Il pensiero emotivo di Carlo Giacobbi | L’anfibio di Gabriele Marturano, nota di lettura
L’opera in versi di Gabriele Marturano pone in dominante – come suggerisce il titolo assegnato alla silloge – la condizione anfibia dell’essere al mondo.
In senso figurato, la condizione predetta, si sostanzia nella natura composita e commista della relazionalità, e dunque nella reductio ad unum <<degli opposti>> (p. 63), nell’henosis in cui si esprime il noi, nel <<condividere per intero>> di cui alla lirica Slow life di p. 69.
La diegesi poetica che connota il corpus testuale sembra farsi allegoria continuata d’un io alla ricerca di un’alterità atta a compierlo, di un tu – nella specie amante e femminile – che sottragga dall’isolamento e dal ripiegamento su sé stessi.
Il soggetto lirico coincide con l’Autore, il quale, ispirato da motivi autobiografici, dice io senza alcun alter–ego, così recuperando l’io-lirico della tradizione e sottraendolo all’emarginazione cui è stato confinato da tanta parte della poesia estraniata del secondo novecento, spesso vocata, quest’ultima, ad un’indeterminata ed anonima terza persona.
A livello morfologico-verbale, dunque, Marturano discorre in prima persona e sovente all’indicativo presente; un presente storico che postula referenti fattuali anteriori all’enunciazione poetica, in funzione attualizzante d’un vissuto trascorso ma ancora vivo nel sentire del poeta e ri-evocato allo scopo di marcare il momento d’abbrivio freddo e desertico del suo essere al mondo; momento teleologicamente inteso a dare il là alla progressiva maturazione affettiva del soggetto e dunque allo schiudersi all’alterità.
Ed infatti, quello che rileva in quest’opera, è l’evoluzione d’un io che, principiando dall’avvertimento d’uno <<stato larvale>> (p. 8, nota anteposta a Tundra brianzola) va progressivamente sbozzolandosi, fino a giungere alla <<grazia dello sfarfallio>> (p. 66).
La prima sezione, <<Tundra brianzola>>, pone en relief <<la tortura di essere un seme che ignora la propria specie e che teme di non fruttare mai>> (nota p. 8 cit.), una sorta di nihil (p. 11, <<(…) lo zero / tra i miei pari>>) o comunque di evanescenza (p. 13, <<(…) sono solo un sogno / con un po’ di pelle dura>>) situata al centro d’un panopticon costrittivo (<<Tutto il giorno oppresso / da un recinto di occhi>>, ibidem) ed umbratile (<<Il buio / una malìa di chiaroscuri>>, ibidem) così come chiaroscurali, notturni, lunari sono i cromatismi della Tundra, anch’essi correlativi oggettivi di emozionalità pertinenti al lato oscuro ed abissale dell’isolamento patito ed efficacemente iconizzato nelle strutture versali.
Il difetto di henosis, lo iato io-mondo, la riduzione del <<volto vivo>> (p. 16) a mera <<pareidolia>> (ibidem), sono leitmotiv della sezione in esame, il cui topic principale pertiene ad una sostanziale eclissi del soggetto, al suo percepirsi <<persona / rarefatta, irrisoria, / fatta rara, illusoria>> (p. 17) peraltro alla mercé di istanze etero-determinanti (<<A governarmi stento>>, ibidem), alle prese con la sua Existenzerhellung, la <<chiarificazione esistenziale>> Jasperiana che nell’Autore – quantomeno nella prima partizione – s’arresta al <<punto di domanda / che vaga in questa tundra>> (p. 19).
La seconda sezione, titolata <<Mia cara Zeus>> (p. 23 e ss.), recupera una mitologia originalmente declinata al femminile; qui, la cara Zeus, come la Lucifera di p. 26, ipostatizzano in termini prosopopeici la <<mia cara S>>, l’amata di cui all’epigrafe dedicatoria di p. 7; miti-archetipi di cui Marturano evidenzia la natura duale ed ambigua, in perfetta aderenza al titolo della silloge, id est L’anfibio, che rimanda al gr. amphíbios, cioè “dalla doppia vita”.
La figura femminile sintetizza in sé tanto la deità di una Zeus generosa eppure bisbetica e volubile, quanto il demoniaco di Lucifera, a suo modo infernale ma, stando all’etimo del sintagma, portatrice di luce al tempo stesso.
E sono proprio gli elementi della luce e del calore, metaforizzati nel Liquidus ignis (nel fuoco primigenio) di p. 25 che marcano il transito alla dimensione del tu-amato, il quale riscatta l’io-lirico dal deserto inanimato della Tundra per condurlo <<a svernare>> (p. 30) <<guidato dal calore / dei ceri accesi>> (p. 33) in un ventre-alcova denotato quale spazio sacro (<<Lungo la navata / che si apre tra le arcate / del tuo corpo>>, ibidem).
Le locuzioni verbali – riferite a Lucifera – quali <<t’addentri>> (p. 34) o <<Ti sei mossa>> (ibidem), peraltro nell’interior-a dell’interior-ità (ibidem), dicono d’un rapporto amoroso viscerale, che scende nell’imo più abissale degli amanti; un amore che si fa esperienza totalizzante dell’uno nell’altra, che rende luminosi (p. 34 cit., <<le mie cellule / diventano Soli>>), che amplifica l’essere (<<rameggia in galassie l’organismo / si spande>>, ibidem), che si contrae (p. 36, <<contrassi l’amore>>) per infezione, per contaminazione o contagio (p. 37, <<Vi è un’infezione / che si propaga nell’affetto>>).
Il femminile di Marturano, in altri termini, rovescia la rappresentazione della donna angelicata di matrice stilnovista; il poeta pone l’accento sulla carnalità dell’amata, la quale è epurata d’ogni carattere di trascendenza (con eccezioni, certo, tipo nel verso di p. 51, <<non so vederti come sola carne>>); quella dell’autore non è donna inarrivabile o eterea, ma prossima ed agente, capace di esperire appieno la sua carica erotica (p. 41, <<mi annusi / e sento saltarmi al collo, digrignarmi / nella ciotola tra le clavicole>>), di consumare il vigore maschile (p. 45, <<Dilapidami il vigore dell’età>>), di esternare con veemenza i propri stati emotivi (p. 49, <<mia cara Zeus sfoga quanto vuoi la tua pazzia>>).
Sòma e psiche giungono ad essere così morbosamente coinvolti, da generare nell’io-lirico, specie nelle sottosezioni Altre notti (p. 35) e Secretum (p. 41), la shakespeariana sindrome di Otello; per quanto l’Autore sia conscio che l’amata sia <<un mondo che non gli appartiene>> (p. 38), allo stesso tempo si percepisce agìto dal tarlo della gelosia (emozione parimenti accusata dalla Musa ispiratrice come si legge nel componimento di p. 46), tanto da sentirsi coartato <<al ruolo del padrone>> (p. 38), all’esercizio dunque d’un dominio sull’alterità atto a minare l’esistenza stessa del rapporto amoroso.
Eros e Pathos si contendono lo spazio relazionale, sino – in diversi passaggi – alla prevalenza del secondo sul primo, alla delirante ipotesi di tradimenti ragionevolmente improbabili (p. 42, <<Ho scoperto il vostro patto>>) poiché afferenti ad amori pregressi, conclusi.
Vengono qui alla mente gli scritti di Gabriel Marcel, il quale, nell’indagare le dinamiche anche oscure del rapporto affettivo, afferma che l’amore può degenerare in brama funzionale ad <<un obiettivo ben preciso: impadronirsi di un certo essere determinato, possederlo>> (cfr., G. Marcel, Per una filosofia dell’amore).
Fermo quanto sopra, tuttavia, nell’ottica della cennata maturazione affettiva del poeta, le liriche che procedono da Il gioco dell’immortalità (p. 52), compresa la terza sezione dell’opera, <<L’anfibio>> (p. 61 e ss.), si smarcano dall’idée fixe del possesso dell’altro; il Nostro, quasi ad epilogo dell’opera, ed assumendo un tono meditativo-confessorio, quietando la mente, rallentandola quasi (p. 69, Slow life) per direzionare il focus su una più alta e ravveduta idea d’amore, dice a sé stesso: <<Credevo l’amore fosse / impossessarsi dell’altro (…) / Ho imparato a condividere per intero>> (ibidem).
Il cruccio non è più quello della gelosia. Il noi è pacificato; il timore della perdita dell’altro/a diviene certezza che non origina più da un tertium, ma dalla riflessione sulla finitudine esistenziale alla quale Marturano oppone la fede laica nella massima di Lavoisier secondo cui rien ne se perd, rien ne se crée; ciò in cui confida l’autore è che il noi, sopravanzata l’esperienza sensibile, possa continuare ad essere mutando in altra forma (p. 52, <<Le nostre stesse generazioni / ci scorderanno, e non ce ne vorranno / molte; ma a me importa / che in qualunque forma (né si crea né si distrugge: si trasforma) / noi sapremo ritrovarci>>); tale brama d’infinito è espressa con struggente tenerezza nella lirica Appello (p. 57); in essa l’autore, implorante, eleva la sua istanza-preghiera ad una divinità panica ed indistinta, non identificata (<<prego un Signore che non conosco>>, ibidem) ad un <<mio Dio>> (ibidem) al quale si chiede di credere <<nella reincarnazione>> (ibidem), che faccia in modo – non importa il quomodo – di rendere immortale l’amore, perché l’uomo, per dirla con Sartre, sarebbe une passion inutile se l’amata smettesse di essere (<<Ora che esisti / non posso ammettere tu smetta>>, ibidem).
Con quest’opera, matura ed originale, caratterizzata da uniformità stilistica e coerenza tematica, dal linguaggio che efficacemente bilancia denotativo e connotativo, trobar leu e clus (sicché pur in presenza di scarti linguistici l’intentio del poeta è intuibile), Marturano supera la datità fattuale conchiusa ed alienata da cui principia la sua poetica; egli, ponendo l’accento sul suo essere in statu nascendi, ed evidenziando attraverso il logos poetico il thauma (l’angoscia) di non riuscire a farsi parte dell’alterità, scongiura il pericolo dell’isolamento attraverso la koinonia amorosa, muovendosi coraggiosamente verso l’altro-da-sé, lasciandosene accogliere ed integrare, sperimentando così quello stato di completezza – certo mai definitivamente e al massimo grado acquisibile – dal quale nelle liriche incipitarie temeva di restare escluso.
L’anfibio di Gabriele Marturano, Fucine Editoriali di Niccolò Rada, 2020.
Lascia un commento