L’autopoiesi della parola totalizzante nella poetica di Giancarlo Biondi (1958-2021), di Maria Laura Valente

 

La parola poetica di Giancarlo Biondi (1958-2021), poeta bilingue romagnolo, è, al pari del suo nome, poco nota alle estese platee virtuali, ormai avvezze a recepire come immediata l’interconnessione, spesso fallace, tra ubiquità mediatica e pregnanza artistica. Tuttavia, con il giusto paio d’occhi, non è difficile rinvenire e seguire le tracce che Biondi ha disseminato lungo un percorso di ricerca poetica incentrato sulla misura breve della parola totalizzante e sulle potenzialità espressive di una sintassi snodabile che amplifica la deflagrazione della polisemia verbale.
Strumenti essenziali per orientarsi nell’analisi della scrittura di Biondi sono le sue due raccolte poetiche: Aprili (Società Ed. Il Ponte Vecchio, 2001) e Il tuo amore mio (Raffaelli Ed., 2019).
Prima ancora di addentrarsi nell’analisi comparativa dei due testi citati, è necessario fermarsi un istante a considerare la distanza temporale che ne separa la pubblicazione. Diciotto anni. Un tempo lungo, lunghissimo in effetti, che, per dichiarazione resa dall’autore stesso, non ha coinciso affatto con uno spazio di silenzio poetico montalianamente inteso, rappresentando piuttosto l’ampio τέμενος temporale con cui Biondi ha perimetrato il proprio arioso opificium poetico. Uno spazio compositivo ampio e diluito, quindi, un tempo di elaborazione inversamente proporzionale alla misura minima dei testi prodotti.
Per quanto attiene all’impianto delle due raccolte, è agevole rilevarne l’affinità strutturale, in quanto entrambe presentano una netta bipartizione dettata da un criterio linguistico: una prima sezione di testi poetici in italiano (eponima di ambedue le opere) e in una seconda sezione dedicata al vernacolo romagnolo.
Tale struttura rende l’esatta misura dell’inesausto lavoro di ricerca, costantemente condotto in sincrono da Biondi sul doppio binario della lingua italiana e del dialetto romagnolo. In ragione di questo, non appare dunque inappropriato condurre un’analisi comparativa delle due raccolte procedendo per sezioni linguisticamente parallele.
L’opera prima Aprili già presenta, nelle trenta poesie che compongono la sezione in lingua italiana, quella cifra compositiva minimale che sarà la connotazione peculiare dello stile di Biondi: l’elezione del verbum a nucleo generatore di senso; l’esplorazione delle sue potenzialità espressive, in solitaria e in combinazione sintattica; il potere evocativo del gioco linguistico, supportato spesso dall’uso ricorrente delle figure di suono (si veda l’insistita paronomasia in testi quali Verso versi/verso sera e Fiera cerca circo/circa Circo Orfei./Fiero cerco fiore/circa fiore cuore. o l’allitterazione paronomastica in Fuori/odori,/fuori e tu,/di fiori.) e dalle inserzioni polisemiche in componimenti quali, ad esempio, l’ultimo citato o ancora Avrai piantato un chiodo, quindi pianto. La parola si sgretola progressivamente, alla ricerca del quantum di senso che le permetta si sussistere autonomamente o in combinazioni minime, configurandosi in quelli che Gianfranco Lauretano ha definito «granelli semantici» e «microbi sintattici» (Graphie, 2002), come accade in componimenti di estrema concisione morfosintattica, quali Lavorando/riposando e ancor di più Un sì/al dì, frase nominale scandita da quattro monosillabi articolati in due versi. Rimarchevoli appaiono, inoltre, i tentativi di veicolare e amplificare la percezione individuale della realtà attraverso un uso consapevole degli strumenti morfosintattici e retorici. Si legga in tal senso l’uso dello schema compositivo circolare, in componimenti quali Io/comincio con/Io o ancora in Scrivi:/qui si tira/avanti/ma il tuo vuoto/è incolmabile:/scrivi, da intendersi non come cristallizzazione un un’azione puntuale (la chiusura di un cerchio) quanto piuttosto come processo in-finito ossia non-finito, concettualmente assimilabile alla variante grafica aperta dell’ensō (円相) buddhista, la cui non-chiusura, imperfezione pittorica solo apparente, dichiara formalmente la propensione all’eterno movimento di ricerca orientato al perfettibile. Altro esempio è offerto dal distico Un’altra Silvia/non ti somiglia., in cui i pentametri scartano la consueta rima baciata in favore di un legame d’assonanza. La scelta della rima imperfetta non è casuale: l’unicità dell’essere non è replicabile in forma esatta, malgrado l’apparente identità di fattori individualizzanti, come il nome proprio, ad esempio, che, nonostante l’allure letteraria che lo circonda (e il rimando letterario non è infrequente in Biondi; si considerino, segnatamente, gli echi foscoliani e pascoliani nei componimenti di ambientazione serale), è in realtà quello dell’amata moglie del poeta stesso, la cui unicità e irripetibilità è in tal modo lapidariamente sancita.
A diciotto anni di distanza, la sezione in lingua italiana de Il tuo amore mio, propone un numero sostanzialmente identico di testi (ventinove) che ripropongono, approfondendoli, elementi già presenti in nuce in Aprili, ampliando il campo d’indagine a ulteriori istanze poetiche e umane. Il già accennato uso della sintassi flessibile quale dilatatore del margine di libertà interpretativa si segnala già dal titolo stesso. La contrazione del testo su un’unica riga, di per sé imposta da esigenze di titolatura, ne amplifica infatti la risonanza polisemica, lasciando al lettore la possibilità di sperimentare le variabili di senso sottese a varie possibilità di a capo, ciascuna delle quali gioca sulla natura ancipite dei due possessivi che incapsulano la parola-tema amore. Torna anche la sperimentazione sulla parola minima, che procede nei testi per via di ricombinazione sintattica (Libertà/di/a/da/in/con/su/per/tra/fra.) e di polivalenza (mono)sillabica (Invece la E che finisce/e invece la E che esordisce//e invece la E che unisce/e invece la E che esce//e invece la E che entra/e invece la E che è//e la lettera e la particella che/arrossisce gioisce.), talvolta attraverso l’impiego, ormai noto, della struttura circolare (Luna/come/lama/come//lemma//come/lama/come/ luna.) È interessante rilevare che, a fronte dell’assenza, in Aprili, di una dichiarazione di intenti poetici, Il tuo amore mio ne contiene ben tre: O poesia:/io non so scriverti:/sei fatta da te., in cui il poeta rinuncia al proprio ruolo di artifex e si riconosce medium, puro canale di ricezione e trasmissione di una parola poetica in perpetua autogenesi; Vado con le poesie/meno serie/ che non sono poesie/fatte in serie.//Vado con le poesie/fatte in serie/che non sono poesie/meno serie., che rivendica, in forma di umoristico parallelismo chiastico, la dignità poetica del repertorio umile, civilmente disimpegnato, a tratti comico-realistico; Le parole/che smettono di essere/le cose che sanno di/esserci., ultimo componimento della sezione, che sancisce l’autopoiesi della parola poetica che, in ultima analisi, si configura come entità generatrice di senso, autogenerata e ab-soluta dal senso stesso che genera. Tra le ulteriori istanze che ampliano la latitudine tematica de Il tuo amore mio, si segnalano le indagini condotte sull’io (Dimenticando/me stesso – ritrovando/me stesso/dal Sé.) e sulla sua frammentazione (So poco dei miei volti./Somigliavamo a molti.), su natura e funzione dell’anima (Anima –/bussola, timone della nave/ansia sfinita, chiodo nel mare/appuntamento da cancellare/se volo inutile. Parola-chiave.), sulle disfunzionalità dei rapporti interpersonali (Giocoforza/che non ci entro nella tua presenza,/che non ci esco/dalla tua assenza. e anche Mi sono messo a vivere.//Ti amo senza me.//Le volte che sto per ucciderti/ho la priorità di rivederti.) e sulla fallacia connaturata all’essere umano, quest’ultima resa con un taglio umoristico da aforisma di sapore wildiano per mezzo di un unico endecasillabo sospeso nel tempo e nello spazio (Non hai mancato mail l’errore esatto.).
Alla luce di quanto sin qui osservato, appare chiaro come la scrittura di Biondi in lingua italiana si sviluppi seguendo due direttrici fondamentali di ricerca: quella linguistica, condotta attraverso un costante lavoro di destrutturazione, manipolazione e riposizionamento degli elementi minimi del testo, ivi inclusi i monosillabi e i segni interpuntivi, attraverso quello che, nella prefazione a Il tuo amore mio, Lauretano assimila per via analogica alla fissione nucleare, e quella intimistica, che assume i tratti di un percorso di conoscenza volto all’indagine sull’io e sul sé. Le parole stesse dell’autore, che ha definito la propria scrittura un processo di smontaggio, destrutturazione e riassemblaggio in altro luogo dell’anima sembrano confermare che, sul piano prospettico, le due linee di ricerca convergono verso un unico punto di fuga.
Passando all’analisi delle seconde sezioni delle due raccolte in esame, si entra in contatto con l’altro Biondi, il poeta vernacolare, simile eppur dissimile dal suo alter ego italofono.
La sezione vernacolare di Aprili, Ir, racchiude dieci poesie in dialetto romagnolo, delle quali è fornita, in chiusura, la corrispondente versione in lingua italiana. Caratterizzati dalla tipica brevitas biondiana, i testi di Ir si innestano, senza però ristagnarvi, nel solco della svolta tematica che ha caratterizzato, a partire dal secondo Novecento, la produzione letteraria nei dialetti della Romagna, i quali, abbandonando le rotte espressive che ne avevano limitato il raggio d’azione al bozzetto agreste di registro comico-realistico, con occasionali incursioni nell’area descrittivo-sentimentale, hanno virato verso forme di realismo, o meglio, verso multiformi realismi, animati e soggettivizzati dall’emergere di vissuti individuali. I temi che Biondi sviluppa sondano la multidimensionalità del quotidiano e dell’esperienza personale, che amplia a tratti il proprio respiro a livello universale: la malinconia della memoria (A cèm datònd a ca’/la vòusa de’ mi améigh/che l’è andé a stè/vi’ là. Chiamo attorno a casa/la voce del mio amico/che è andato ad abitare/lontano.) che sconfina a tratti in forme di cupa tristezza, le quali rievocano il tratto di Pedretti (E’ pròim dé scóla/a fasét agli asti, stórti,/e a gét qualca paróla s’e’ mi nòum. E’ fòu un dé nir cumè e’ zinalòun. Il primo giorno di scuola/feci le aste, storte,/e dissi qualche parola con il mio nome./Fu un giorno nero come il grembiule.); l’ineluttabilità dello scorrere del tempo che trascende l’umano controllo (Ènca st’cióud / i pen / tla càsa / de’ témp / e’ pasa. Anche se chiudi/i vestiti/nella cassa/dentro il tempo/passa.); lo sdoppiamento dell’io (Quand ò dbóu/a sém in dóu.//Mè e clòu.//A bòi ch’e’ bòi/ch’a n’avém dbóu. Dopo che ho bevuto/siamo in due.//Io e quello.//A bere quel vino/che non abbiam bevuto.); la schermaglia amorosa (Ir/t’è fat apòsta/a ciapé vi’./T vu infruntè se/a t véngh dri. Ieri /hai fatto apposta/a prendere via./Vuoi indovinare se/ti vengo dietro.).
Quasi vent’anni più tardi, Gratis, sezione dialettale de Il tuo amore mio, presenta un significativo incremento nella selezione delle poesie proposte, che dai dieci di Ir passano a trenta. Non è, tuttavia, la sola sezione in sé ad ampliarsi. La misura stessa dei testi si fa più ariosa, nell’estensione e nel numero dei versi, pur non dismettendo in toto la stringatezza che la contraddistingue. Il tono resta semplice e dimesso; il repertorio del poetabile continua a percorrere il periplo dell’esperibile nel quotidiano. Tornano temi cari all’autore, come lo scorrere del tempo, ad esempio, che qui si lega ancor più strettamente al vissuto individuale dell’autore (i corsi e ricorsi dei gusti personali) e, nel contempo, si apre a un respiro universale, che rende quest’esperienza fruibile a livello universale: U i’ è stè un paséid/che i m piaséiva/ad pió i pasadòin /che n’è i caplétt/e pu’ dop i m’è piasóu/dlèlt ad pió i caplétt./A péns m’ un paséid ch’e’ sipa/e’ ciapè vi’ d’una pasiòun. C’è stato un passato/in cui mi piacevano/di più i passatelli/che i cappelletti/e poi mi sono piaciuti/ancora di più i cappelletti./Penso a un passare del tempo che sia/il prendere via di una passione. Tornano anche le guerre d’amore (A m smàn, a stagh da dzóun, a mèni vérti,/a t’ fagh la guèra senza t’ a t’ nadéga./Che tinimodi a zughém a chèrti squérti. Mi spoglio, sto a digiuno, a mani aperte,/ti faccio la guerra senza che te ne accorga./Che in ogni modo giochiamo a carte scoperte.) e il tema del doppio; quest’ultimo, però, viene in questa sede svincolato dallo stato dissociativo indotto dall’ebbrezza alcolica (per quanto il vino riappaia comunque in altri componimenti), collegandosi invece all’ombra, il “doppio naturale” di ogni cosa, che si bipartisce a sua volta: T’è dó ombri./Cumpagni ma tè./Òna la t’vén/intr e’ lèt. Hai due ombre./Uguali a te./Una ti viene nel letto. È interessante notare, a livello concettuale, come l’evolversi della poetica di Biondi in termini di autoconsapevolezza (già rilevata in merito ai tre testi programmatici presenti nella prima sezione de Il tuo amore mio) non si limiti alla produzione in lingua italiana ma esondi nel campo vernacolare. Un testo di Ir in particolare, infatti, restituisce la misura esatta del rapporto di Biondi con il dialetto romagnolo da lui praticato, quello dell’area di Gambettola, in provincia di Cesena, inteso come legame ancestrale con l’oralità della terra natia che si fa corporeità sonora e luminosa: La lóuta la tu’ léngua a scòr/ènca int e’ scóur/in cla lòusa d’una vólta. Continua la tua lingua a parlare/anche nel buio/in quella luce di una volta.
Ed è partendo da questi versi che, verosimilmente, possono essere tracciate le coordinate delle rotte esplorative di Biondi nel mare incertum del dialetto romagnolo. Tutto parte dall’oralità. Un’oralità sorbita sin dall’infanzia attraverso il parlato materno e matrilineare e poi arricchitosi per via di commistione progressiva attraverso il contatto con le numerose varianti locali. Da questo punto zero, Biondi ha innescato un processo non di mera trascrizione bensì di mutazione sperimentale di fonemi in grafemi, che, rimuovendo il «cordone ancestrale-orale», generasse quella che Davide Argnani ne Il post-dialetto di Giancarlo Biondi (Tratti, 2007), correttamente definisce «lingua post-dialettale, ossia un meta-dialetto oltre il comune parlato, senza tradirne l’origine».