La statura della palma di Francesca Del Moro, conversazione sul libro di Claudia Zironi e Matilde Mariano.

      

La poesia di Francesca Del Moro è sempre stata, e via via nel percorso si è sempre più affermata, parola vera, testimonianza, voce di chi non vuole o non può parlare.
In “La statura della palma” – recentemente uscito per edizioni Cofine, con prefazione di Annamaria Curci – in uno scenario cristiano in cui storicamente, raramente il ruolo della donna è carismatico e di primo piano, e comprende una silenziosa sottomissione e una passiva resistenza agli eventi avversi, Francesca dà voce a tredici donne – martiri – conferendo loro una caratterizzante espressività che testimonia sì, ma coinvolge e trascina anche, il lettore nella fermezza del loro credo. Scevra di similitudini barocche, con la solidità di un immaginario condiviso, la cifra poetica costruisce l’aura di purezza di personaggi che non hanno la necessità di incantare ma quella di esprimere una fede intuitiva e illuminante.

In alcuni componimenti avvertiamo la forma della preghiera che passa per un linguaggio semplice e interiore, come un discorso di credo intimo, a un linguaggio solenne e più ricercato proprio della dichiarazione di fede che si deve a una martire. A volte la narrazione del martirio passa in secondo piano per dare spazio a un insegnamento universale che trascende la persona e definisce l’ente supremo.
In “Caterina” l’eloquente, ad esempio, in tutto il corpo del testo, troviamo una grande varietà di suoni, con allitterazioni e anafore e dissonanze, quasi a indicare in questa esposizione linguistica la totalità del Creatore. Tali figure retoriche configurano una ricerca testuale atta a rappresentare la perfezione di Dio.

Non c’è una particolare partecipazione emotiva delle sante verso gli aspetti del martirio umilianti e dolorosi, a enfatizzare il raggiungimento della pace tramite la fede, a enfatizzare la forza della Donna. 

Ci troviamo di fronte a un libro di poesia religiosa dove più che mai è necessario scindere il credo personale dalla motivazione di scrittura dell’autrice. Questo va detto e specificato. Poiché appare chiara e forte dagli altri libri di Francesca la sua laicità, dunque questa opera va letta come un dare voce a personaggi storici, ma non per caso tutti di sesso femminile, che tanto sono stati brutalmente silenziati. L’intento di Francesca si è realizzato nel totale rispetto della loro visione cristiana del mondo. Si è realizzato donando loro, attraverso il tessuto narrativo sottostante del sogno futuribile della Madonna e tramite il linguaggio, una pregnante modernità.

Di seguito vi proponiamo il testo della poesia  di chiusura dove il colloquio con Dio è diretto, da pari a pari, e al tempo stesso pregno del potente dubbio che pervase anche il Figlio nel giardino del Gestemani:

Lucia

Se anche mi strappassi gli occhi
Signore
per mandarli come biscotti
su un vassoio d’argento al mio aguzzino
oppure offrirglieli come margherite
se come lunghe lacrime li spremessi fuori
se li svitassi come lampade a rischiarargli la notte
ti leggerei con le dita l’alfabeto delle ferite.

Rinuncerei allo sguardo
innamorante, dove brilla
lo Spirito che fatto stella
ornò il capo di madre
le sciolse il gelo nel grembo
e nel mio nome pronunciò
la luminosa promessa.

Di luce avvolsi Siracusa
venuta al mondo, e la Sicilia tutta.

Chi non riesce a contrastare
la mia eloquenza e lo sguardo
oggi mi manda al lupanare.

A nulla valgono però
mille servi a trainarmi
né funi ai piedi e alle mani
né cento carri di buoi.
Rimango salda come acciaio
e come acciaio esco temprata
dalla pece infuocata.

La folla invoca la spada.

Ora s’invera in te la vista.
Ti leggo tutti i nostri nomi
a uno a uno sulle labbra.

“Perché col mio sangue, Padre
chiami altro sangue innocente?
Perché togli memoria alla tua Chiesa
che farà martiri come queste?

Perché questo squartare incrinare sventrare
questo guastare spezzare ardere ammaccare
questo strozzare soffocare spezzettare eccetera?

Non ti fanno spavento questi morti a tua immagine?
Dimmi, padre, tutto questo a che vale?”

Parli con la stessa voce
che nell’orto del Getsemani
s’impigliava tra le foglie.

Come allora ovunque sale
il respiro formidabile del padre
del padre che tace.

Ma per me è già troppo tardi.

Non posso più rinunciare, non è tempo
per questo genere di ripensamenti.

Così cadranno insieme al capo
i miei occhi lucenti.

*