I morti di tutte le specie, raccolta di Silvia Secco (Seri Editore, 2021), recensione di Luigi Paraboschi

     

Dalla prefazione di Vincenzo Bagnoli estraggo alcune considerazioni. Egli scrive che il lavoro possiede:

  1. alto livello di competenze tecniche
  2. mescola con equilibrio componenti linguistiche e lessicali
  3. la raccolta stessa non è accostamento di scritture episodiche, ma elaborata architettura
  4. l’immaginazione, la risorsa più grande della poesia

inoltre un brevissimo passo di quanto l’autrice stessa ha posto nelle sue “note”, che mi ha aiutato molto nell’analisi, dove scrive:

<<qualche tempo fa qualcuno mi avvertiva che l’insidia interna alla mia scrittura fosse troppo vicina ad una forma di oralità trascritta […] le cose del mondo sono tutte un canto che mi arriva, e considerato lo scrivere non disgiunto da un SCRIVEREVIVERE, è questo il modo in cui io percepisco il mondo… di conseguenza lascio libera la mano. […] i canti li ho pensati uno successivo all’altro e, al contempo, immuni dalla linea temporale e dalla smania d’ordine costituito.>>

L’idea che per lei la scrittura sia assolutamente unita al vivere, è stata per me determinante per comprendere meglio il suo pensiero dal quale consegue che lasciare libera la mano sia la condizione indispensabile per una scrittura conforme al proprio vissuto.

 

Per rintracciare una linea di continuità con la sua produzione precedente ho ripescato alcuni versi messi alla fine dell’ultima opera: Amarene che sembrano prefigurare la nota dominante di questo ultimo lavoro: “i morti di tutte le specie”

Quanto, quanto avremo/ perduti i prati che non torneranno, non i prati./ Non rimarrà prato alcuno/ Non più gemmeranno i tralci, si seccheranno/ e germi nelle cavità dei legni li marciranno/ e nessuno, né rami né foglie, neppure gli acini/ ripareranno dalla crudeltà del bianco:/ gemere vuoto di luogo disabitato, abbaglio di bianco/ sul bianco del muro

Rileggendo poche righe a distanza di qualche anno e confrontandole con il lavoro che sto esaminando ora, deduco che quest’ultimo è l’inevitabile conclusione delle previsioni nefaste riportate poco sopra, a conferma della linea che il pensiero dell’autrice si sviluppa progressivamente e con coerenza.

 

Chi sono i morti dei quali parla la nostra autrice?

Con sicurezza possiamo dire che in parte essi sono anche coloro che sono defunti, che un tempo erano viventi accanto a noi, ma il discorso va esteso a includere altri aspetti della vita che hanno subito l’oltraggio del tempo e si sono estinti, e allude in modo particolare alla natura che è continuamente vessata, offesa, oltraggiata dalla mancanza di amore e di attenzione da parte dell’uomo.

 

Secco ha costruito la sua raccolta “immune dalla linea temporale” come ho riportato, stendendo un’opera che si sviluppa in 12 scene dentro le quali sono inseriti tanti drammi che tutti conosciamo per esperienza diretta.

Il primo di essi prende l’avvio dal disastro della diga del Vaiont nell’ottobre del 1963, giorno in cui la pioggia cadde in modo eccessivo sulla montagna che finì col cadere rovinosamente dentro la diga.

Ecco ciò che scrive:

C’era stato il giorno dentro la città, piovere e piovere, lustrale/ lavacro. La luce bianca era la spina ed era il filo, pungeva/ sulle palpebre la chiusa-…

…l’acqua aveva superato il primo segno, sognava le volte/ e di toccarle, allagava il corridoio dei murazzi. Ogni cosa fiume:/anche le pietre.

La natura e gli esseri viventi, alberi e animali cercano rifugio per mettersi in salvo:

C’era un lavorio del mondo che escludeva l’uomo. I piccoli animali/ sorgevano dal nido dei tronchi, correvano all’incrocio dei semafori/ erano i nunzi, i portatori/ Fuori, a ridosso delle grate, si accumulavano i colossali legni secolari/ che nessuno aveva mai immaginato mortali

Gli animali che non seppero fuggire furono i primi nella lista dei morti.

La prima considerazione è l’invito a riflettere sul senso di precarietà che dovrebbe contraddistinguerci tutti prima di scomparire:

A te ho raccontato ogni cosa tranne una: del tempo che resta/ – breve è la stagione furiosa dei corpi, finché siamo vivi –

Il vivere dovrebbe indurci a gustare il piacere della natura che ci sta attorno e, a tale scopo, l’autrice arricchisce il suo narrare utilizzando la morbidezza della sua lingua locale, quella vicentina, della quale afferma di servirsi anche nella preghiera:

voria averghe contà le montagne de ieri matina,/ la prima neve su tuta la costiera, la Cima/ Grappa tuta piena, e quel odore de l’aria bon come ela./

Tutto viene distrutto, il dolore è grande, neppure l’amore riesce a lenire la sofferenza e a generare quella crosta indispensabile per proteggere l’anima dei viventi:

Ora che la vite è sgombra e tu ritardi a ritornare/ io ti parlo della crosta che non so formare,della foglia/ che, caduta al margine, si logora dal centro verso il bordo/ del sistema vascolare./

Il crollo della diga ha conseguenze disastrose che sconvolgono coloro che osservano:

dopo i crolli non sapevano che piangere, mordersi le guance/ Dopo i morsi bisognava seppellire i morti a centinaia e centinaia./

Il mondo che rimane in piedi è un cimitero di ossa insepolte, la tragedia è sotto gli occhi dei sopravvissuti, e i toni del racconto hanno talvolta aspetti della poesia lorchiana:

i cippi erosi erano bianche ossa morsicate/ dai transiti di repentini temporali, ossa non più umane né animali/…

…I gabbiani di montagna e della Bolognina li riconoscemmo dalla grida/ – le grida, le grida, le grida loro spezzate. Venivano dalle discariche per fame e per la sete,/

 

La seconda tragedia che Secco tocca è quella dei naufragi ai quali abbiamo quasi fatto l’abitudine. Il mare non ha pietà né degli uomini sulla terraferma, né di coloro che, migrando dal sud del mondo cercano di attraversarlo.

Non lo vedi, un mare irrompe, sovrasta costa, spiaggia. Duna, respingimenti/ diga frangiflutto, capitaneria, strada: non lo vedi, ti entra nella casa/ viene a morirci, è un diluvio acquaesale…

...non lo vedi/ non è dio, è un mare d’uomini il fondale/ – le orbite vuotate, tane di pesci-e uominionde, non li  vedi, a ondate

Assistiamo “da lontano”, guardando la platea dei telegiornali assuefatti a queste continue tragedie, e i piedi degli annegati identici a nostri – distesi sul bagnasciuga – li scordiamo presto.

Sabbia e sale e l’acqua/ in luogo dell’aria a riempire i polmoni, e i piedi: tredici paia -tratti somatici adatti alla platea dei telegiornali.- Tredici paia uguali in tutto e per tutto al mio paio da lontano/ da dove li guardiamo scordarsi dei passi, annerire./

 

L’uomo è una piccolissima cosa, è quella “foglia che non sa formare la crosta”, deve subire la natura che lo assale da ogni parte, le pesanti intemperie rappresentano da sempre il dramma di chi lavora i campi e le vigne; la grandine distrugge i raccolti

La grandine di aprile è precipitata fitta,/ le ferite sulle tenerezze dei germogli/ sono gravi

E se grandina sui germogli non c’è scampo, il lavoro fatto va in fumo, non resta che sperare in rimedi che risalgono ai vecchi tempi, occorre cercare di intiepidire un poco l’aria nei vigneti accanto alle piante, bruciando rami benedetti di ulivo

e non c’è altro che si possa/se non scavare – la piccola fossa/ fra una vite e l’altra – attendere che accada nel perdono e nella gratitudine

Alla fine, si finirà per invocare con le preghiere i morti, coloro che ci hanno preceduti nei lavori in campagna, e sperare che il cattivo tempo preservi il lavoro fatto nell’anno

Ancora una volta metteremo nei bracieri/i rami benedetti degli ulivi, daremo vita al fuoco/e dopo invocheremo e invocheremo/i nostri morti contadini/

Nei versi che trascrivo sotto, ancora in lingua locale, si sente lo smarrimento che l’autrice prova mentre cerca di rievocare il ricordo della nonna, parlandole della luna, un legame molto forte che avvertono entrambe e che ritroveremo più avanti.
Una luna sottile, una sottilissima ciglia quasi invisibile:

Nona, te vedessi la luna stasera che bela:/ ‘na ciglia sola che se xe perdua/ sul nissolo del cielo. Una sola perdua e fina/, fina ma fina che quasi no la vedea,/, fina ma fina che no la vedaria nissun/ se no se vardasse el cielo a posta par catarla/

È una luna che nella tradizione è collegata da sempre dai poeti alla funzione procreatrice delle donne, una sorta di pagana protezione che però è capace di suscitare nel cuore della scrittrice un dolore mai sopito per una mancanza

Sopra, crescente gravida e bianca, viene la terza luna/ dei piccoli che nasceranno a primavera, piccoli fra le creature – un compiersi mio mancato.

 

Nella scena 5a, la successiva, la mancanza viene messa più a fuoco

Piccolo mio, se il tempo precocemente e senza avviso/ se ne scivola così, chiudere gli occhi e scivolare/ – le trascurabili dimenticanze, le parole sulla punta della voce

e tutto viene detto con maggiore intensità in lingua locale:

Picinin, massele de luna, lassa che ‘a me ilumina anca mi/lassa ca la ciapa, ca la tegna par ti, che co te sarè grando la te diga/ quando te vardavo, quanto me l’imagavo

Vien colmo, intanto, el vien. El se chieta, e dopo el se sara/e mese dopo mese de novo. E mi me pararia bastanza anca cussì,/ me bastaria sa no nascesse gnente

e, parlando ancora della luna che si alza nel cielo rileviamo il paragone che la poetessa fa tra il chiarore alto, che si stende sopra la città “come una clemenza”

Vara che luna – guarda – che la par parfina pi bona ‘pena impissà,/ ciara sora la città che invese se smorsa e alta -ela -/ come ‘na clemensa

L’attesa del colmo dell’astro richiede pazienza e forza:

ghe voe ‘na forsa che ti no te capissi pa’ capire- Ghe voe/ pasiensa par spetarla piena, nell’assenza: vintioto sere de mancansa/ …Ghe voe speransa che ‘a se faga e ela la se fa

e, una volta sorta nella sua pienezza occorre osservarla con lo sguardo attento e affettuoso di un cane che è capace di perdonare chi si allontana

dopo occorre avere gli occhi per guardarla, liquidi occhi/ di cane – cuna bianca, luna, amata cura – ‘i oci per vardarla/ vodi, sensa storia, come quei can/ che i te perdona se te torni a casa –

 

La scena 6a si chiude con una invocazione di aiuto rivolta all’amato, figura che troveremo molto più dettagliatamente nella scena che segue, tutta dedicata ad illustrare il rapporto amoroso tra i due innamorati

Baciami adesso, non avere paura./ Gli organi del mondo ci precedono, ci sopravvivono

Secco qui mostra, come in altri lavori precedenti tutta la sua abilità di scrittura tenendosi lontana da ogni pesantezza di linguaggio o modalità espressive sovraccariche di eros, lasciando al lettore ogni interpretazione

la prima notte della nostra vita/ le pareti della casa erano liquide dei mari/ che ci univano da prima, quando non lo pensavamo/…

Siamo così indifesi amato mio,/ non abbiamo da temere alcun male/

Dopo ci fu il rifugio del nostro corpo: si concesse alle ghiaie/ di franare giù nei canaloni fra le scapole, deporsi nella cuna/ del concavo fluviale

Nella loro nudità i nostri corpi, distese di campi/dentro la sottile, primitiva luce del mattino/ – sottile chiarità dalle fessure

Ma, al di là dell’amore, si avverte il rumore sottile di un tarlo che corrode la mente e che fa scrivere:

Dovremmo ad ogni specie dire/ di aspettare, che a volte accade al tuono, all’ eclisse lunare,      alle volte accade ai figli di morire prima della madre…

e, per trovare consolazione, la poetessa ricorre alla figura del padre

In fondo, sul confine vivo dei rovi e delle acacie,/ tu vedrai mio padre dire casa, compimento: ci ha costruito un trono di tavole/ e resta a guardare i filari, la duratura direttrice della cura che sa bene della forbice eppure non la teme…

Cossa vuto che sia averghine ‘n altro/ metarlo in scarsela, tocarlo ogni tanto…

…Se el fusse un saseto, ‘na fregola, un osso de siaresa/ gnanca el pesaria, e nissun savaria che derento el scava el dano de un ano intero/…

…Femo finta che nol ghe sia sta,/ che non ghe ne sia altri che se zonta, e dopo ritorneremo indrio/ a la busia del tempo che se sia fermà,/ a ‘na toseta insieme a so papà…

Ricordarse le preghiere dei putei, no dire mai la morte./ ——–ocore ‘ver paura e tante volte si dovrà cadere/ ma xeo queo che disì v’altri, che – se ocore – sia sora la tera./ Sora per sempre/ Sora la tera lieve//

 

La scena 8 a riprende il tema della desolazione del vivere in un ambiente sempre più deteriorato:

Mai scesero più l’acqua o la neve mai pietà più discese/ sui declivi dove restavano i pini, deposti come si arresero/ morti e né sopra noi: questa arsura che abbiamo secolare, questa siccità.

La poesia prosegue con questa domanda:

dimmelo, con quale succo irroreremo il cuore

e torna l’amarezza

Invece ciò che accade al mondo è spaventoso, urla la fine/ e innumerevoli odi e innumerevoli gli eserciti/ e i cervi e le lepri e gli altri randagi scavano le reti per la fame,/ si gettano abbagliati dentro le corsie…

cominciavamo presto a chiederci/ l’origine del niente….

…e guardavamo senza alcuno sospetto al cielo come a un mutuo/ nutrimento. Mentre ci mangiava./

…Guarda, dopo moriremo pure, senza più toccare./ Non avremo a fianco nessuno, come solo gli eroi

La scena si chiude con la disperazione:

tanto immensamente amiamo/ tanto immensamente amiamo stare soli./

 

La 9a ci porta progressivamente alla conclusione con questa apertura nostalgica

Sapessimo parlare dell’erba senza altro motivo/ ci chiamassimo, ad esempio, alla finestra a sentire/ com’è buono l’alito del cielo col suo odore /che tutto, tutto deve al taglio. Basta/

La nostalgia, il rimpianto per qualcosa che avrebbe potuto accaderci lascia la sensazione che nell’autrice vi sia il desiderio di reincarnazione in altri esseri viventi:

Immagina non fossimo mai nati/ fossimo rimasti nel possibile...

Ci sapremmo ricordare il nome,il nostro nome indiano, l’animale interno precursore/

…la specifica radura nella storia nella quale/ fu deciso che si avesse identità e destino,/ mille nascite ed il relativo termine io e te / e questo corpo in questo tempo peculiare,/ questo corpo e nessun altro, e questa voce umana/…

Mi, desso ca no ghe n’o altra, go pensà che i se sbaglia sul morire/ I se sbaglia, senò mi no savaria dire sto seitar nassare, sta fadiga/…

i se sbaglia, gh’o pensà e i no capisse/che saria un pecà mortae se ‘a fusse vera, ma un pecà/sta fantasia del la mortalità

 

A chiusura di tutta l’opera stralcio questi versi nei quali si intuisce la profondità del desiderio di rinascita:

la notte specialmente, alla deriva del tangibile suono,/ sono parte i vivi, i mancanti di ogni tempo: sono loro i nuovi,/ gli antichissimi venuti al mondo, ancor qui nel giorno loro dato/ in qualità di pietra o di fogliame, di esemplare d’altra specie/ liquida, carnale – altra che sia – carnefice o sacrificale. Per loro devo nominare: nominare tutto con amato nome/ perché esista, stia nella scrittura come uno e come analogia,/ poiché tutto dopo a voce propria parli, finalmente franco./ Oltre questo mio privato.//

 

Chiudo questo mio viaggio dentro la raccolta di Secco trascrivendo gli ultimi due versi che sintetizzano benissimo tutte le domande che l’autrice ha espresso passo dopo passo e le angosce esistenziali che assillano la razza umana fin dalla notte dei tempi.

i morti di tutte le specie, anche loro sono/ ciechi, anche loro si chiedono