Mappamondi fritti e altre ribalderie critiche, per Rethorica novissima di Gualberto Alvino (Roma, Il ramo e la foglia edizioni, 2021), di Donato di Stasi
Introibo. La poesia è una linea tagliente che attraversa la realtà, eppure i molti che la praticano ne riducono il potere di interdizione e di critica, ostinandosi a fabbricare sui suoi segmenti labirinti falsi e innocue astruserie con il solo effetto di diradare ulteriormente lo sparuto pubblico dei lettori.
Per fortuna Gualberto Alvino e la sua opera al vaglio ermeneutico, Rethorica novissima, appartengono alla specie antimetafisica delle creature innervate d’inchiostro, capaci di effondere pensieri acidi e controemozioni, secondo un radicale distacco dal poetically correct.
Il Nostro ha imparato a fare a meno dell’io (il frutto avvelenato della postmodernità), ha dichiarato l’uscita di scena della soggettività che reclama per sé tutte le energie e che inghiotte l’immenso campo dei fatti e delle cose, della Cronaca e della Storia.
Di fronte al delinearsi di straripanti mondi possibili, al moltiplicarsi di prospettive e livelli, al crescere a dismisura di impressioni, sentimenti e idee (vita e morte, reale e immaginario, passato e futuro, comunicabile e incomunicabile, alto e basso), l’Autore non si fa emarginare, ma lavora con acribia a una scrittura pantarmonica, allusiva, straniante, ironica.
Da un lato cerca nuove forme espressive in un gioco di specchi all’infinito, non potendo più ricorrere ai meccanismi consolidati e univoci di causa e effetto; dall’altro, per sdrammatizzare e togliersi dalla spiacevole situazione di disagio, si affida allo spirito sarcastico producendo distacco e leggerezza e, a un tempo, profonda capacità di analisi (“… sapessero i tarli le ambagi / i varî lacerti che non si parlano ma un filo dev’esserci / basta applicarsi saltare pranzi fumare / il più possibile caffè neramaro a torrenti / ho idea che siamo in tanti nello stesso guado / non meritare il titolo non voltarsi sperando nell’errore /di persona imprescindibile è del resto la forza”, De gauche à droite).
Voltata pagina e abbandonato il weltschmerz di maniera (il solenne e sacrale dolore del mondo, che vuol dire tutto e non vuol dire niente), Gualberto Alvino punta sulla riorganizzazione e sul ringiovanimento delle forme poetiche, paradossalmente per mezzo di arcaismi e di un uso provocatorio del latino, condotto dalla più morta palude nella quale è stato infognato alle acque più sorgive e più ricche di limo per nuove modalità espressive.
Si fa strada nella sua poesia un classicismo propulsore e innovatore; si impone un’esplorazione dello spazio storico della lingua italiana, quanto mai necessario per ravvivare un patrimonio espressivo raggelato da tecnicismi e anglismi di ogni tipo (“nella paradossografia antica e medievale / dentro l’impresistica secentesca come / fossero luoghi ricordi sapori / ciò che è più probante / gli uni rispetto altri / sed de hoc satis / esta è bassa poetria de maledicto / philologo et huomo”, De gauche à droite).
Gualberto Alvino non scrive versi attenti e diligenti, puntuali e prevedibili, corretti e consolatorî, al contrario lascia la sua firma di infedeltà con una versificazione offbeat e ritmopolifonica, velenosa, stracolma di invettive e disapprovazione, segnata dall’impegno civile in uggia al peloso e distruttivo moralismo di pennivendoli e lacchè dell’industria editoriale. Pagina dopo pagina prende forma un gran carnevale di suoni strombazzati fino a infastidire, messi apposta per svegliare e per irritare, per costringere il lettore all’attività del pensare in una società fondata stabilmente sul de-pensiero.
Non esiste qualità poetica senza un’estensione quantitativa del linguaggio che tenti di afferrare i lembi sempre più sfilacciati di una realtà sfuggente, lacera, abitata da lazzari con occhi spalancati che non vedono nulla (“…la strada / piena di fiori a morto le volte / delle chiese puntellate si vede l’orizzonte / avanzare bisogna fare grandi / sforzi per non vedere come dall’alto / di una torre i nostri doppî formicolare / a scatti nell’aria ferma basta seguire la pista”, Regard).
Rethorica novissima appare come un’opera coraggiosa, lanciata con veemenza contro il sublime pomposo e l’insopportabile solennismo, contro il sentimentalismo stucchevole e il minimalismo innocuo che azzera conflitti e contraddizioni.
Si tratta di un libro sobrio, essenziale, lucidissimo e limpido nei suoi significati, ancorché torrenziale, reticolare, rizomatico (alla maniera di Deleuze e dei suoi Mille piani). L’essenzialità è dovuta al filo conduttore dell’intero flusso poematico, la filologia, disciplina con la quale l’Autore agisce sul piano della ricerca dell’integrità e dell’integralità di un testo, assegnando valore paradigmatico alla medesima operazione nella sfera morale individuale e nella dimensione etica collettiva. In sostanza la cura di un testo diventa azione metaforica per assumere la cura di sé e degli altri (“intercorrono rapporti naturali / tra le espressioni e il loro significato / (…) / lo studio etimologico può far luce sulla storia delle genti”, Rethorica novissima).
La condizione magmatica del testo si deve invece alle numerose e variegate colate di lava che vengono convogliate tra suono e senso: la critica al pensiero religioso e alla posticcia religione del Risorgimento italico (vedi la figura del re piemontese Carlo Alberto), l’elenco delle disillusioni del presente e del passato (un soldato, uno dei tanti, carne da cannone nella Grande Guerra), il monito riguardo ai totalitarismi sempre in agguato (i cimeli nazisti), la riflessione sulla follia sociale e sul conformismo dei desideri indotti, la consapevolezza dello sfacelo del corpo reale (trattato nei 398 versi di Humanitas) a fronte della sciocca immortalità attribuita al corpo cosmetico, imbellettato, estetizzato, plastificato (“dopo di che si stacca il peritoneo e si mette a nudo / l’apertura inguinale interna insieme al cordone / spermatico e i vasi e legamenti contenuti / nelle duplicature inguinali del peritoneo / a un viscere addominale sorte fuori per una / qualsiasi apertura del ventre e forma un tumore”, Humanitas).
Un libro teatrale, dunque, da recitare a voce alta, da far risuonare intorno a sé per coglierne la frugiferante e esuberante ricchezza in cui balena la contemporaneità, perché sono baleni che risalgono dal fondo prezioso e luminosissimo del passato, ovvero ciò che il vecchio mondo, andandosene, ci ha lasciato.
La presenza di lessemi desueti non disturba, perché costituisce la coscienza di valori accumulatisi nei secoli, pronti per essere riattualizzati e per stabilizzare il corso della Storia attuale, configuratasi come una faglia pericolosa, foriera di fratture e cataclismi mai visti in passato.
Abituato a imbozzolarsi in una poesia pronta per essere consumata e dimenticata, il lettore viene sollecitato da una scrittura in progress, capace di rivelare a ogni pagina strati semantici inusitati, combinazioni lessicali assai originali, incredibili aperture di senso.
In questa stessa direzione agiscono le slogature sintattiche, le spezzature metriche, gli scarti rispetto ai luoghi comuni, la multiformità di codici e registri comunicativi, la polifonia delle lingue chiamate in causa (“nobleza y lealtad”, “lu terzo è quillo là dovo è deu”, “supercilium rima palpebrarum”, “ahi paDre quel minar le fondanienta d’ogni riso”).
I segni reconditi del linguaggio (radici, desinenze, abbreviazioni, iniziali maiuscole e minuscole, apocopi, elisioni, variazioni tipografiche, accenti) uniti all’allusività dei testi dicono probabilmente più di ponderosi saggi: il suono precede il senso e si fa senso esso stesso in un gioco dialettico di reciprocità sottilmente affine al vero.
Si fa strada e attira l’attenzione un libro proteiforme, composto nel solco di una lunga tradizione parodico-realistica (Cenne della Chitarra, il Beccaio, Burchiello, Teofilo Folengo, Rabelais) che si spinge fino a Ubu Roi di Jarry per attraversare, non senza sanguinamenti, le prose mortuarie di Gottfried Benn. Dall’epigramma al reperto autoptico, dalla sgangherata ironia terzinata di “… belìn belino belìn beluccio / (…) / … san Pietro ti zitterà col ciuccio” alla trattatistica in latinorum di un feroce e meticoloso anatomopatologo (“anulus haemorrhoidalis”) la geografia esteriore e la geografia interiore vengono sovrapposte, intersecate, mescolate, di modo che le leggi e i meccanismi della prima trovino corrispondenza nella seconda.
Se il filologo medica i luoghi corrotti di un testo, il poeta prova a riparare la realtà, a riaggiustarla secondo valori nuovi disseminati nelle quattro sezioni del volume: SALVO TRASGREDIR NORMA, EPIGRAMMI, HUMANITAS, VARIANTI FORMALI.
Il Nostro non si illude di mettere ordine al caos, di introdurre un credibile ordine nel disordine, proprio perché il disordine costituisce un altro tipo di ordine come l’entropia rispetto all’energia (“perdonino le mie manchevolezze solo un moto logico / la traslaterebbe in tutta la sua estensione / sancta simplicitas obliosa inerzia / niente di fortuito veramente / mantenerci in lena da un capo all’altro del testo / non trovate sia precisamente un atto di demenza?”, Mal di testo).
Gualberto Alvino si getta a capofitto nel linguaggio, crea un gigantesco vortice fonico: furia espressiva per un verso, per altro una partitura musicale potente, esattissima (una forma personale e riuscita di vers libre liberato dal dilettantismo e dal pressapochismo compositivo).
Nei testi di Rethorica novissima circola il discontinuo per scardinare e aprire interstizi semantici alla ricerca di nuovi significati, di una nuova vita delle parole.
Dopo essere stato letto e riletto, compulsato a piacere, il libro non cessa di mandare segnali, di accendere l’immaginazione e di favorire il ragionamento critico.
Questo vuol dire che Gualberto Alvino il lettore se lo sceglie, se lo capa come il fagiolo più stondato nel suo baccello. Il lettore se lo sceglie e lo istruisce, lo migliora, scambia con lui la sensatezza del linguaggio tout court con l’insensatezza della vita.
https://www.ilramoelafogliaedizioni.it/libro.asp?ISBN=9791280223067
18/04/2022 alle 12:18
Grazie.