Il pensiero emotivo di Carlo Giacobbi | Nota di lettura su In verità mi dico di Enzo Bacca (Edizioni Esperidi, 2022)

 

Con l’opera in commento, che già nel titolo dichiara la volontà del poeta di dir-si <<In verità>> (quasi si volesse partecipare al lettore una intentio confessoria), Enzo Bacca, con stile immaginifico e dalla traboccante (ma mai tautologica) materia verbale, elabora il suo dettato più che per sviluppi tematici per visioni.

Sia chiaro: l’autore introduce nel corpus testuale elementi semantici o contenutistici che rivelano la sua cognizione del reale, bene espressa in topics riconoscibili e ricorrenti di cui si dirà appresso.

Ma tali sostanzialità di pensiero ed acuta riflessione sul senso dell’essere-al-mondo, sembrano quasi provenire (almeno nella prima sezione <<L’alba da qualche parte>>, pp. 25-43) da una sorta di sostrato subliminare-onirico, che lascia emergere le trasfigurazioni inconsce d’una fertilissima visionarietà, quasi il poeta fosse preda di quel <<furore divino>> di cui allo Ione di Platone (cfr. p. 25, <<occhi trasportano bellezza sul carro degli innamorati>>; p. 31, <<Precotte divinità pascolano sugli arredi diruti>>; si noti lo sperdimento quasi delirante espresso nella lirica di p. 34, <<Fragile Eden>>, ove l’enumerazione per asindeto di cui ai primi versi e quella per polisindeto rinvenibile negli ultimi, restituiscono al lettore la condizione di colui che è én-theos,  ossia  posseduto, invaso dalla divinità ispiratrice).

Bacca sembra voler percorrere la verticalità esistenziale usque ad sidera usque ad inferos.

Nei suoi versi sono contemplati sia il livello apicale dell’anabasi (cfr. p. 25, <<lassù dove tutto si svela all’origine>>) quanto quello catabatico, carsico, abissale del <<profondo ascoso>> (cfr., ibidem).

Tra gli antipodi del <<Lassù>> (cfr. p. 25) e dell’<<In fondo>> (cfr., ibidem), che paiono evocare dimensioni ultraterrene o metafisiche, l’Autore interpone il livello umile, ancestrale e – si potrebbe dire – agreste della terra (si noti l’iterato uso dei lessemi <<humus>> (p. 26; 34; 41; 54), o appunto <<terra>> (p. 26; 27).

 La terra è, simul, alfa e omega dell’esperienza umana, origine-madre (cfr. p. 27, <<suolo verginale>>) e luogo del restituirsi (cfr. p. 26, <<Offrirò alla terra ciò che m’ha donato fertile- / il mio corpo senz’ombra>>), ma anche spazio quasi sacrale ove celebrare la <<dignità della fame / d’amare->> (cfr. p. 30) o <<Quel grano senza stagioni che fa pane l’amore>> (cfr. p. 33).

Una condizione esistenziale, quella connotata da Bacca, sempre minacciata dal <<vento-clessidra>> (cfr. p. 27, vale a dire da un tempo che, inevitabilmente, via via si riduce) e pericolata da vibranti <<stalattiti a picco sulle teste>> (cfr. p. 29) o da <<stalattite / appesa alla grondaia>> (cfr. p. 41), locuzioni che, in termini analogico-metaforici, bene traducono l’imminenza d’una possibilità-certezza di danno che, se è incerta nel quando, non lo è nell’an.

La <<parasceve annunciata>> (cfr. p. 28) cui si riferisce il Nostro, che suggerisce, in chiave confessionale o meno, la preparazione all’evento estintivo, induce il poeta ad esternare, con efficace clausola a guisa di sentenza, il suo amaro disincanto: <<Dicevano che c’era l’alba da qualche parte>> (cfr. p. 28).

Ma la consapevolezza della morte non impedisce all’Autore di manifestare gratitudine alla vita.

Alla <<malinconia della sera>> (cfr. p. 32), al <<ghigno della falce sulle spighe>> (cfr. p. 33) o all’asprezza dell’esistenza restituita mediante i correlativi dell’<<aceto nei calici, [e dei] limoni per frutta>> (cfr. p. 36), Bacca contrappone un bene-dire che tanto sembra recuperare i toni della lauda francescana o del vitalismo whitmaniano (cfr. p. 34, <<Che sia benedetta ogni cima d’acero>>), un dire-bene che principia dalla estasiata contemplazione di così <<tanta bellezza da poter morire d’incanto>> (cfr., ibidem).

E dunque, per quanto l’Autore sia conscio d’essere, come i propri simili, <<sul trapezio / in attesa della rete salvavita>> (cfr. p. 36), sembra affidare il mistero dell’esistenza ad una sorta di preghiera, ad una voce orante che pare elevarsi al divino nel tentativo di compenetrarsi in esso (cfr. p. 34, <<– io dio – / Scusami supremo se prendo il nome tuo>>; cfr. p. 35, <<Rintocchi di campana sul chiostro / nell’ora del silenzio meditativo>>).

I lessemi e/o i sintagmi mutuati dalla tradizione religiosa (cfr. p. 25, <<paradiso>>; p. 27, <<-reliquia>>; p. 28, <<reliquiari>>, <<parasceve>>; p. 29, <<sangue benedetto da Dio>>; p. 30, <<senz’acquasanta>>, <<La mia chiesa sono le macerie di ogni stagione>>, p. 57, <<breviario romano>>; p. 61, <<genuflessione (…) / a costato aperto>>, etc), quand’anche impiegati in chiave solo figurativa o intesi in accezioni che travalicano il campo semantico da cui provengono, dicono comunque della forza attrattiva che sull’Autore esercita la dimensione spirituale dell’esistenza, intendibile, quest’ultima, pure nella sua accezione più lata, come superamento della riduzione  della vicenda umana a neutro fatto materiale.

Il dire poetico di Enzo Bacca oscilla tra constatazione e domanda.

L’atto dello scrivere di cui alla lirica incipitaria della seconda sezione (<<L’ora di fronte>>, pp. 47-61), il poièin, è per l’Autore attività maieutica volta, appunto, a trarre fuori ab imo pectore il suo personale sentire (cfr. p. 47, <<scrivo – sverso viscere>>); un personale sentire che, come detto, ora prende atto (cfr. p. 48, <<Ogni mattina pezzo di vita che declina>>) ora s’interroga alla stessa stregua del pastore errante leopardiano (cfr. ibidem, <<Chi siamo, ogni giorno / nell’attimo di salpare l’àncora>>).

Il leitmotiv di tale seconda partizione – in parziale continuità con i temi della prima – è la mise en relief d’un io che si misura con la vanitas vanitatum, con il memento mori; d’una interiorità, detto diversamente, che fa esperienza – e dunque realmente patisce – il senso di vacuità che origina dalla natura transeunte e a termine dell’essere-al-mondo (cfr. p. 50, <<(…) carpire ogni mancanza ogni vuoto. / Ogni santo giorno mi fermo ad assaporare / la caducità del tempo (…)>>; p. 60, <<(…) i giorni / le stagioni corrono come leopardo>>; p. 61, <<Ogni tanto bisogna saper vivere di nulla>>; si noti altresì il recupero del topic dell’imminenza del pericolo che incombe sulla vita già espresso nella prima sezione: cfr. p. 53, <<Il mattino è sempre pieno d’insidie- (…) / Il vaso in bilico (…)>> o ancòra p. 56, <<perché ogni attimo gocciola / stalattiti nel mio antro>> ).

Altra dicotomia, altra diade che si rinviene nell’opera, oltre quella verticale alto-basso di cui s’è dato conto, è rinvenibile in quella orizzontale del dentro-fuori.

La terza sezione della silloge infatti, <<Terzo tempo>> (pp. 65-83), la prima lirica della quale è titolata <<L’antro>> (cfr. p. 65), contrappone due stili di vita: quello introspettivo ed intimistico di chi abita le proprie <<conversioni>> (cfr. ibidem) e che dunque si confronta con la propria interiorità e quello – diametralmente opposto – di chi fa della propria esistenza una passerella, di chi ostenta la sua vanità (cfr. p. 65, <<La fiera straripa di vanitas>>), di chi si preoccupa, più che di sé stesso, di apparire, di dimostrare agli altri (cfr. ibidem, <<Dimostrare: occorre dimostrare>>).

Un dentro che il Nostro indaga anche con riferimento alle clausure (cfr. p. 71, <<Quando la clausura>>) imposte dalle restrizioni di cui alla nota pandemia, la quale ha sovvertito, fino a dilatarle e confonderle, le scansioni temporali cui eravamo abituati (cfr. p. 69, <<Non fu sera né mattina, primo giorno>>, scrive il poeta, parafrasando abilmente il versetto-stilema di cui al primo libro veterotestamentario) e che ha costretto alla <<Domus>> (cfr. ibidem) all’osservanza di ciò che Bacca definisce (qui parafrasando dal passo neotestamentario di Giovanni 13,34) <<comandamento nuovo- / restate a casa coi figli col cane col fuoco>> (cfr. ibidem).

Bacca sembra dirci che lo stare dentro o nelle immediate adiacenze della casa, per quanto costrittivo ed imposto, ha indotto l’umanità a confrontarsi con sé stessa, l’ha in qualche modo esortata al recupero d’un tempo più lento, meno spasmodico e disordinato, l’ha invitata a misurarsi con la noia, qui da intendersi non tanto come malessere interiore ma come otium, come possibilità d’un facere contemplativocreativo-ludico cui non siamo più avvezzi (cfr. ibidem, <<E ditelo ai vostri figli, ai cani alle pietre  / che non ci annoiavamo nei cortili / a contare sassi, rastrellare orti, costruire archi>>).

La dimensione dello stare fuori, seppure giustamente agognata, non pare tuttavia il migliore dei mondi possibili, poiché aliena l’uomo da sé stesso (cfr. p. 71, <<Torneranno gli amori clandestini. / Torneremo alle “sane” abitudini mondane, / festini vino e shopping e carte da gioco. / Torneremo a imbottirci d’ansiolitici>>).

Con quest’opera, matura ed originale, caratterizzata da uniformità stilistica e coerenza tematica, dal linguaggio che efficacemente bilancia denotativo e connotativo, trobar leu e clus (sicché pur in presenza di scarti linguistici l’intentio del poeta è intuibile) nonché ric (dato il frequente uso di lessemi ricercati e rari), l’Autore dà prova, ancora una volta – qualora ce ne fosse bisogno – della sua magistrale perizia compositiva; perizia che muove – e non potrebbe essere altrimenti – da quell’acutezza sensoriale, da quel focus attento al dettaglio che Enzo Bacca dimostra di possedere, e che dicono d’una spiccata sensibilità che si palesa nella finezza, nell’eleganza della sua ars scribendi.

 

 

 


Enzo Bacca è nato a Squinzano (Lecce), Appassionato cultore di Belle Arti, Letteratura e Storia; illustratore, autore di testi teatrali. Ha pubblicato venticinque volumi di poesia, tra i quali ricordiamo, da ultimo, <<Affreschi dal ’68 – a cinquant’anni dal sogno>> (2018) e <<Sibilla>> (2020). Sue liriche sono inserite in oltre cento raccolte e antologie celebrative di poesia contemporanea. Si è classificato al primo posto in moltissimi concorsi nazionali ed internazionali. Collabora con il mensile <<La fonte>> con vignette satiriche e componimenti poetici d’impegno sociale ed è membro effettivo dell’UCAI di Padova.