Il pensiero emotivo di Carlo Giacobbi | Nota di lettura su <<La disciplina della nebbia>> di Massimiliano Bardotti (PeQuod, 2022)

 

La silloge di Massimiliano Bardotti si articola in n. 5 sezioni: 1) Non possiamo tacere, 2) Il gufo e l’allodola; 3) Il dolore, la gioia, la pazienza; 4) Delle benedizioni; 5) La quercia e il mandorlo.

La prima partizione dell’opera – Non possiamo più tacere – si apre, come indica la locuzione testé enunciata, all’insegna dell’urgenza del dire.

Quella di Bardotti è una sorta di vox clamantis in deserto il cui telos è richiamare l’umano all’incanto, allo stupore, al miracolo, ai signa che evocano l’<<eterna bellezza>> della creazione (p. 13, <<Di dirla tutta è ora, questa eterna bellezza>>).

<<è ora>> (ib.) – scrive il Nostro – o forse è l’ora per dirla in termini escatologici; è il kairos evangelico, il tempo propizio di cui far tesoro per riappropriarsi della sacralità dell’esistenza, del <<suo annuncio>> (p. 15), della novella di <<Colui / che fa nuove tutte le cose>> (p. 16), che riscatta dall’oblio della morte (p. 23, <<E se nascere fosse morire e morire resuscitare?>>).

Tale predisposizione dell’animo, votato alla contemplazione ed al raccoglimento, si realizza per il tramite dell’adesione a quelle virtù teologali (fides, spes, caritas) poste in claris dal poeta nei suoi versi (cfr. p. 21, <<fiducia nel palmo di una mano>>; ib. <<speranza nel girasole>>; p. 19, <<potermi dire / servo della bellezza, del bene>>).

La seconda partizione – Il gufo e l’allodola – in continuità con la prima, evoca il topic dell’essere in vigilia, in veglia (p. 31, <<Necessario si fa, vegliare>>); qui l’attesa assume connotazioni ora apocalittiche (ib. <<per chi ha visto il mare gonfiarsi / e la pioggia scendere irruenta / i fiumi esplodere, il fango scorrere>>) ora di accettazione del passaggio dalla vita alla morte e, in termini cristiani, dalla seconda alla prima (p. 27, <<E poi bisogna andare / quando è ora essere pronti>>).

Il dettato si fa poi salmo d’invocazione, insistita richiesta teofanica sviluppata per il tramite del conativo <<Vieni Signore>> (p. 29, Sabato Santo), di un maranâ thâ’ iterato a guisa d’anafora.

La supplica al <<Padre>> (p. 30) è occasionata dall’urgenza d’un intervento salvifico che, sebbene promesso ed atteso nell’altrove, necessita nell’hic et nunc d’una storia terrena che è anche croce, patimento (ib. <<Vieni, allora, Padre / perché ogni giorno scema la speranza>>).

La rêverie bachelardiana, il platoniano essere ekphron o l’entusiasmo (en-thèos) lirico che ispira e a suo modo “possiede” il poeta, l’anabasi, non impediscono – anzi meglio consentono – a quest’ultimo di sperimentare anche il senso di vacuità e di avvilimento che ogni uomo soffre in sé e vede nell’alterità.

Lo sguardo è certo rivolto al cielo, ma quale esito d’una catabasi dolorosa che, proprio perché vissuta ab imo corde, anela a quella salvezza che invoca (p. 31, <<Abbiamo guardato gli occhi dei padri / oscurarsi giorno dopo giorno. / Li abbiamo visti diventare estranei al mondo / dirsi battuti>>).

La dicotomia, l’antitesi dolore-gioia, di cui alla terza partizione dell’opera (Il dolore, la gioia, la pazienza) è più apparente che reale. Detti stati emotivi non sono distinguibili in termini ontologici poiché, nell’esperienza storica, come in quella precipua del Nostro, convivono partecipando l’uno dell’altra.

Spesso, nei versi dell’Autore, l’afflizione è viatico della rinascita (p. 44, <<Ero morto anche se camminavo (…) / Un giorno me ne sono accorto. / Allora mi / sono inginocchiato. / Ed ho pianto, ho pianto le lacrime / più belle e disperate>>); i vùlnera, le proprie ferite, consentono di meglio sentire quelle degli altri (p. 47, <<Bisogna essere vulnerabili per sentire come nostro / il dolore di un altro>>), di creare quella forma di empátheia che solo chi ha davvero sofferto è capace di sviluppare (p. 48, <<Ho premura per la malinconia, perché la conosco, m’è / compagna e compagnia>>).

In questo corpus lirico caduta e redenzione, percezione della colpa e richiesta di perdono sono – si – fasi evolutive del percorso esistenziale di Bardotti ma così universali da interpellare la vita di ciascun lettore, del prototipo umano d’ogni tempo e luogo, sempre in bilico tra male e bene.

Il richiamo alla caduta di cui alla narrazione veterotestamentaria è evidente (p. 41, <<Non mi accontentai della bellezza, volli il resto. / (…) Poi caddi. E cadere mi riuscì più di frequente / di tutte le altre cose>>); come è evidente il rimedio cristiano che Bardotti oppone al peccato: <<Poi con la fronte tocco la terra, / chiedo perdono al vicino di casa>> (p. 51).

E non potrebbe essere altrimenti per chi, come l’Autore, si è disciplinato attraverso l’ascesi, la preghiera, la contemplazione, alla cura del dettaglio, alla capacità di vedere oltre il velo di Maya della nebbia, all’ascolto di quel <<primo annuncio del / Verbo>> (p. 48) indicativo dell’adesione al lógos di cui al prologo giovanneo.

Nella quarta partizione dell’opera – Delle Benedizioni – la pronuncia si fa ancòra più assertiva e benedicente; l’io-lirico bene-dice (p. 60, <<L’incanto del cielo>>; p. 61, <<quando accade la gioia / negli occhi degli altri>>; p. 65, <<il pane quotidiano>>) e allo stesso tempo chiede al Signore benedizione per i suoi cari. Il suo personale benedictus è lauda dai motivi francescani, continuo rendimento di grazie, voce benevola ed in quanto tale eversiva del sistema di pensiero dominante, troppo spesso proteso a male-dire, a screditare l’altro, a denigrare o sprezzare il mondo.

La quinta sezione – La quercia e il mandorlo – che si compone di una lirica, affronta il tema della richiesta: occorre abbassarsi a chiedere se si vuole ottenere una risposta, accettare l’idea di non essere autosufficienti. Solo allora, forse – sembra dirci Bardotti – potremo figurarci Dio nelle vesti di un Maestro che ama l’altro senza dire nulla, tacendo, semplicemente guardandolo <<dentro gli occhi>>, immagine, quest’ultima, che richiama il <<fissatolo, lo amò>> che si legge in Mc 10, 21.

Con un linguaggio piano, incline a parteciparsi anche al più umile lettore, Bardotti ci consegna un’opera matura, autentica, poiché tratta dalla verità della sua esperienza mistica; un libro che trae il suo humus stilistico e semantico in primis dalla Sacra Scrittura, proponendosi quale taccuino o quaderno dai toni sapienziali e profetici, certamente atto ad offrire illuminanti spunti meditativi per chi dovesse farsi animatore d’una catechesi collettiva o per colui che volesse educarsi alla preghiera personale.

 

 


 

Massimiliano Bardotti (1976) è nato e vive a Castelfiorentino (FI). Poeta, è presidente dell’associazione culturale Sguardo e Sogno, fondata da Paola Lucarini. Pubblica, tra gli altri: Il Dio che ho incontrato (2017, Edizioni Nerbini), I dettagli minori (2018, Fara Editore), opera di poesia e prosa dal quale è stato tratto l’omonimo spettacolo teatrale interpretato insieme a Viviana Piccolo, Diario segreto di un uomo qualunque, appunti spirituali (2019, Tau Edizioni). A marzo 2020, sempre con Fara Editore esce Il colore dei ciliegi da febbraio a maggio, scritto insieme a Gregorio Iacopini e con la prefazione di Filippo Davoli e la postfazione di Isabella Leardini. Nel mese di maggio 2021 esce Idillio alla morte, scritto con Serse Cardellini. Il libro apre la collana poetica Fuori Stagione di FirenzeLibri, della quale Bardotti, Cardellini e Iacopini sono curatori. A giugno 2021, per Puntoacapo Editrice esce La terra e la radice. Nel 2017 a Castelfiorentino dà vita a <<La poesia è di tutti>>, percorso poetico e spirituale, presso l’associazione culturale OltreDanza. Dal 2018 conduce <<L’infinito, la poesia come sguardo. Ciclo di incontri con poeti contemporanei>> al San Leonardo al Palco di Prato.