Risonanze di Massimo Parolini | La tracimazione delle anime in Enea Roversi
Quella luce che un tempo abbagliava/ ora è un moscio riverbero nebbioso/ buono appena a illuminare la pozza/ d’acqua sporca e immobile/ dove danza il gatto nero/ fendendo unghiate da ubriaco […[ Donchisciottesco cuore precario/ cavalcando ronzini macilenti/ scaglio pietre di gomma contro i vetri/ esausto già dopo una breve corsa/ pallido eroe senza veste e senza volto/ bisognoso soltanto di respirazione (Notturni passaggi).
E’ una serie di fotogrammi da un’attualità “pervasa e pervertita dalla globalizzazione, costretta a ragionare in termini di bianco e nero, a muoversi su una scacchiera” dove per procedere dobbiamo mangiare la pedina che ci ostacola, quella a cui ci rinviano i versi di Enea Roversi in “Incroci obbligati” (Arcipelago itaca, 2019), come ci ricorda nella sua analitica postfazione Enzo Campi. Una poesia che parla di vizi, di un’immanenza abbruttita, dove il singolo è prevaricato da un presunto bene collettivo, un’ anamorfica civiltà di fango/ multimediale nonché mediocre/ multirazziale nonché razzista […] un nuovo medioevo che avanza scomposto/ in avanzato stato di decomposizione, minato dalla violenza futile, prossimo alla decadenza (Nuovo medioevo). Una società dove non si è più socius, amico, alleato in vista di un fine comune, bensì oggetti di deflagrazioni e coagulazioni, in uno spazio separato dove prevale la disillusione nella consapevolezza che ciò che rimane all’umano sono poche pagine dal diario della schizofrenia, la possibilità da buffoni e ubriachi “poeti” démodé di catalogare le differenze prima di doverle rimuovere. E al poeta resta solo un residuo di invettiva lieve, soffiata (sempre Enzo Campi), il denudare la realtà degradata, dove si è gettati, non geworfenheit, heideggerianmente, quale limite dal quale ricavare un senso e un fine nell’esser finiti, ma come residuo, inizialmente abusivo, poi eventualmente riciclato nel gran circo delle santificazioni laiche , col rischio, se si urla, che ti chiudano la bocca relegandoti a monnezza, come nel delitto Pasolini (Qui ti hanno portato e gettato/ come/ si getta la monnezza nella discarica abusiva/ come abusiva è la plastica nei fiumi/ abusiva l’intelligenza nell’Italietta post-boom/ abusivo il pensiero di chi guarda oltre/ e ogni giorno cerca di saltare le barriere (A Pier Paolo Pasolini).
Un tempo che manca a se stesso, fatto di teatri malandati senza più maschere/ per uno spettacolo troppe volte replicato (Legoland) dove il paradiso oltre la staccionata è un eden masticato in fretta, l’universo degli incanti è un paese dei balocchi per uomini malati, una Legoland per adulti tristemente griffati (e meno male che ci rimane il tramonto, non ancora sfondo virtuale da inserire quando ci si collega in meet-zoom, per non mostrare la propria stanza): una terra desolata che genera in noi un rimarchevole ribrezzo per il presente/ assoluta indifferenza per il futuro (Polvere da sparo), un oggi che sgomenta e tormenta (E poi la vergogna), nell’arsura di una secchezza fluttuante nell’aria (Abbozzo).
Mancano referenti, riferimenti, ideali, valori: l’invito del sistema è di uniformarsi, nella marea-massa-meccanismo, per imitazione del movimento, una lasciarsi trasportare docilmente dal flusso-catena-di- montaggio, nella ripetizione dei gesti, un flusso che non va solo assecondato ma idealizzato in giusto stile di vita, un orrore misero e catodico, un assordante vuoto, dove non si respira aria di speranza ma languore e fetore di rovina da tardo Impero verlainiano e di anime perse. Un uomo divenuto automa, vuoto, impagliato, fatto fila, figura senza forma nell’epidermide urbana, marionetta appesa a dei fili e a delle corde che ci tengono sospesi (Incroci obbligati), aspirante (se provvisto di coscienza in crisi) alla ribellione che lo renda carne libera dal teatrino, ad una fata turchina che lo sciolga, nel desiderio libertario, dalla lingua obbligata del neocolonialismo:
Siamo cambiati dentro e fuori/ sarà l’indebolirsi delle nostre ossa/ o forse il cinismo fattosi dogma/ sarà l’affievolirsi della voglia/ lo stupore rarefatto messo in disparte/ sarà la difficoltà del contemporaneo/ o forse soltanto questo odore di kerosene (Kerosene).
La scrittura si fa critica, pensiero della Krisis (in greco “krino” era in origine usato per indicare il momento conclusivo della raccolta del grano, quando la granella del frumento veniva separata dalla paglia e dalla pula; ma poi ebbe anche l’accezione di condanna e sentenza o, all’opposto, di migliore soluzione di un problema); si fa frattura, discerne lo screpolarsi, è macerare di coscienza […] dove del sempre non vi è più traccia (Sporadica mente); è gastrica inquietudine (Fiori appassiti), latrato d’ordinanza contro i sorrisi/ dal gusto di Chardonnay (Paesaggio blu cobalto), sovverte, perverte, vede e denuncia, come un gallo rimbaudiano, l’alba, non figura materna di un nuovo giorno da abbracciare ma volto dell’ingiustizia, del neocolonialismo massificante, che non fa uso di Verità, che non esistono, ma di norme, codici, maschere, modelli di imitazione, adeguamento, miranti al controllo, generanti bisogni e emergenze, nemici e convenienze, (le verità non vane si fermano davanti alle croci, come a Ostia, nella scena del delitto Pasolini): Sono alla ricerca di una miscredenza […] sapessi almeno il motivo della mia presenza (Miscredenza).
Un tiratore scelto elimina il superfluo ma di giorno va a dormire e lascia bossoli e sangue (poi ripulito) a terra, mentre il poeta fa la lista (o la scrive sul calendario da strappare) delle azioni elementari da fare, una lista dei bisogni egocentrici e surreali (come pertugio onirico) in contrapposizione dialettica ad una lista dei bisogni primari che ci ricollegano alle cose (cfr. Cose da fare), delimitando un mondo amico, di bisogni reali, personali, non effimeri, non indotti o slavati, o di fughe, sogni, follie, come spargere sassi di alabastro/ sulla pelle dell’alba fredda (Hai letto nei miei occhi) o ritrovare, per fugace analogia, l’Eden, oggetto smarrito, in fondo a destra, scritto in un bagno…
Certo, si vorrebbe andare oltre il proprio ruolo di giullare depresso, di uomo triste pervaso da una sciatta inquietudine (Hai letto nei miei occhi) o, da ubriachi, trovare fra i numeri sparsi di una rubrica telefonica calpestata nell’erba il numero che salva, la persona che incrociando ci riconosca e nella quale ci riconosciamo. In un rito di aspersione e dispersione, comprendere, noi umani, il senso di ciò che siamo/ ridicole, mutevoli ombre (Corridoio), in attesa di un filo di perle che si spezzi e ci mostri la spietata trasparenza del suo luccicare (come reboriano oro da snudare e non come similoro). C’è una propensione al finito nella poesia di Roversi (ci ricorda ancora Enzo Campi), che ci offre un accesso diretto alla società imperfetta e fatiscente, ad una reiterata finitezza di ripetizioni dell’identico, che non prevede aperture, pertugi, ma ci tiene nella nostra torre della fame, della Muda, corpi muti in attesa di riscatto, costretti a mangiare il nostro prossimo per sopravvivere o a rosicchiare la nuca del meccanismo in un sogno-aldilà: perché sulla terra hanno finto di ospitarci per poi imprigionarci e lasciarci morir di fame.
Celebrazione di una fine, di una malattia indotta, che ci vuole assoggettare, assimilare, in un gioco più grande di noi. Una poesia che denuncia ma teme che le voci dei poeti, anche se continuano a parlare, non vengano ascoltate, ed essi siano profeti che gridano, in un deserto sordo e vuoto, un canto che sfuma con eco di rabbia (Canto d’inverno); ma forse, malgrado tutto, la scrittura continua a mordere/ incurante delle cancellazioni (Documento di Word).
Incroci obbligati: incrocio come sosta –pur momentanea- obbligata, durante la quale ci si guarda, misura, confronta, si rischia lo scontro, l’ incidente, si annaspa, ci si approssima con rischio, si prende tempo per decidere la data della ripartenza, della mossa, dello scatto nel flusso, come sulla scacchiera dove la pedina può scrutare ricercando le crepe (di speranze), la via d’uscita dalle regole del gioco, forse accennare ad un sorriso che è coscienza, consapevolezza, da condividere con gli altri, in attesa che il tempo svilisca sostanze e forme (La frana del tempo), e ci restituisca le ferite aperte e il disagio del vivere (ibid.). E forse, eliotianamente è questo il modo in cui finisce il mondo non già con uno schianto ma con un piagnisteo, da poeti ubriachi, ridicoli tutori della catastrofe… Unici segnali dal futuro degni di nota Le notizie meteo danno sole/ per il weekend una previsione almeno c’è (Le notizie meteo).
Enea Roversi vive a Bologna, dove è nato nel 1960. Si occupa di poesia da molti anni, collaborando con diverse realtà. E’ stato premiato e segnalato in numerosi premi letterari e pubblicato su riviste, antologie e siti web. All’inizio degli anni Novanta è tra gli ideatori e promotori della rivista letteraria sperimentale Uh! interamente dedicata alla letteratura umoristica.
Nel 2011 pubblica la silloge Eclissi di luna (Poesie 1981-1986), in versione e-book nella collana Nuovi Echi per la casa editrice La Scuola di Pitagora e la silloge Asfissia nell’antologia Contatti (Edizioni Smasher). Nel 2019 pubblica la raccolta Incroci obbligati (Arcipelago Itaca) e nel 2020 Coleoptera (puntoacapo Editrice). Figura nello staff organizzativo del festival letterario Bologna in Lettere fin dalla prima edizione. Si occupa anche di arti figurative, cimentandosi con tecniche miste e collage. Cura il blog Tragico Alverman – Scrittura e altro.
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