Risonanze di Massimo Parolini | Prima che finisca il filo da ricamo: nota su “L’amore da vecchia” (‘Lo Specchio’ Mondadori, 2022) di Vivian Lamarque
Secondo lo psicanalista-psichiatra-filosofo francese Jacques Lacan l’uomo si rapporta al mondo attraverso una trama linguistica che egli definisce il “significante”. Esso ci pone da subito in rapporto con l’universo del simbolico distinguendoci e separandoci, nella nostra esperienza vitale, da quella degli altri animali. Il reale viene perciò tessuto dal significante, una filiera che ci separa dall’oggetto reale, dalla “Cosa”: l’oggetto che noi esperiamo è il “vuoto”, di cui il significante parla. Nell’uomo il linguaggio rinvia al linguaggio, rinvia al significante, mai all’oggetto-Cosa reale, creando sempre nuove forme, una tensione libidica mai sopita, attraverso un processo simbolico universalizzante continuo. Il reale rimane fuori, come un “resto” e non può essere detto perché nell’atto di dirlo verrebbe perso, come nello sguardo di Orfeo verso Euridice. La Cosa, il reale, è dunque un vuoto non dicibile, una parte “non assimilabile” dell’inconscio. Questo vuoto, questo resto non assimilabile, è da sempre al centro del ronzare poetico di Vivian Lamarque, fra le voci liriche più amate e più lette negli ultimi decenni. Finalista, nella cinquina, del Premio Strega per la (neonata) sezione Poesia, la scrittrice milanese (originaria di Tesero, nella trentina Val di Fiemme), affronta nella sua ultima raccolta (“L’amore da vecchia”, Mondadori Lo Specchio, novembre 2022), come sempre con levità, garbo e sottile ironia, le tematiche a lei care (“dove si infiltra un’oscurità che fa soavemente rabbrividire”, come indicato nella motivazione del Premio Saba di recente attribuitogli): l’amore e l’affettività (per umani, animali e vegetali), la pulsione-paura della morte, la precarietà dei giorni, il filo della memoria, la vocazione poetica, in un proprio autobiografico inventario di esseri e fatti significanti. C’è l’idea del tempo fugit, della precarietà (instabile) dell’esserci (e del ritornarci), il pungolo dell’ultimo pensiero. Ma anche l’attenzione all’attualità, con i suoi episodi di dolore e distruzione. Nove le sezioni: “I nomi degli amanti”, “Poesie con foglie”, “Gli animali addormentati”, “Poesie familiari”, “Poesie ferroviarie”, “Io sono autobiografica”, “Come nel film”, “Io non sono morta io sono nata (il 19 aprile 1946)”, “Poesie sulla poesia”.
Quale amore in queste poesie? si chiede in esergo l’autrice: Per la bella d’erbe famiglia e d’animali/ per la famiglia di cari nipoti e cara figlia/ per i treni e il tempo (che si somigliano tanto)/ per il cinematografo (e le sue sale scomparse)/ per la poesia (“non lasciarmi mai, alfabeto”)/ per qualche fuori tempo innamoramento (per due o tre di voi che non lo sanno)/ e per me stessa naturalmente (“io sono autobiografica”, “io non sono morta io sono nata”)/
insomma per voi, perché “mutato nomine, de te fabula narratur” (Orazio)
Ecco: la Cosa lacaniana, il resto, il vuoto non colmabile, è ciò circolarmente a cui l’Alfabeto fa le sue danze significanti (diverse, ci ricorda Lacan, da quelle delle api tornate all’alveare dopo la raccolta del miele, per indicare alle compagne il luogo del bottino, perché quelle danze hanno un rapporto fisso fra i propri segni-movimenti e la realtà che significano, mentre la “danza” del linguaggio rinvia con segni linguistici ad altri segni linguistici, mai alla realtà della Cosa).
La prima sezione pone in apertura questi versi: Oh non sia nella mano già finita/ la linea dell’amore della vita, dove, in due fluidi endecasillabi, si ribadisce la coessenzialità di vita e amore: vivere è amare, amare è vivere… E potremo dire che “I nomi degli amanti”, aldilà delle figure di uomini amati in incognito, a loro insaputa, dalla poetessa, in fiamma solitaria, sono, per estensione i nomi di tutte le persone, gli animali, le api e le farfalle, le piante, i fiori del balcone e nelle stanze (o ai cimiteri), ai quali magari dare del tu e da bere col bicchiere, i paesaggi, gli oggetti nei quali l’emozione della poetessa ha trovato calore, che insegnano la rinascita, il coraggio, la resilienza… Fra alberi e psicanalista, nel fascino discreto degli amori non corrisposti Lamarque continua a invocare il proprio diritto ad amare ed essere amata, a posarsi come ape sui prati per beneficiare del velo lieve di miele, sentendosi talvolta mai lasciata mai essendo/ stata avvistata / ribadendo la propria destinazione di amante poiché solo chi non ama non potrà mai smettere d’amare. E allora via, senza vergogna, fra deliri, attese di stelle cadenti, cartelli attendipersone (mai giunte) all’aeroporto, la preparazione di un vin brulé (per l’ospite desiderato) in un pomeriggio finestivo, un’amante (per un uomo aspirante) da usare come nonna (che però riconosce da lontano il dolore e lo sa ascoltare). In attesa dell’incanto dei rami in fiore, prima che finisca il filo da ricamo, nella paura di essere un albero potato/ che non trova più/ il suo potato ramo: lacanianamente il soggetto non può riconoscersi come intero, qualcosa è stato amputato, tagliato, qualcosa manca e impedisce l’abb(raccio) con la felicità. Ma al contempo è viva la convinzione che, come scrive S. Giovanni nella Prima lettera, “Chi non ama rimane nella morte”. E allora si parte dall’amore per l’erba, i fiori, le piante, da avvicinare, ascoltare, curare: memore dell’ungarettiana “Cessate di uccidere i morti” la poetessa scrive “Come un Covid/ nuociamo al mondo./ E ai fili d’erba./ Dove noi passiamo/ trema il prato/ a nome/ di tutto/ il creato. Dagli animali (terza sezione) si può imparare la leggerezza, la non invadenza sul mondo, a costruire nidi che non pesano niente, dove ci si può riposare per poi ricominciare – a volare, a fissare, come l’alata, il miele, velo d’oro su una fettina di pane, ma anche, nel caso dei pesciolini, novella S. Antonio da Padova, con un gioco di omonimia, la pericolosità nel seguire la parola “amo” o, infine, riecheggiando Saba, nell’esercizio letterario-esistenziale di parlare ad una capra, non bagnata ma sola e legata, sentendone il medesimo male della vita. Quel male da combattere con l’amore (nelle poesie familiari), col calore delle presenze, anche nel ricordo, familiare: la nipote, seduta sul tram, in attesa del riconoscimento, i nipoti nella foto mentre fanno i compiti al Lido, la figlia puella Miryam, infinita mattina, nel tempo nuovo di tutte tutte le cose, volti cari trapassati e dormienti e tremanti (?), conservati, ungarettianamente nel cuore, dove nessun nome manca o, infine, i due padri: quello naturale-naturalista-abbandonante trentino e quello reale-vitale-accogliente, vigile del fuoco, milanese.
La vita è un viaggio, che dalla seconda rivoluzione industriale ha il volto collettivo del treno: la sezione “Poesie ferroviarie” ci regala versi scritti, appunto, in treno, metafora, in fondo, del tempo pantareico quotidiano. Dal treno di sera, la poetessa vede passare case e luci di casa e pensa: sarà forse una famiglia numerosa? Il pascoliano desiderio di nido famigliare si fa scoperto. La geometria di un finestrino di treno incornicia quindi nel flusso della memoria una foto ricordo della figlia d’oro biondo che ancora saluta la madre, partendo. Dal treno un prete può mettersi in contatto verticale col cielo: il paradiso, in fondo, è incroci di specchi. Ma Lamarque, questi specchi, non li ritrova: tempo fin dalla nascita scaduto, acqua che non ridà immagini, il vuoto lacaniano vissuto come incontrovertibilità della mancanza.
Immagini e specchi che invece, di notte, riflettono chi sta “dentro” il treno: e l’autrice, novella Vitangelo Moscarda, si sdoppia, notando una vecchina occhialuta/ rotonda stupita che tiene in mano un’erbetta/ nel frattempo appassita, che scrive/ qualcosa di continuamente spezzato/ che va sempre a capo e intanto rosicchia -fra le varie cose- forse, la vita. Finestrini e finestre, ci ricorda, come la figlia e le foglie che nomina, sono quelle di tutti i lettori che si accostano alle sue parole. Essere autobiografici (sesta sezione) non significa, quindi, narrare il proprio solipsismo esistenziale, ma affacciarsi al mondo desiderando, con Saba, d’immettere la propria dentro la calda vita di tutti, d’essere come tutti gli uomini di tutti i giorni. E in questo travaso nell’umano appare una bambina trentina di pochi mesi che adorava il balcone della casa di Tesero, forse una siepe artificiale per immaginare (come ricordava in precedenza), una bambina adottata che da adulta guarderà l’orizzonte salutando qualche invisibile persona, per non far capire di esser sola, ammirando una numerosa famiglia sotto l’ombrellone che non ha ombra per tutti. E nella prosa poetica delle pascoliane piccole e minime buone cose quotidiane, Lamarque ritrova la propria ombra e la propria luce, ricordandosi sempre di tenere appuntita la rima vita/matita. Nell’amore francescano per tutto il creato l’autrice tenta di ricalcare, sul vetro terso della finestra con carta-ricalco e affilata matita, ogni giorno della fuggevole vita, ogni alba e mezzogiorno, ogni secondo del mondo. Nell’immersione nella vita di tutti e di tutto si vince il supplizio di non sentirsi, ungarettianamente, in armonia bensì, nello specifico, portatori di una macchia originaria, di una colpa primordiale: l’illegittimità. Trovando, nella leopardiana social catena, di ginestra in ginestra, quella rima che unisce cicatrice a felice, nel desiderio utopico di ricucire lo strappo con la Cosa-Madre-Origine, tornando (direbbe sempre Lacan) a “quando nei fiumi scorreva il latte”.
Se il tempo è un treno, la vita è un film: in entrambe queste creazioni artificiali si dona il movimento che la coscienza percepisce. Nella sezione “Come nel film” l’autrice rievoca, come correlativi oggettivi, vari film, alcuni visti nel cinema milanese dove la mamma (adottiva) lavorava come cassiera, portando la figlia con sé: E un giorno, per caso, una sua mamma venne a comprare il biglietto dall’altra. Come nei film. Le scene viste al cinema diventano spesso metafore della vita e dell’attualità: Così tanti non sono sentiti da nessuno/ come erba che dice acqua invano/ come naufrago che invano dice terra (riflessione ispirata al finale di “Mamma Roma”); oppure (con riferimento al film “Il pianista”) gli scomparsi che nella testa dicono: vai che fai tardi, ma vero che domani ritorni?
Perché certe volte ci fa un dono inatteso la vita, fa niente se breve, e noi lo custodiamo come un’infanzia una neve, fa niente se breve (riferendosi al film “Ariaferma”). E il film capolavoro di Pasolini “Uccellacci e uccellini”, con l’intuizione di Totò che per evangelizzare gli uccelli bisogna imparare il loro codice di segni, induce l’autrice a scrivere che certe volte noi non con parole ma con sguardi profondamente comunichiamo. Ma solo con alcuni prediletti, con gli altri non c’è campo. Allora forse lo “sguardo” è il miracolo che può, raggirando Lacan, ricongiungerci alle cose, alle erbe, agli animali, al mondo reale (ma forse Lacan, e altri pensatori novecenteschi, ci direbbe che è da sempre uno sguardo simbolico, linguistico e non sana totalmente la frattura, non ci ricongiunge centralmente con l’altro).
Nella penultima sezione, “Io non sono morta io sono nata”, il pensiero dominante diviene, più che il sentimento amoroso, la paura o, perlomeno, l’evocazione, a scopo esorcistico, della morte. Dal gesto serale di spegnere la lampada, a quello di ricominciare a leggere un libro di 90 pagine quando si è giunti a pagina 76 (l’età, al tempo, della poetessa), al desiderio di essere ricoverata in un ospedale dove risuona il traffico infernale ossia i vivi rumori della viva vita, dall’atto di carpire appena hanno chiuso gli occhi, il segreto dei trapassati, al desiderio di durare come un baobab, alla voglia di risvegliarsi (preferendo l’insonnia al sonno eterno) e, se proprio si deve, farsi addormentare pian piano come davanti alla tv: l’esercizio laico della buona morte è un acquerello intinto nella lieve ironia in un alone d’ansia opaca. Il miglior esorcismo resta, comunque, con la sezione finale (“Poesia sulla poesia”), l’attività poetica, nella sua levità da filastrocca. Con i suoi fogli e le sue matitine dalle punte affilate che pungono, mascherina che si posa sul viso-/ m’indossa, toglie un po’ il respiro e modifica un po’ la voce: come le maschere indossate da sciamani e stregoni, filtranti spiriti di dei, demoni e defunti. A evocare, comunque, un altrove, un Altro, una rimanenza non colmabile, non percorribile, ma percepibile, come un fiato nell’anima.
Un fiato che ha il sapore della Madre, una Madre Originaria che, ricorda Lacan, è già assente fin dall’inizio, perché è proprio lasciandola fuori da sé che lo psichismo, in quanto universo simbolico, si costituisce.
E allora essa è il vuoto originario, di cui ogni oggetto e soggetto incontrati nella propria esistenza costituiscono un “surrogato”, un amore inautentico, finito, in un iterativo cattivo infinito rinviante ad una mancanza, perché, come l’infinito (nella versione criticata da Hegel) essa è sempre “oltre”, non può mai essere raggiunta, e ciò vale non solo per una Madre adottante, “madre di cuore”, milanese, ma anche per una Madre biologica, “madre di pancia”, piemontese-valdese, incontrata a diciannove anni (ma dopo esserne venuta a conoscenza a dieci, rovistando in una scatola di lettere): entrambe, lacanianamente, surrogati di ciò che manca: l’Orfanìa, o nostalgia dell’orfano, è condizione di nessuno e, dialetticamente, di tutti (Ma, sorpresa, orfano lui non era affatto./ Come io non lo sono/ come voi non lo siete/ come tutti -/ lo siamo.).
Vivian Lamarque è nata a Tesero (Trento) il 19.4.1946, da madre valdese. Vissuta a Cavalese fino all’età di 9 mesi, viene poi adottata da una famiglia cattolica a Milano. Lamarque è il cognome coniugale. Ha insegnato italiano agli stranieri e letteratura in istituti privati. Ha pubblicato: “Teresino” (1981), “Il signore d’oro” (1986 e 2020, tradotto in lingua inglese nel 2017), “Poesie dando del lei” (1989), “Il signore degli spaventati” (1992), “Una quieta polvere” (1996), “Poesie 1972-2002” (Oscar Mondadori), “Poesie per un gatto” (2007), “La Gentilèssa” (2009), “Madre d’inverno” (2016), “L’amore da vecchia” (2022) (nella cinquina del Premio Strega Poesia 2023 che sarà assegnato il 5 ottobre). Numerosi premi dal Viareggio Opera Prima (1981) al Saba (2023). E’ anche autrice di una quarantina di fiabe, tradotte in varie lingue, a partire da La bambina che mangiava i lupi. E di una serie di fiabe musicali tratte da opere di Mozart, Schumann, Ciajcovskij, Prokofiev, ecc. (Premio Rodari 1997, Andersen 2000, Storia di Natale 2015). Per l’infanzia ha anche pubblicato “Poesie di ghiaccio”, “Poesie della notte”, e le storielle “Animaletti, vi amo” (Solferino, 2023). Ha tradotto Prévert, Baudelaire, Valéry, La Fontaine. Nel 2013 è uscito “Gentilmente Milano”, selezione dei suoi articoli sul Corriere della Sera, al quale collabora dal 1996.
23/06/2023 alle 17:15
Sempre sul pezzo, caro Massimo. Gran bell’articolo. Chapeau, anche a Vivian
24/06/2023 alle 16:29
Grazie Giuliano!
01/07/2023 alle 18:26
Bravo Massimo, ho apprezzato molto la tua sottile analisi critica in questo piacevole articolo
01/07/2023 alle 23:00
Grazie Enrica…
28/08/2023 alle 08:11
Caro Parolini, con il tuo splendido pezzo sul mio “L’amore da vecchia” hai toccato nel profondo l’anima della mia poesia.
28/08/2023 alle 10:54
Grazie Vivian: succede quando ci si “riconosce”…