera   è in arrivo, l‘acqua alta è un fenomeno in crescita e avverte: la dantesca aiuola che ci fa tanto feroci diviene la sirena di un’ aiuola felice che accarezza con la sua voce melodiosa. Nemmeno nominare è più sufficiente, quei nomi che si pronunciano nelle ricorrenze delle stragi e delle catastrofi, come un tempo si faceva anche negli Ossari, oggi oggetto di scampagnate domenicali e, come successo sul Monte Grappa in giorni recenti, di sciate (il turismo porta schèi). Soddisfatti se calendarizziamo, al posto di qualche santo, qualche ricorrenza, giornata del ricordo o della memoria, per un rito sempre più svuotato da un’abitudine e una retorica stanche e poco convinte, veniamo quotidianamente immersi nella marea dell’oblìo che genera indifferenza: resta una frana di macerie da puntellare, lentamente: ma non si può aspettare lo Stato e tanto meno il cielo: il poeta lo fa a modo suo, osservando, facendo la guardia che vede e trascrive, testimonia (quasi mai con l’invettiva giambica, bensì più col registro elegiaco), lascia traccia storica, non illudendosi che la poesia salvi o migliori, ma giusto per lasciar traccia, fonemi e grafemi che forse la marea porterà altrove, nello spazio e nel tempo o fino al cielo, che è li fuori, chissà… Le grandi fedi laiche, come il comunismo, sono macerie anch’esse, fiabe alla Rodari, sogni divenuti incubi, da dimenticare. L’oblio presuppone un’aver saputo e poi aver dimenticato: è una categoria che possiamo applicare globalmente alla società che procede nella storia: ma in molti casi, più la storia avanza, più la società viene alimentata dall’ignoranza, dal non aver vissuto, conosciuto, ascoltato, ricevuto notizia (dalle famiglie, dalla scuola, dai media). La marea avanza, sommerge, fa sparire e deposita il passato, lo nasconde e non lo presenta alle nuove generazioni, nemmeno a quello di molti giovani insegnanti che dovrebbero trasmetterla ai giovanissimi.

Nella quarta sezione troviamo l’elemento della liquidità minacciata, l’aqua alta della marea d’indifferenza e ignoranza che monta ogni giorno più forte, che grida e avvolge di vuoto e tracotanza, nel rito stanco e quotidiano di chi comunque procede, rassegnato, ognuno (per dirla con Baudelaire) con la sua chimera (sulla schiena), le sue illusioni, per andare avanti, i suoi salmi e rosari da sgranare, il suo pane quotidiano che non è il paradiso, in fondo (ma nemmeno nessun inferno) del chiasso dei caffè di Verlaine: nessun sublime dal basso, solo una mesta accettazione stanca senza aspettarsi più niente dagli uomini né da un dio probabilmente amareggiato/ di averci amato tanto inutilmente. Eppure, in Natale, usando versi di alta spiritualità, il poeta chiede al dio che nasce un nuovo giro di carte per gli sconfitti, per le solitudini d’asfalto, per gli eliotiani uomini vuoti uomini impagliati. Certo, non è mai una fede conclusiva e netta, ma sempre dialettica e problematica, immersa nel caìgo-nebbia, perché ci accompagna spesso il nostro insensato continuare, il rito stanco dei nostri gesti, il senso profondo di vuoto e solitudine che ci dà ombra, spesso senza un dio qualunque da chiamare, in attesa di svaporare, prima della curva stretta dell’ultimo tornante. E il montaliano sole che abbaglia/ è un sole troppo breve, l’epifania ci è negata: e ci si appiglia al vissuto del padre e della madre, come dei granchi che non voglio finire inghiottiti nel pòcio-fanghiglia della laguna: e a pugni chiusi rimane il dubbio sull’esistenza di un cielo chiaro più alto di questa cappa di fumo, / di questa pioggia che scivola sulle pietre / e trascina via foglie morte / e polvere e fanghiglia, di un dio-mago nascosto   che conosce i perché / e le ragioni, che conosce il senso di questo baraccone / questo correre su e giù, questo freddo ma che, come nel testo teatrale Il processo di Shamgorod di Elie Wiesel, non interviene nei momenti della sofferenza estrema (che sia la Shoah o la morte del giovane padre operaio).

Tra l’onda frangente e la risacca, giungono comunque a riva resti, detriti, rimanenze: è la vita, fratello, sembra dirci Sassetto, l’unica reale, in questa aiuola, la sola musica ora (gli fa eco Vittorio Sereni), non musica d’angeli, certo, ma tende che sbattono sui pali.

Forse non siamo, si dice in chiusa, quel nome archetipico scritto (ricordando ancora Montale) a lettere di fuoco, fine della creazione, cari al creatore: per Sassetto è più probabile che noi siamo la chiosa marginale, la prova d’inchiostro/ fuori testo, siamo lo schizzo, ghiribizzo di calamo/ a colmare il vuoto del bordo laterale. Insomma: Se pareba boves, l’indovinello veronese, scritto a margine, che indica la scrittura, l’aratura del foglio bianco dello scrivano: ecco che, sembra suggerirci il poeta, la nostra marginalità e lateralità che colma il vuoto, si fa grafema e fonema, si fa parola e scrittura: forse anche in questo, come nei gesti minimi ma necessari, come in un sorriso che scalda o negli impegni quotidiani, il lavoro e le scadenze, sta lo spazio in cui il cielo si fa più vicino alla terra, il campo alle nuvole, e si può sperare di incontrare l’Alterità: proprio nella Scrittura, presumibilmente  in quella poetica, che si usi un lessico italiano o la lingua materna, il dialetto veneziano, laddove Sassetto raggiunge un’espressività, per un veneto, eccelsa, ritrovabile in Giacomo Noventa e in pochi altri poeti veneti del Novecento.
 

 

Miranese

Si sta qua, in questo recinto di case e avanzi
di un tempo contadino, terra e immobili
sempre all’asta, il prezzo cala e risale
non si vive male, si vive e basta, le macchine
in riga, appiccicate tra lampi abbaglianti e
clacson a esigere il passo, tentare il sorpasso
stridori di freni, scatti d’acceleratore, brucia
l’aria e l’asfalto, la vita s’ingrigia
nell’assenza d’ogni appartenenza.
Formicaio umano, occhi di sopportazione,
integrazione per necessità, qui da tempo sbarcata
una folla di migranti d’ogni migrazione
cittadini d’una città senza nome né confini, confusa
più che diffusa, periferia infinita, genti
nuove mischiate a gente di laguna arrivata
negli anni cinquanta a respirare per prima
il cloruro di vinile a Porto Marghera.
*
Si rincorrono le spire della Miranese senza fine
dalle ultime case mestrine si sparpaglia
una galassia avvelenata di grovigli pseudourbani
 cresciuti a grumi, una nebulosa di sobborghi
senza inizio e senza conclusione, prodotti e servizi
in perenne girotondo, Eurospar, Grand Prix, Alì,
Ikea, Il Mercatone, si va con devozione
alle cattedrali del consumo, processione
di carri da colmare. In questa ammucchiata
a buon mercato si parcheggia auto ed esistenza,
si va avanti, in tanti, si procede forse in direzione
del futuro forse ad un girone più feroce, si vive
in sospensione, stazione o prigione poco importa,
si galleggia inerti
affiancati e distanti.
Sta scritto qui il presente, marchiato col colore del vuoto
il fuoco del niente

 

 

Ufficio postale

All’ufficio postale si armeggia tutti col postamat
aggeggio infernale, il codice da digitare, un vecchio
chino allo sportello “non so, il numero l’ho lasciato a casa”,
la fila s’ingrossa, aspetta sbuffando che il vecchio
si levi, il display segna il numero otto e dietro
sono diciassette. La folla comincia rabbiosa ad inveire,
la colpa è quel pensionato, un ragazzotto gli grida
addosso, un tumulto, è tutta gente che deve lavorare
e ogni volta è uguale, il vecchio trema, si allontana
barcollando, gli occhi velati di vergogna e di dolore.
“Era ora” si dice quasi in coro.
Si celebra anche oggi il rito dell’odio quotidiano
e noi non andiamo in pace.

 

 

E noi ancora a sudare

un pezzo buono di pane, noi affamati e delusi
più volte, ancora alla cerca dell’oro qui
dove manca anche l’acqua a guarire
una sete che ci prese poco più che bambini
a chiamare
amore e attenzione e sorrisi e carezze sul viso.
E ci vuole coraggio e fatica, silenzio e parole
a giusta misura, occorre pazienza, distanza
e presenza a strappare all’ombra degli occhi
abbassati un bagliore improvviso
il tepore di un’appartenenza
                                                                  una fedeltà
in questo mio nostro tempo che frana feroce a chissà
quale abisso, tempo di bassi orizzonti, di volti
coperti che occultano spesso un inganno
                                                     una moneta falsata
da pagare ogni giorno al canto del gallo.
Chiama tu questo come ti pare, dàgli – se credi –
una voce, è sempre soltanto quella carezza
che odora di rose e di sale, quella luce che scende
al fondo a salvare questo straccio sdrucito di cuore
che porti nella tua quotidiana fatica

                                                        è il tuo respiro segreto
la nostra vita smarrita.

 

 

Si cammina ogni giorno

per salti e segmenti, curve, ondulazioni del terreno,
si va per balze e burroni, si passano gironi,
si consumano il cuore e le suole, si cerca un amore
si fanno incontri ancora e ancora baci, talora notti
di pochi tremori, parole vecchie mischiate a parole
nuove, in qualche modo si vive, si gira a tondo,
si danza al tempo che qualcuno comanda, si fanno
esperimenti, si danno appuntamenti e numeri di cellulare
e ancora treni e stazioni e sale d’aspetto, desideri e paure,
si attende un tempo migliore, qualcuno una sera
più cupa e smarrita decide di farla finita.
Chiuso nella sua conchiglia si torce il paguro,
scivola nell’acqua bassa alla riva, non dice
la sua guerra o la sua pace
filtra l’acqua per ore, rincasa e tace

 

 

 No ti ghe gèri

Dove ti gèri co sofegàva strucài
dentro le dòce i agnèi notài al gas?
No ti ga visto rìdar i bechèri?
No mia mama quea note lontana
parlar pian a mio papà destirà
stanco sul lèto e no sentir più
la so vose, i oci vodi sbarài al sofìto
fermà par sempre el respiro?
No ti ghe gèri e no ti xe qua stanote
che giro da solo le cale
sensa meta né amor,
i oci bassi al fìs-cio d’un vento
de véro che giassa ’l cuor e la pèle
serà soto el to cielo nero
muto de stele.

Non c’eri
Dov’eri quando soffocavano ammassati nelle docce / gli agnelli assegnati
alle camere a gas? // Non hai visto ridere i macellai? // Non mia madre
quella notte lontana / parlare piano a mio padre disteso / stanco sul letto
e non sentire più / la sua voce, gli occhi vuoti sbarrati al soffitto /
fermato per sempre il respiro? // Tu non c’eri e non sei qui questa notte /
che giro da solo le calli / senza meta né amore, / gli occhi bassi al fischio
di un vento / di vetro che gela il cuore e la pelle // chiuso sotto il tuo cielo
nero // muto di stelle.

 

 

Non importa interrogare

le nuvole in viaggio o il volo dei gabbiani
in largo cielo, scrutare la parabola che traccia
il loro raggio a risalire dal precipitare
domandare al viaggiatore disposto alle parole
se noi siamo qui giunti casualmente o per miracolo
voluti dall’occhio che sorveglia
un suo disegno immane.
Dicono certuni che siamo noi il testo dell’archetipo
vergato a lettere di fuoco, il codice segreto
che nessuno ha mai saputo e stiamo cari
nel mistero del suo ignoto mirabile estensore.
Ed a guardare il cielo a volte può sembrare.
Ma è il volto che scompare nella nebbia
di novembre, il rombo nero del temporale
che esplode improvviso nel pieno dell’estate
a chiuderci la gola a soprassalto.
Noi siamo la chiosa marginale, la prova d’inchiostro
fuori testo, siamo lo schizzo, ghiribizzo di calamo
a colmare il vuoto del bordo laterale.
Quello che conta alla fine è la crepa che si allarga,
il pozzo nero che tracìma la sua melma
e preme più forte al ferro del coperchio –
conta pagare le bollette già in scadenza,
avere uno stipendio a fine mese
e una faccia sorridente all’occorrenza.

 


Francesco Sassetto vive a Venezia, dove è nato nel 1961. Si è laureato in Lettere nel 1987 presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia con una tesi sul commento trecentesco di Francesco da Buti alla Commedia dantesca, pubblicata nel 1993 dall’editore Il Cardo di Venezia con il titolo La biblioteca di Francesco da Buti interprete di Dante.
Ha collaborato in qualità di cultore della materia alla cattedra di Filologia Dantesca, con attività didattica e di ricerca e ha conseguito, nel 1998, il titolo di dottore di ricerca in “Filologia e Tecniche dell’Interpretazione”.
Ha pubblicato: Ad un casello impreciso (Valentina Editrice 2010), Background (Dot.com Press-Le Voci della Luna 2012), Stranieri (Valentina Editrice 2017), Xe sta trovarse (Samuele Editrice 2017), Il cielo sta fuori (Arcipelago Itaca 2020).