Il pensiero emotivo di Carlo Giacobbi | Nota di lettura su Falò di carnevale di Guglielmo Aprile (Fara Editore, 2021)

 

Potremmo definire Falò di carnevale una prova di lirismo civile.

Ed infatti, se da un lato le occasioni che danno luogo ai componimenti sono funzionali a rendere in termini soggettivi ed intimistici la riflessione sul contemporaneo, dall’altro, le stesse, si atteggiano a fatti sociali pertinenti alla dimensione collettiva della communitas.

Aprile pone in dominante la funzione latu sensu politica della poesia; le maschere che introduce nei testi rendono l’opera allegoria di un J’accuse rivolto ad un sistema di pensiero edonista (p. 15, <<La fabbrica endorfinica>>), di facciata e nei cui confronti l’Autore leva la sua voce critica, la sua vis polemica, volte a consegnare ai lettori una parola avversa, di contrasto, oppositiva a tutto quanto, imbellettato e carnascialesco, si palesa farsa, inganno.

Il topic dell’inganno è oggetto tematico che connota l’intera opera e, precipuamente, la sezione Grande bluff (pp. 15-30), ove è viva la percezione del Nostro di essere stati <<vittime di un raggiro>> (p. 16), plagiati dall’<<eloquio forbito>> (ibidem) che estorce il consenso, illusi dalla réclame subdola e suasiva (p. 18, <<una truffa / questa pantomima>>) che sponsorizza un locus amoenus tutt’altro che esistente.

Ma il bluff, la fictio della superficie, come acutamente nota il poeta, sono strategie destinate al fallimento; l’umanità artefatta, intenta a camuffarsi in via provvisoria mediante pratiche di maquillage o makeup, non può reggere alla necessaria prepotenza della verità dei fatti, la quale, quest’ultima, s’imporrà su ogni <<versione apocrifa>> (p. 20) o falsificata del proprio presentarsi al mondo.

L’indignazione di Aprile è altresì rivolta ad un modus vivendi che ha eletto la tecnocrazia a fallace mito di progresso; i beni vengono prodotti affinché possano autodistruggersi nel più breve tempo possibile; all’obsolescenza programmata sembra infatti far riferimento la lirica Aliante di p. 21, laddove afferma che <<Il borsone da viaggio / comprato neanche un anno fa e neanche / una volta sola usato, si va / strappando qua e là nelle cuciture>>, obsolescenza (anche <<dei giocattoli>>, p. 39) che sottintende l’imperium di un potere politico-economico che si palesa finalizzato a ridurre l’essere umano a mero consumatore.

Del culto dell’estetica, della fede in un kalós che è solo esteriorità, involucro, specchietto per le allodole e che occulta la vacua substantia delle entità tanto umane quanto inanimate, si dovrà un giorno fare redde rationem.

Con versi dai toni – per così dire – escatologico-profetici il poeta sembra ipotizzare una sorta di giorno del giudizio (p. 23, <<Poi verrà per ognuno il turno di mostrare / di cosa avrà riempito il proprio sacco>>) ove ciascuno sarà chiamato a rendere conto del pieno o del vuoto di cui ha colmato la propria vita (p. 23, cit.); così come riflessione teleologica sull’esito dell’esistenza appare <<la reale destinazione unica / di ogni partenza>> (p. 24) evocativa forse della morte e del nihil che porta con sé.

L’inganno di cui s’è detto sopra, nell’intentio dell’io-lirico, è forse costitutivo della stessa esistenza, la quale mente, prospetta e promette una gioia anch’essa apparente e dunque illusoria.

Lo si evince dai versi di p. 25 (Immagine dipinta) ove le <<aree verdi ariose curatissime>> che alludono ad una visione idillica <<mentono>> (ibidem), e contrastano con la rappresentazione decadente di un dies dominicus o in termini pagani di un dies solis tutt’altro che ri-vitalizzante o festoso (p. 25 cit., <<la domenica / ha le tasche gonfie di uccelli morti / il sole ha gli occhi cuciti di spine>>).

L’immagine dipinta è costruita su tali conflitti dialettici, su affermazioni e giustapposte negazioni, su ciò che sembra e ciò che è. (Si osservi, a fortiori, sempre a p. 25, la metafora del <<luna-park, con le sue torri / baluginati>> seguita dall’aggettivo di contrasto <<invece (…)>>; o <<La bambola [che] ha boccoli soffici>> cui viene opposta la congiunzione avversativa <<ma (…)>>).

In Cenere sulla fronte (II° Sezione dell’opera, pp. 33-47) il Nostro, scostato il velo di Maya delle illusioni, palesa il mondo tel quel, <<spoglio di trucco>> (p. 33), per rinvenirne il volto <<rugoso>> (ibidem), brutto se vogliamo, ma finalmente vero; il telos non è più quello di <<camuffare / con il trucco l’oltraggio delle rughe>> (I° Sezione, p. 19) quanto di prendere atto della realtà nella sua nuda essenza; realtà che, lungi dall’essere Eldorado o Bengodi o collodiano Paese dei balocchi, è ossimorica Alba nera (p. 34) abitata da inquietanti figurazioni di calma apparente (p. 34, <<La calma della nottata è bugiarda: / versa dosi massicce di morfina>>), o da pericolanti soggetti in procinto d’affidare la propria vita al vuoto (ibidem, <<il suicida si sporge al parapetto>>).

Il leitmotiv della seconda sezione dell’opera pare sostanziarsi nel sentimento della perdita (p. 35, <<uccelli morti, altalene spezzate>>), nella percezione della consunzione d’un tempo che ci si lascia <<alle spalle>> (p. 36), o <<Dietro il mio passo>> (ibidem) di cui l’Autore, in termini nichilistici, evidenzia la vanitas (<<non rappresenta niente>>, ibidem).

Si notino, ad abundantiam, le iterate locuzioni versali espressive del tema sopra cennato: p. 38, <<il bosco / che brucia alle mie spalle>>; p. 43, <<La parte più interessante del viaggio / è alle spalle>>; p. 44, <<la strada che ci siamo messi dietro / svanisce dietro i passi>>; p. 45, <<Dalla strada che ci scompare dietro>>; tema associato alla delusione d’un homo viator (p. 41, Viaggiatore pentito) che attendeva un quid di più gratificante che non <<il poco che si vede / all’uscita della boscaglia>> (ibidem), definito <<a ben guardare / francamente squallido, / e [che] non giustifica i lunghi preparativi e la veglia / che immancabilmente precedono / ogni partenza>> (ibidem).

La terza sezione della silloge, L’albero della cuccagna (pp. 51-67), specifica il tema della perdita in termini di mancati avveramenti amorosi, di attimi non colti, di occasioni perdute, vissuti dal poeta a guisa di <<imperdonabile spreco>> (p. 59), determinati dall’incapacità di attualizzare – per codardia e/o difetto di prontezza (p. 51) – la filosofia oraziana del carpe diem. La partizione in commento è gremita di figure femminili che seppure concrete – per così dire non angelicate – restano distanti e finanche irraggiungibili.

Ne <<La più bella fra tutte le invitate / [che] poteva essere mia>> (p. 51), nella Donna fatta di vento (p. 53) che <<è solo di passaggio>> (ibidem), ne <<la bella / dirimpettaia nello scompartimento deserto (…) [che] ci lanciava di tanto in tanto / certe eloquenti occhiate / furtive, prolungate>> (p. 55), e ne <<la straniera / bella e irraggiungibile / (…) che per caso / passa davvero, una volta / e mai più>> (p. 62), si avverte distinto l’eco del grido baudelariano <<Bellezza fugace, il cui sguardo m’ha ridato vita a un tratto, / nell’eternità solamente potrò rivederti? / Altrove, lontano, troppo tardi, mai forse! / Perché ignoro dove fuggi, e tu dove io vada, / o te che avrei amato, o te che lo sapevi!>> di cui alla struggente lirica À une passante.

In Scure del buio (IV° e conclusiva sezione, pp. 71-86), Aprile dà conto della sua visione della morte. La vita-gioco <<finirà>> (p. 73) con l’estinzione del <<corpo>> (ibidem); l’umano è destinato a vanire, <<volatilizzarsi (…) disperdersi>> (ibidem); ognuno è vocato alla morte (p. 74, <<Verrà il momento, anche se ignoriamo / quando>>); l’antropocentrismo, la pretesa centralità dell’uomo nel mondo, l’asserita irripetibilità d’ogni esistenza (p. 75, Il centro del mondo) non possono che uscire sminuiti dalla certezza della fine: <<Se andassimo via proprio adesso, / nessuno ci farebbe caso (…) / a rimpiazzare un uomo basta poco>> (ibidem).

Ed innanzi all’evento-limite, mentre il mondo si affanna ad esorcizzarlo nel clamore del suo Sambodromo (p. 84), del suo perenne Carnevale, il poeta s’arresta a prenderne atto, diviene pascaliana canna pensante, rifugge da forme di divertissement atte a distogliere la mente dall’insostenibile verità della nostra condizione di creature mortali (p. 84, <<e in un attimo è cenere e vola via>>).

Come accennato sopra, il logos poetico di Aprile mira a recuperare l’ethos perduto d’una civiltà che ha smarrito la percezione del vero; e lo fa con un linguaggio realistico, derivato dall’attenta osservazione delle dinamiche sociali, per il tramite d’un versificare piano, dalla sintassi fluida, senza eccessive discontinuità o intermittenze; si vuol dire che la cifra stilistica è spesso diegetica, incline a rendere apprensibile il senso dei componimenti; l’interpretazione testuale è agevolata dalla frequente coincidenza delle unità sintattiche con le strofe (a titolo esemplificativo, p. 51, <<La più bella fra tutte le invitate / poteva essere mia, / ma fui codardo o mancai di prontezza, / non ebbi riflessi abbastanza vigili>>) nonché dalla pressoché assenza di anastrofi che agevola la lettura.

Non si vuol certo dire che la poesia di Aprile sconfini in oratio soluta, tutt’altro. E tuttavia si staglia, riconoscibile, la voce d’un io-narrante; sembra quasi l’autore recuperi – sia pure in modo personale – il genere della poesia-racconto di ascendenza pavesiana, in controtendenza a certo neo-ermetismo di ritorno.

Detto diversamente, i versi del Nostro, non assumono a referente stilistico l’oscurità semantica o la zanzottiana autonomia del significante; la pronuncia, pur restando poetica, e dunque linguaggio altro da quello di grado zero, bilancia sapientemente denotativo e connotativo (in quest’ultimo caso gli apparati figurali – p. 24, <<il Buddha della mattina>>; p. 26, <<il Jolly delle carte>>; p. 39, <<Ogni Bisanzio di carne>>, etc. – rimandano comunque a sostanzialità intuibili).

L’io-lirico – che solo in casi d’eccezione coincide con l’Autore – dipana il suo eloquio <<per interposte persone>> (Giorgio Caproni, in E. Testa, Per interposta persona. Lingua e poesia del secondo Novecento, Bulzoni, Roma, 1999), prestando spesso la voce ad un’indeterminata terza singolare (p. 43, <<La parte più interessante del viaggio / è alle spalle>>) o, sovente, ad un noi funzionale a richiamare il consorzio umano al suo comune destino (p. 75, <<Se andassimo via proprio adesso / nessuno ci farebbe caso>>)

Un’opera matura e coraggiosa quella in commento. Sia perché frutto d’una accurata riflessione sulla condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo, sia perché non teme di dire, di denunziare expressis verbis, le corruzioni morali d’una civiltà decadente – qual è la nostra – che ha sostituito al primato dell’uomo quello della tecnica e del correlativo profitto.

 


Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel1978. Attualmente vive e lavora a Verona. È autore di raccolte di poesia: Nessun mattino sarà mai l’ultimo (Zone 2008), L’assedio di Famagosta (Lietocolle 2015), Calypso (Oedipus 2016), Il talento dell’equilibrista (Ladolfi 2018), I masticatori di stagnola (Lietocolle, 2019), Il giardiniere cieco (Transeuropa 2019), Farsi amica la notte (Ladolfi 2020), Teatro d’ombre (Nulladie 2020). Scrive saggi critici su riviste; tra i suoi campi di interesse, la poesia del Novecento, oltre a vari studi su alcuni classici della tradizione letteraria italiana (D’Annunzio, Luzi, Boccaccio, Marino).