Risonanze di Massimo Parolini | In macerie di fiato: nota su “Messa a dimora” (Controluna, collana Lepisma Floema, 2023) di Federico Preziosi
“Archetipo della migrazione è la nascita stessa, il venire al mondo. A sua volta il migrante, lasciando la terra che l’ha visto nascere e alla quale sente di essere irreversibilmente legato, decide di uscire da un ‘ventre’ divenuto ormai troppo limitato e soffocante, per affrontare il viaggio del suo nuovo parto. Il viaggio per mare appare così metafora perfetta del travaglio in cui il natante rischia di annegare: l’andar per mare, come ogni parto, comporta il rischio altissimo di morire. […] Bisogna allora ritrovare il coraggio incontrastato, impulsivo e inconsapevole del feto che cerca di uscire facendosi largo nel transito che può essergli fatale. Il migrante rammemora (non sa di ricordare) quell’impulso natale, quel fervore originario che non ha fondamento, perché è il primum da cui ogni protrudersi prende le mosse, l’originale di cui ogni movimento successivo è copia e imitazione necessari”. In questi passi, estrapolati dal saggio “La diaspora come destino dell’ homo migrans ” (in Diaspora, edizioni del Faro), il filosofo Claudio Tugnoli ribadisce il concetto che Homo sapiens è sempre stato un Homo migrans per vocazione e destino, vivendo continuamente nella diaspora.
Da un’involontaria “Messa al mondo” nella terra Madre, con la quale ci si identifica (Variazione madre) ad una volontaria “Messa a dimora” in altri luoghi, con la quale si acquisisce una propria nuova identità (Messa a dimora).
Il soggetto protagonista di Messa a dimora (nella ripetizione differente con la precedente raccolta Variazione madre, 2019) vive una doppia diaspora: quella del nascituro (che si separa dal corpo materno, la chiameremo Matria) e quella del migrante (che si separa dalla terra dei padri, la Patria). Tali separazioni, se da un lato permettono l’affermazione della propria identità personale attraverso “la determinazione costante di confini precisi e la loro manutenzione ordinaria, per arginarne l’instabilità fluida e promiscua” (C. Tugnoli, in Saggio sul confine, edizioni del Faro), dall’altra nel soggetto protagonista delle due raccolte è vissuta costantemente come trauma (nell’etimo: trafittura, perforamento, muovere, passare al di là). La ferita, la lacerazione, continuano a parlare, da cicatrici e suture, a muoversi e spingere al movimento, nella consapevolezza, spesso inconscia, che ogni confine, dietro l’artificialità della separazione, congiunge e che la distinzione è figlia, dialetticamente, della somiglianza e dall’unità dialogante nelle parti a confronto (vedi “Saggio sul confine”), come la pelle di ognuno, che funge da cerniera e interscambio fra interno ed esterno del nostro corpo.
Rinviando alla nostra precedente risonanza ermeneutica psicanalitica a Variazione madre (https://blog.versanteripido.it/federico-preziosi-nella-purezza-della-resa-di-massimo-parolini/) applicabile (con sviluppi) a questa seconda puntata della saga preziosiana, applichiamo al testo in queste brevi righe qualche rimanenza emersa nel sedime rilasciato nel delta ermeneutico dal flusso filosofico di Martin Heidegger, in particolare nel testo-conferenza “L’origine dell’opera d’arte” (in Holzwege-Sentieri interrotti).
Heideggerianamente, il grembo di cui il soggetto poetante sente quella che con un azzardato neologismo potremmo definire l’orfalghìa (la nostalgia dell’orfano) è la Terra-Madre-Erde, custodia nascondente-proteggente, ciò che nell’aprirsi di ogni vita, ente, Mondo, si ritira, il fondo insondabile, oscuro e chiuso da cui emerge e si dischiude ogni Mondo, ogni ente. E ogni Mondo-ente è un tutto limitato e la Terra ne è il limite come venir meno di un fondamento che fondi (è ab-Grund, assenza di fondamento). Essa è ciò su cui ogni Mondo posa senza trovar mai riposo. Così come nel pensiero sul Mistico del filosofo viennese Wittgenstein: partendo dalla proposizione 7 del Tractatus Logico-Philosophicus (“Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”) egli indica una realtà (affine alla Terra heidegerriana) collocata al di là del mondo dei fatti e, quindi, trascendente l’ordine delle cose dicibili. Il Mistico raccoglierebbe così, nella sua ineffabilità, tutto ciò che sfugge al linguaggio significante (così come in Lacan) e la sua universalità scomparirebbe nel tentativo stesso di parlarne. Così l’ etica, l’estetica e la religione per Wittgenstein possono solo essere vissute e il loro valore risulta vivibile, ma inesprimibile, aldilà del mondo definibile dal linguaggio. E Preziosi, scisso dalla lingua-corpo-madre, si sente, in una “una brulla lingua scarna” costretto a “Rassegnarsi nel tacere/ lo strazio della lingua”. Il Corpo-Terra-(Lingua) Madre, del cui strappo parla -vanamente- la poesia come apertura-ferita dove si manifesta (senza sanarsi) questa faglia-frattura insolubile e continua, è, misticamente, esperibile nel silenzio della parola (“il chiasso alla lunga si fa silenzio”), in apnea amniotica: “eppure sei tanto intensa nell’apnea/ che a momenti dimentico/ di riprendere fiato”. Nello strappo dell’uomo nato (“nel caldo oscuro del tuo bene/ in nessun posto mai”), individualizzato e ri-migrato (“la stanza di adesso, un vuoto/ nel grembo”), il poeta, cui Madre “piantò le sue radici in corpo” (Variazione Madre), intento a “resistere ai luoghi” di cui restava “orfano” (ibid.), migra con un sentimento di beata mancanza che, quale “fulgida sutura” ritorna “dentro a un male che a sentirlo pareva casa” (ibid.). E tale sentimento di perdita e abbandono che persiste nella nuova raccolta di Messa a dimora, ha bisogno ancora di parola per “illudersi” (per il secondo Wittgenstein delle Ricerche filosofiche mettersi nel ludo-gioco di un forma linguistica di vita) e “disfrenare”, nelle folate che scindono l’abbandono, il dolore sul foglio bianco, ombrello che “non ripara dalle ombre bagnate”. Piegato e piagato, come il metallo dal martello sull’incudine, l’homo migrans, pregno di dolore, di senso di perdita “fino a silenziare/ il bisogno di amare”, vive una “lobotomia d’amore sulla dipartita” e chiede una boccata di vita (“dopo di te non era più amore”), di vivere, almeno un’ultima volta, di “ammalarsi in una gioia” perché “dopo chiuderanno il cielo”. E se fuori -e nella parola vanesia- permane l’impermanenza (“Non c’è altro al divenire, niente forma”), “solo dentro le cose sono come sono”: è l’esperienza del Mistico, di un “vuoto quando domanda” chi siamo, è aria che attraversa le vertebre cave, quando l’evento rischiarante e gratuito avviene: ” “nel punto dove il cielo si fa proda/ della terra e le vertebre sono/ cave d’aria accudendo l’adagio/ del vento che nel gemito sospira/ e spira”. Edipo figlio vive lo spaesamento e l’orfalghìa (“Volevo ritornare nella pancia/ senza l’ombra di un torto/ ma ho smarrito la via di casa ho smarrito/ il figlio forse l’ uomo”), vive “l’etimo sotto le spoglie/ che affligge il desiderio di tornare”, chiede dal suo esodo un suo nostos-ritorno alla Matria (“rinascimi ancora amore insoluto”) perché sa “di essere una parte/ ma tu, Madre mia, taci su quel pingue/ versare nel profondo le ferite”. Perché la Terra-Mistico tace, si dà nel silenzio, nel vissuto della perdita dello sguardo (“distogliesti lo sguardo per avermi/ e non capivo di esserti le doglie”), è limite del linguaggio, come i suoi figli destinati all’erranza. E forse, anche se il poeta ne ha consapevolezza (“in questo nulla di parole consce:/ spiegare non si deve, non si può”) “ciò che non osiamo” è proprio rispettare quel silenzio, non cercare di dirlo, di poetarlo, custodendo invece, quasi come ribelli figli della lingua e della scrittura, il dolore della perdita nel libro (“nel pendìo della fossa di brossura”). E il soggetto migrante ha parole anche per i fratelli, profetizzando loro la futura erranza, l’essere destinati a calcare “strade sterrate”: “arriverà il giorno/ in cui interrogherete la polvere”. E pure per il Padre (“Abbi cura della mamma/ dille pure/ saranno le ginestre il filo spinato./ Dille pure sarà l’amore, il tuo più forte/ di un figlio arreso”) del quale ammette la vittoria, forse risolvendo il complesso edipico… Consapevole, come recita in esergo alla terza sezione un verso di Dario Bellezza, che “lontano dal tuo corpo di madre” c’è/si è un “incerto sostituto”. E, memore del Fedone platonico, che la vita -nella prassi del pensiero- è un esercizio di morte: “E’ la morte, ci vuole questa vita/ per restare così, intimità e fede./ E’ la morte per quanto amore conta/ l’appartenenza all’oggi”. Una morte dalla quale pensiamo di fuggire “eludendo l’ideale”, una morte che di noi “farà scudo/ ammucchiando nel grembo fruscìi,/ la fioca calura estiva/ un latrato di terra”. E allora, come acutamente sostiene Giuseppe Cerbino nella sua ricca prefazione alla raccolta, questo secondo libro della saga di Preziosi narra di una crescita che necessariamente -nell’abbandono della matria- porta con sé il dolore per la perdita, e il soggetto-poeta “combatte con la tentazione di non rinunciare a una protezione che tuttavia si rivela sempre vulnerabile”; crescita, continua, Cerbino, significa abbandonare ogni sicurezza e diventare “xenos”, parola greca dallo spettro di significato sfumato, che può indicare sia il nemico straniero, sia l’amico-ospite rituale. Perché dopo l’apnea del bunker grembo materno, del caldo e oscuro nido originario, il soggetto deve seguire l’inquietudine dell’erranza attraverso il deserto, avendo “in bocca parole straniere”. Ma l’Angoscia sopra citata non frena il migrante che, pur assillato dalle “furie dei ricordi” e sentendo “familiare/ tutto il gelo al mondo”, nel “lascito d’intese” di una cuna che invecchia, subisce una metamorfosi dolorosa che lo porta a dire: “Ho temuto di perderti e ora temo/ il tuo restare sempre così dentro”. Perché come ricorda sempre Cerbino, “la locuzione corrente parla di abbandono delle radici” ma in realtà “ad essere ‘abbandonato’ è il terreno; le radici sono le stesse: quelle che suggono dal terreno di nascita e quelle che suggono dal terreno nuovo”. Insomma, uno sradicamento che porta con sé la radici e le re-impianta in altro humus, in una nuova terra, dove il soggetto migrante come un “frutto marcio” aspetterà “di fecondare un cumulo di terra./ Anche quella sarà una Madre”. E in effetti, come ultima poesia che sigilla la raccolta (e dà il titolo al libro) troviamo proprio “Messa a dimora”: “Infine si asciuga la terra./ Seccato il nuovo solco dormiranno/ nella messa a dimora le radici”. Una terra nuova dove maturare e sviluppare, con le proprie radici originarie, la propria identità, non per annullare l’Origine-Terra- (Lingua) Madre, dal cui fondo oscuro e mistico “partono gli abbracci”, ma per tenerla sospesa “sulle dita/ slacciate alle parole per tacerti,/ averti, ritacerti e mai lasciarti”. Abbracciando l’Alterità che donandosi e visitandoci si sottrae e ci restituisce, nel silenzio, un po’ del proprio fiato.
Coperte
In un nimbo in una coltre
così d’un fiato,
alla goccia si scioglieva in volto
una premura del tutto autunnale
ma il verso,
il verso era avvolgente e caldo.
Lontano mantenevi l’abominio
dalle mie braccia
nel dolce trogolo delle attese
respirando un po’ il mattino
nella notte.
Quanta cura per l’assenza
avresti avuto, Madre,
con un bacio
rimboccando le coperte
nella stanza accanto.
Il «bene»
Perdonami se il cuore non ha retto
avrei voluto dire tante cose,
il tamburo del battito si è alzato
dopo il «bene», troncando sulla voce.
Adesso sono sveglio, ma ti cerco
al buio di una notte ancora lunga
e poi non so se riuscirò a tornare
se gli occhi mi si chiudono di nuovo.
Dal «bene» si dimena un’eco dove
il non restare altrove fa da scolo
scivola via dal corpo nel sudore
perché sono riuscito solo a chiedere
in sogno come stavi, ma ho pregato
in fondo di sognare fosse vero
in questo nulla di parole consce:
spiegare non si deve, non si può.
Federico Preziosi (1984) è nato ad Atripalda (AV), ma vive da vari anni a Budapest, in Ungheria. Interessato da sempre alla musica, ha studiato Musicologia e Beni musicali presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, laureandosi in Estetica e Filosofia della musica con una tesi su Béla Bartók. Suonatore di basso negli “Slow Motion Genocide”, con i quali ha pubblicato l’omonimo ep e un disco, Unculturema. È fondatore con Armando Saveriano del gruppo di poesia su Facebook “Poienauti”, moderatore di “Poeti Italiani del ‘900 e contemporanei” e portavoce della comunità poetica “Versipelle”. Scrive di poesia per exlibris20 e Readaction Magazine, e si occupa della divulgazione di opere poetiche nella trasmissione web “La parola da casa” condotta sulla pagina Facebook della comunità poetica “Versipelle” insieme a Giuseppe Cerbino. Autore di Il Beat sull’Inchiostro (2017) poetry slam ideata su intrecci di rime a ritmo di rap, e di Variazione Madre, edito da Controluna – Lepisma floema (2019), i suoi versi sono stati pubblicati su alcune antologie (tra cui Nel corpo della voce, a cura di Elena Deserventi, Controluna, Poesia a Napoli voll. 1, 2, 3, con prefazione di Antonio Pietropaoli, Guida Editori e Distanze obliterate, a cura di Alma Poesia, Puntoacapo Editrice), riviste e blog online e quotidiani locali e nazionali.
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