Risonanze di Massimo Parolini | Franare verso l’alba: note a margine di Desunt nonnulla di Sandro Pecchiari

      

Desunt nonnulla – Piccole omissioni, qualcosa manca alla conta, qualcosa, pur minimo (con pennellata ironica), è stato omesso: la nuova raccolta del poeta e traduttore triestino Sandro Pecchiari (Desunt nonnulla – Piccole omissioni, Arcipelago itaca, 2020) chiarisce già dal  titolo la traccia da percorrere, per il lettore ma anche per sé stesso, attraversato dal linguaggio che si fa verso. Un’esperienza reale di ricovero ospedaliero a causa della scoperta di un “ospite inquietante” (carcinoma) diventa occasione per affilare la parola nel suo ruolo di cura, ansia e terapia. Il tentativo è quello di dare sema e fonema, significato-forma e suono, ad un’esperienza estrema che intacca il corpo, la mente, le emozioni più sottili e spirituali, ma sempre a partire dalla nietzschiana-Zarathustriana “grande ragione del corpo”, perché  “il corpo sa tutto/e scrive e separa la fine/ in una privacy di vuoto tra i paragrafi”: come a dire che la scrittura del soma non è mai completamente dicibile dal sema e dal fonema, lascia il suo spazio bianco significante e irriducibile alla parola perché esso è un vissuto d’esperienza. “In principio verbum non erat, recita un verso in Giorno uno, sezione di apertura, che rimanda sia al sentimento di fragilità e solitudine vissuta, sia al blocco afasico della parola umana che tale sentimento è chiamata a dire e custodire. E tuttavia l’uomo che scrive deve comunicare e comunicarsi, perché è animale sociale che vive del e nel linguaggio che si presenta come esperienza metafisica e fisica al contempo, acuita nel tempo eccezionale della sofferenza corporale. Giovanna Rosadini Salom, nella sua prefazione scrive “Qualche tempo prima della sua operazione […] Sandro mi aveva confidato i sopraggiunti problemi di salute e l’imminente operazione. Memore della mia esperienza di tre lustri prima, gli ho consigliato (anzi, raccomandato) subito di ‘farne qualcosa’, di trasformare quella che a tutti gli effetti si annunciava come una diminutio in un’opportunità, affidandosi alla scrittura e al suo potere taumaturgico e rigenerativo, ancor prima che terapeutico”. E il consiglio, ascoltato, si è fatto mirabile esperienza in versi.

Il poeta vive uno spaesamento di fronte ad un interno doppio persecutorio, nato da una supervitalità della mutazione cellulare, che lo attacca e minaccia internamente. E la doppiezza e ambiguità sta nell’incontro con questo “corpo non estraneo” ma appartenentegli (ecco l’annuncio ciceroniano della nascita di un figlio: “filiolo me auctum scito”), generato per “autopoiesi ermafrodita”, inquietante (unheimlich direbbe Freud) perché mutazione di qualcosa di famigliare pronto ad aggredire dall’interno in qualche imprecisa Idi di marzo (tu quoque fili mi). Spaesamento che fa esperire all’inizio la primazia dell’abbandono cristico in croce (“Lemà sabactàni”).

Vorrei ora attingere ad alcune risonanze con i versi nati dall’esperienza di Pecchiari, utilizzando come possibile dialogo interpretativo la disciplina della Psico-oncologia, nata a partire dal 1950 negli Stati Uniti, sviluppatasi negli ultimi decenni in tutto il mondo, che si  occupa nello specifico delle conseguenze psicologiche causate da un tumore.  

Domenico Arturo Nesci de “The International Institute for Psychoanalytic Research and Training of Health Professionals” (in collaborazione con alcuni colleghi) nel suo illuminante saggio Il tempo vissuto: riflessione psico-oncologiche sul pensiero di Minkowski (nella rivista semestrale Psychomedia) può darci, a mio giudizio, degli spunti di espansione interpretativa. Oncologia, etimologicamente, è un discorso (logos) sulla massa (onkos). Sul soggetto paziente, sulla persona su cui viene a cadere la diagnosi di cancro, con tutto il suo pathos (letteralmente: emozione troppo forte, incontenibile… ) si affollano immagini portatrici di un carico insostenibile”. Il malato oncologico, ricorda il prof. Nesci, regredisce “per difendersi dalla consapevolezza di vivere potenzialmente attese insostenibili: quelle dell’urto con una massa/cancro/iceberg che ci inabisserà”, non vuole “farsi pietrificare, congelare, dall’angoscia della ‘massa’ maligna” e  “si sente spaesato e senza presente, non ha un hic et nunc e non ha neppure un futuro progettabile: il suo futuro è pre-occupato da un processo occupante spazio (è così che si chiamano i tumori nel gergo oncologico… ) dall’iceberg di Minkowski”.

Ricordiamo che Eugène Minkowski (1885-1972), nato a S. Pietroburgo da genitori ebrei ortodossi lituani, naturalizzato francese, è stato uno dei massimi rappresentanti della psichiatria fenomenologica del Novecento (tra i fondatori della rivista  L’Évolution Psychiatrique), che ha sviluppato la propria teoria clinica a partire dall’incontro con i concetti di Evoluzione creatrice e Tempo soggettivo-della durata di Bergson e con la fenomenologia di Husserl. Egli ha introdotto i concetti di contatto vitale con la realtà e di tempo vissuto; ha inoltre sostenuto che la psicopatologia può essere sempre spiegata se viene tenuto conto della personale esperienza del tempo. Fra i suoi vari saggi Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia (1933) (Einaudi, Torino, 2004).

Minkowski scrive che “il fenomeno vitale che si contrappone all’attività […] non è la passività […] bensì l’attesa”, la quale “ingloba tutto l’essere vivente, sospende la sua attività e lo immobilizza, angosciato. […] L’attesa contiene in sé un fattore di arresto brutale che toglie il respiro. Si direbbe che tutto il divenire, concentrato fuori dell’individuo, si avventi su di lui come una massa possente e ostile cercando di annientarlo, come un iceberg che si erge bruscamente davanti alla prua di una nave e contro il quale essa andrà fatalmente a schiantarsi subito dopo” (cfr. Desunt: “le torri a Cattinara sono orchi/ di cemento di mille occhi armati”). “L’attesa penetra così l’individuo fino alle viscere” (Desunt: “…la maternità tremenda / del cavallo di Troia eviscerato”), “lo riempie di terrore di fronte alla massa sconosciuta e inattesa – stavo quasi per dire – che tra un attimo lo inghiottirà” (l’attesa in Pecchiari viene eviscerata con la massa asportata-abortita). “L’attesa primitiva è dunque sempre legata a un’intensa angoscia […] poiché essa è una sospensione di quell’attività che è la vita stessa. (Desunt: “le frasi in sequenza che si smorza/ controvoglia/ nell’attesa”). […] “L’attesa si avvicina così al fenomeno del dolore sensoriale” (Desunt: da mezzanotte niente acqua o cibo!/ è un mantra scarnito di calmanti/ tiranno se ci estingue nell’attesa”). […] “Nell’attività tendo verso l’avvenire, nell’attesa vivo il tempo in direzione opposta; in questo caso sento l’avvenire venire verso di me, in maniera immediata, con tutta la sua irruenza. Inoltre l’attività contiene in sé della durata […] Non è così per l’attesa. Quest’ultima, per sua stessa natura, non è che un lampo, una sospensione istantanea della vita. […] Nell’attesa, per quanto possa sembrare paradossale, io vivo l’istantaneità”. Nel blocco del futuro congelato anche la parola va selezionata e soppesata (Desunt: “la vita da ora si misura in meno/ parole da scambiare/ saranno bottino/ dopo”).  

“Potremmo ipotizzare allora”, continua Nesci,  “che i malati oncologici  siano  vittima del   ritorno del rimosso originario, quello della propria fine che, come ricorda Freud, il nostro  inconscio non riconosce (  il sognatore, come nel film Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, quando sogna il suo funerale, vi assiste solo come spettatore vivo, dall’esterno); essi sarebbero quindi “i testimoni spaesati e perturbanti di stati mentali in cui il soggetto ritrova regressivamente l’idea della propria morte e con essa l’affetto (il pathos che si accompagna alla pulsione) ad essa legato”: a tale rimozione originaria corrisponde nella raccolta la prima citazione in esergo di Pecchiari: Ho freddo, ma come se non fossi io. (Mario Benedetti, Che cos’è la Solitudine). Dopo aver ricevuta la comunicazione della diagnosi, i malati “sperimenterebbero troppo spesso il vissuto dell’attesa (le analisi di laboratorio, le terapie, i controlli successivi, l’angoscia di una sempre possibile temuta recidiva… ) col rischio di abbandonare ogni spinta naturale alla progettualità per evitare il ripetersi di nuove inevitabili attese (Desunt: “nell’afasia riarsa dell’attesa”). Per Minkovski  “Sono dunque probabilmente l’attività e l’attesa a determinare l’atteggiamento generale dell’individuo nel mondo. Quasi un tutto nell’attività che si dispiega nell’ambiente vuoto, quasi un niente nell’attesa, ridotto alla mia più semplice espressione, come sotto la minaccia di essere inghiottito dal divenire-ambiente […] è probabilmente grazie all’azione congiunta dell’attività e dell’attesa che io sono quel che sono, cioè un essere limitato, una perdita di confini, la comparsa di stati borderline transitori. Se, normalmente, l’attesa costruisce i confini del soggetto, essa li potrebbe invece destrutturare quando è troppo ripetuta (come nei percorsi clinici dell’oncologia)”.

Lo stato mentale borderline che si ripresenta transitoriamente (Nesci ricorda ad es. il rifiuto di una terapia, lo scoppio d’ira per l’atteggiamento di un familiare, l’apparente diniego di una consapevolezza di malattia generalmente già raggiunta), “a volte solo per momenti tanto brevi quanto intensi blocca il fluire del tempo vissuto, e quindi la possibilità di progettare l’esistenza, e produce l’affetto melanconico di un lutto, di una perdita assoluta. Progettare del resto deriva, etimologicamente, dalla stessa radice del termine proiettare. Quando noi progettiamo mettiamo fuori da noi, nel mondo reale, i frutti della nostra immaginazione. In questa operazione mentale c’è sempre, implicita, la dimensione del presente vissuto e del futuro vivibile, e l’immaginazione di uno spazio in cui il progetto è realizzabile. Nel malato oncologico ci troviamo di fronte ad un blocco particolare del tempo vissuto”. E infatti la seconda citazione in esergo della silloge recita: …e ho preso commiato./ commiato su commiato (Rainer Maria Rilke, Alkestis). Commiato è una richiesta di congedo e licenza dal tempo vissuto, una stasi angosciante. Ma commiato è anche permesso di partire, inizio di un viaggio (“il traghetto”) verso l’ignoto (Desunt: “andrà bene/ che sia un buon lupo/ che sia un bel viaggio/ che stiamo in bocca/ a un qualsiasi dio”) nel quale il paziente, come nel sogno del funerale, rimane fermo e in attesa di fronte alla propria partenza, assistendo alla preparazione dell’atto di salpare (“pronto il palanchino di metallo/ i flabelli di tachipirina/ un buon passo liscio di eparina/ le ciabatte offerte come offa/ cinque dita di saluto intorpidite”.) L’osservatore è solo testimone esterno (consenziente di firme) di un sonno-sogno osceno (fuori scena) che lo amputa: obscenum è il sonno con le trame sue/ fuori scena questo aizzarmi dentro/ l’espugnarmi questo figliocancro/ forgiato da anni di parole”.

Questa angoscia, che parla del blocco in tensione, del blocco del tempo vissuto, ci introduce così subito ad una prima difesa necessaria: fermare il tempo presente per evitare la catastrofe attesa (cfr. Desunt: “l’aria nutre il lupo che ci azzanna// [arrossa i fianchi della sera/ e brucia il bosco nella fuga/ forte scorzerebbe il corpo/ la falce furibonda nella corsa”])
Per Minkowski nell’attesa “il momento a venire è vissuto quasi da solo, nel suo cammino impetuoso verso l’Io, con esclusione del momento presente”.

Il lutto della progettualità, il blocco in tensione del tempo vissuto sono il fermo di un fotogramma: ecco che il poeta, dopo aver attuato il figlicidio (Giovanna Rosadini Salom parla di valenza allegorica “dell’intervento chirurgico, che viene rovesciato in una immagine di maternità capovolta e irrealizzata al maschile”) di un essere interno autoprodotto dal proprio corpo nella forma di un persecutore interno perturbante (pronto al parricidio) può esperire un altro lutto, novello Laio che fora il corpo del proprio Edipo parricida (“tu asportami da dentro –/ che accada l’immediato”) e lo abbandona, come massa cellulare da separare e rifiutare: “disgiungendo questo corpo dal suo tempo/ il tempo ripensa senza tempo/ al figlio che sfidava forte dalla carne// hoc erat corpus meum”. Perché comunque, come ci ricorda il titolo, Desunt nonnulla, qualcosa ormai manca, una mutilazione è avvenuta, l’asportazione abortita del figlio potenziale parricida non lascia indifferenti, si fa traccia, appena il tempo vissuto esce dal blocco in tensione, dal fermo immagine, e l’élan vital e il tempo-durata del soggetto-coscienza riprendono a snodarsi in tutte le direzioni, nel tempo (soggettivo) libero dal tempo (oggettivo-spaziale-dell’orologio), la coscienza ritrova i residui della propria follia cellulare superpotente, la coscienza inizia ad elaborare un secondo lutto, quello consapevole di aver attraversato un’esperienza di maternità proibita, l’unica che potesse “produrre cellule, anche se letali, in un corpo maschile” (come ci ricorda l’autore nelle note conclusive):

“non c’è posto alcuno tra le spine
niente canto estremo nelle trafitture
siamo nello straniero di due corpi
senza trovarci né almeno perderci
padrefiglio disciolti dalle lontananze
tu sei l’allarme e l’espulsione
io la spinta del sangue in diacronia.
siamo solo custodi incompatibili”

Sandro Pecchiari

E ancora: “i denti e gli occhi di un padre non amato/ di un figlio/ ormai abrogato”, “senza guerrieri senza/ figlio ormai/ salvo/ svuotato”. Nel blocco in tensione del vissuto, nel vuoto della propria solitudine puntellata,  il poeta malato nel tempo post-operatorio si aggrappa, ovviamente, a tutto ciò che sia portatore di senso ed affettività: inizia, da osservatore esterno, ad esplorare per “dissimmetrie o riverberi”  i propri tratti post-operatori dalle cose semplici, naturali, un “paesaggio bloccato dalla campana di vetro delle finestre sigillate della stanza d’ospedale”, come glossa sempre nelle note finali (“la sabbia l’acqua/ gli alberi di fronte/ spuntano il vento/ prima della voce”), gli oggetti (animici e non puramente funzionali: “gli oggetti sanno come permanere”; “la verità è un lapsus che dispiega// [da dire nel secondo prima che si spezzi/ la relazione forte tra gli oggetti/ e le persone attorno]”),  gli affetti più intimi, le altre vite, semplicemente (“e andando si uncinano infinite/ le vite degli altri/ infinite cercate viste”).  Ridà, novello Adamo, il nome alle cose (“contiamo le case e ridiamo/ nomi ai villaggi come a vidimarli/ confermiamo le colline e il mare”, “non parole ancora/ solo dopo/ la prima punta bianca/ muta sillaba/ suono/ come pane e pesce/ in questa lingua di un vincitore ignoto/ che ci fa abitare”,  memore delle rilkiane elegie II –“Guarda! Gli alberi, sono; le case,/ che noi abitiamo, esistono ancora. Noi soli/ scorriamo avanti a tutto, come aria che si rinnova”- e  IX –“Noi forse siamo qui per dire: casa,/ ponte, fontana, cancello, brocca, albero da frutto, finestra/ al massimo: colonna, torre…”- .). Rinomina le cose ma non comunica con se stesso: “se mi guardo non mi dico niente”, “mi sono alzato ma non parlo”. E sogna per vedersi ancora, nello sdoppiamento di una rimozione che si rimuove molto lentamente. Finché, finalmente, il terzo giorno, “fuori il riflesso non riconosce/ il gioco di rifare un estraneo” e il respiro (chiedendo un fatto semplice: “può lavarmi la schiena per favore?”) si fa “pulito come un mantice”. L’Ecce homo post-operatorio si riconosce come  pura pelle (“[l’avremmo detto mai/ che saremmo stati solo pelle]”), un riconoscersi che, come scrive Monica Guerra nella chiusa della sua “Lettera” omaggio conclusiva della raccolta “è la chiave per accedere a tutto il resto”.
E’ un corpo razziato più che preparato per la semina, che cerca i propri confini, ma non riesce a divinare a partire dalle proprie suture (“scoprendo che non hai/ percorso un campo arato/ che non hai appreso a divinare/ la geomanzia delle cicatrici”); è un corpo onnisciente che “sa tutto”, non dimentica, è traccia che conserva in sé la scrittura della differenza: “la punteggiatura è una staffilata/ il punto non è mai la quiete”. Come a dire che ogni incisione, ogni cicatrice, non è mai dimenticata, non è mai definitiva, si fa spazio residuale che permane nello sblocco della linea temporale. Ogni pausa nell’interpunzione contiene in sé il proprio movimento, ogni movimento del logo si nutre della propria tregua di attesa: in questa dialettica sta la dialettica del Ritmo, della Vita come della Scrittura. Una scrittura spesso fonicamente aspra e petrosa, sintatticamente e ritmicamente spezzata e sincopata, dove il lessico latino si fa staffilata, incisione, irruzione del sacro e della storia tragica, nominando corpi, carni trafitte, figli, divinità in croce.

Il corpo, questo protagonista della raccolta: “il corpo è ciò in cui, a volte, ci riduciamo. In un moto inverso del nascere, uno per volta, tutti gli altri elementi scivolano fuori per lasciare proprio al corpo, nel silenzio, l’ultima parola. Questo può sorprenderci perché, vivendoci dall’interno, spesso percepiamo il nostro corpo come sublime contenitore di un qualcosa di molto più vasto e, se in salute, non sempre teniamo in considerazione i suoi limiti terreni” (Monica Guerra, Lettera). Il corpo è mutato, è stato svuotato, eviscerato, salvato, la grande ragione del corpo ha vinto (seguendo il motto della Fenice: “Post fata resurgo”, “dopo la morte mi rialzo”; “com’è irrisorio dire di non potersi vivere/ se il corpo insiste a vincere”) : se l’unica costante, per dirla con Eraclito, sembra il mutamento del divenire (“lo sfioro dei gomiti sul letto/ manda bagliori di selce/ nell’affilare il tempo”, “il tempo irto, senza meta”), l’aristotelico numero del movimento secondo il prima e il poi (il tempo spaziale: “ricorda lo staccarsi della terra dal tallone”, “tu vali solo come movimento”, “se ti volti ti fai sale”) Pecchiari ricerca in chiusa, tuttavia, nel suo sblocco temporale del vissuto, anche un tempo ciclico, un eterno ritorno dell’identico, qualcosa che ci posi e ci pesi, dandoci stabilità: : “ci sarà stato già un giorno così / in cui hai pensato / guarda! c’è già stato un giorno così / chissà quanto tempo fa, proprio eguale, eguale / con questo stesso viluppo d’aria, / la nitidezza dell’andare”. Ma la leggerezza del passo si rivela illusione: la silloge chiude con un richiamo alla vulnerabilità del corpo accompagnato dalle punture delle mosche (“con brivido guardiamo quei riflessi/ – bluastri verdastri smossi –“), simbolo e messaggeri di decomposizione (“le mosche hanno buon gioco/ e pinzano messaggi sulla pelle”): come a dire: la vittoria del corpo è temporanea, l’omerica “razza selvaggia” ci puntella ricordandoci la nostra finitezza corporale, la sua vincibilità: qualcosa nella silloge in versi manca, è stato omesso, rispetto all’esperienza vissuta (come indica la locuzione “Desunt nonnulla” al termine della seconda sestiade dell’Epillio di Marlowe sul mito di Leandro ed Ero): qualcosa è inciso sul corpo, nella coscienza e nel vissuto, e non può dirsi, farsi verbo, parola: quel “resto [     ] occupa un mare inconoscibile/ dentro che scegliamo/ di non attraversare”.