Primo dei Sedimenti: la foce trovata del fiume. Lo specchio della mente di Dante Maffia (Crocetti Editore, 1999)
Le parole nei libri sono chiuse a metà. Restano per sempre – un sempre umanamente concepibile per lo meno – in potenza di spazio, di slargo verso l’esterno. Basterebbe sfilarli dal loro ordine verticale sugli scaffali, usare la mano e l’occhio per sfogliarli una volta aperti, e allora i libri parlerebbero parole ogni volta nuove, ogni volta sorprendenti. È questo il tentativo di questo spazio di scrittura: riportare alla luce le parole dei libri che ho amato nel tempo, e a distanza di tempo dal primo incontro con loro.
Comincio da un dono. Sul finire dell’estate 2011, durante la cerimonia di premiazione dell’Iris di Firenze, momento particolarmente fortunato per me, soprattutto perché occasione del primo incontro con il poeta Enea Roversi, ho ricevuto dalle mani dell’autore, membro della giuria, il piccolo libro Lo specchio della mente di Dante Maffia: ottavo volume della collana Kylix, Crocetti Editore, stampato dodici anni prima, nell’aprile del 1999, dall’Editorial S.r.l. nella tipolitografia Porziuncola in Santa Maria degli Angeli, Assisi. Il libro misura una mano: l’oggetto è prezioso anche nella sua forma e, potrei dire perciò, nel suo significante di cartoncino opaco bianco-crema, nel carattere di stampa minimo, ben marcato. È dedicato a Paolo Ferruzzi e a Caligola ed ha una prefazione delicata e puntuale, datata tre anni prima (Roma, 1° Febbraio 1996), a cura di Nelo Risi che, immediatamente, porta altrove, verso sud: terra d’origine dell’autore, nato a Roseto Capo Spulico nel 1946.
Per un viaggiatore innamorato del nostro Sud questo quaderno di Dante Maffia offre un itinerario inconsueto fortemente connotato sin dal titolo e che apre all’interno su tre località dai nomi antichi, ben lontane dal consueto tour mediterraneo di Campania – Puglia – Calabria.
Aversa, Bisceglie, Grifalco hanno ospitato nei secoli e tuttora parzialmente accolgono un’umanità degradata: sono esistenze depauperate e al tempo stesso ricche di un loro mondo interiore deviato.
Uomini e donne ossessionati dal pensiero di non poter sopportare la propria mente.
Dopo si apre il ventaglio. Aversa, Bisceglie, Grifalco, trentaquattro nomi che sono questi uomini e queste donne, meravigliosi e spaventosi uccelli liberi nel chiuso di voliera dei sanatori.
Trentaquattro voci (questo fracasso d’ali) che gridano in prima persona e pronunciano Io con la scrittura del poeta. Io, mi viene da dire ricordando Rimbaud e tanta parte degli studi sul linguaggio proposti da Lacan, che è un altro, e che pure l’autore propone tanto aderente a se stesso che il confine di questo canto ri-cantato si confonde e si fluidifica in una sola parola che non posso fare a meno di pensare, maestosa nella sua grandezza, come Compassione.
I nomi non si danno così,
tanto per riconoscersi uno dall’altro.
Maffia non narra e non descrive. Ognuno di questi altri Io parla il proprio pensiero ed il poeta è il veicolo di forma e di evocazione che lo esporta, ne gonfia le vene di fiume, pieno del diluvio dell’inquietudine. E il poeta, in qualche modo, ne è la foce: il luogo di accoglimento e deflusso, delta di irradiamento. Il poeta è il parlante e, in questo transfert, il poeta, il parlante e il ricevente divengono lo stesso Io della pronuncia, che è un altro.
Parli d’un fiore che nessuno conosce,
d’un mondo dove forse i pazzi
si fermano a sostare.
(Da Nicola)
Esistono ed esisteranno molteplici tentativi, in letteratura ed in poesia, di fingitura: immedesimazione per la quale l’Io si dilata al prossimo e ne calza le scarpe per cantarne la strada. Uno di questi, negli ultimi mesi, ho avuto il privilegio di leggere ancora inedito ed è (e sarà) Ipotesi di canto di Elisabetta Sancino. Ma ciò che colpisce qui è l’assoluto lascito di libertà del grido, la forza potentissima di alterità che viene levata e che, pur nella propria abnorme distanza dalla norma, è e resta comprensibile, dolcissima, perfettamente umana.
Adesso è come
se ci fosse luna piena
senza mai una pausa.
(Da Elio)
Sì, avvicinatevi, non sono cannibale
quantunque abbia divorato
schiere d’angeli, ma per difesa.
Ho un occhio di vetro e la testa
che sembra quella di un orango
ma se vi mettete a parlare con me
potrete conoscere storie infinite
di draghi che tranquillamente passeggiano
nelle strade, visitano musei; siedono
alle mense come normali individui.
(Da Maria)
invece sono certa
che sono immagini vere e che gli altri
soltanto per ipocrisia fanno finta che dinanzi
abbiano il cielo pulito e le grondaie fiorite.
Sto attenta a distinguere ormai gli uomini
dalle parole le parole dalle cose, la confusione
non porta bene
(Da Veronica)
Tutta la sete nasceva
dal fatto che risparmiando ero sempre
rimasta coi desideri nell’acquaio e mai
avevo inoltrato il canto.
(Da Rosy)
È stata un’eccezione questo mio
sfogo, ho visto che tu hai molta
assenza di concretezza, sai uccidere le
vertigini dei contatti immaginari, ingoiare
le labiali come un mangiatore di fuoco.
(Da Iolanda)
Fra le pagine dei libri ho l’abitudine di lasciare le cose che in qualche modo sto vivendo nel momento della lettura: bigliettini, fotografie, fogli e foglie che capitano. Lo faccio per metterle al sicuro dal tempo che poi le mangerebbe via, come fa col resto. Le ritrovo sempre, quasi magicamente, al momento migliore per loro. Così è accaduto anche con la rilettura di questo libro. Fra le sue pagine ho trovato una piccola fotografia, un volto e il suo nome di donna, Maria Carla: il nome di prima che diventasse Nuvola.
Termino scrivendo per intero la poesia che immensamente amo, di questo libro: la ripeto, la mando a memoria.
Spero che chiunque lo cerchi, lo trovi (questo libro, così come qualsiasi altra cosa, se conta).
Roberta
Mi rimproverano sempre perché
se resto sola m’accarezzo
congiungo le mie mani alla notte
al mio sesso alle albe
non faccio differenza tra un cuscino
un fantasma una torta
una siringa un letto
con i ferri che legano le caviglie
e i polsi. A chi faccio male
se l’orgasmo lo dichiaro
e lo offro a Dio, se venti trenta
volte al giorno mi piego e invoco
la dolcezza della penetrazione e non
la voglio dagli aguzzini ma solo
dai fiori, dalle ombre, dai sussurri
che arrivano impalpabili vestiti da chimere
mi fanno sussultare mi carezzano
tiepidi virgulti dannati ghirigori
che sembrano germinazioni di miele.
Mi rimproverano e mi riempiono
di botte: la tempesta si muove dentro
come marosi, mi scava
ed esce dalle mie narici la soavità
s’invola. Dio, come vorrei farvi vedere
quanto sono bella io e le mie mani
e le mie grida dolci mentre m’addentro
nel fiume dell’orgasmo e conquisto
l’ilarità delle pietre, il supremo
ansimare delle farfalle.
Questo articolo è dedicato a Chiara Baldini.
Dante Maffia, è nato a Roseto Capo Spulico, in Calabria, nel 1946. Vive a Roma. Nel 1974 Aldo Palazzeschi lo segnalò al grande pubblico della poesia con l’opera Il leone non mangia l’erba. Ha fondato e diretto: Il Policordo, Poetica e ha collaborato con il quotidiano Paese Sera. Presente in molti programmi Rai. Nel 2004 Carlo Azeglio Ciampi lo ha insignito della medaglia d’oro alla cultura della Presidenza della Repubblica. Ha pubblicato numerosi volumi sia in poesia che in prosa. I suoi testi sono tradotti in molte lingue.
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