Circles di Virginia Farina | Cinque minuti, una vita. Dialogo con Tatiana pepe intorno a a “Five minutes to sea” di Natalia Mirzoyan.

 

“Sara raccoglie il mare in un sacchetto
e lo versa sulle spalle stanche di Mosè”.

Prendetevi cinque minuti, cinque minuti soltanto. Il tempo di un caffè, di riposare un poco, il tempo di asciugare i capelli, le mani, il pavimento appena lavato. Il tempo di un piccolo gioco, delle parole rimandate da tempo, il tempo di un messaggio, di una calorosa nota vocale. Ecco, cinque minuti, solo cinque minuti, quelli da poco, quelli che portiamo in tasca come spiccioli per il bar, quelli in cui accadono cose da nulla. Eppure quelli in cui qualcuno nasce e qualcuno altro muore. In cui il cerchio si compie del tutto, e tutta la vita rimasta a lungo silente fa rivoluzione del mondo.

Il tempo di un attimo, il tempo di tutta una vita.

Sono questi i Cinque minuti che Natalia Mirzoyan, regista di “Five minutes to sea”, un cortometraggio d’animazione che con poesia e delicatezza tocca le radici della nostra anima, e che, grazie alla traduzione e al lavoro editoriale di Tatiana Pepe per Caissa Italia Editore, è diventato ora uno straordinario albo illustrato.

Per presentarlo abbiamo pensato di farci una chiacchierata, per toccare i fili che corrono dentro e intorno alle pagine. Un dialogo piccolo piccolo, ma denso. Cinque minuti soltanto.

 

“Cinque minuti”  la nostra unità di misura, un tempo che si dichiara piccolo, un tempo minimo, eppure è un tempo che può durare infinitamente, che può aprire all’immensità. Iniziamo da qui, allora, dai “cinque minuti” che possiamo prenderci per stare un po’ insieme, anche se virtualmente, nella corsa e rincorsa delle nostre vite. Diamoci “cinque minuti” alla volta per questo dialogo, per far fiorire una domanda, per intrecciare una risposta, per lasciarci riposare nell’eco di tutto quello che è possibile dire. “Soltanto cinque minuti!” o “Cinque minuti soltanto”, quante volte ce lo siamo sentiti dire? Quante volte lo abbiamo detto e pronunciato? Di cosa ci parlano i “Cinque minuti” di questo libro?

Mi piace molto questa tua definizione di “cinque minuti” come unità di misura. Sono davvero tante le volte in cui pronunciamo questa espressione nel corso delle nostre giornate, senza ormai dare più peso al tempo che questa espressione sottende. È diventata un modo con cui con gentilezza entriamo in punta di piedi nelle vite degli altri, il tempo che concediamo a noi stessi per fermarci nella corsa dei giorni o ancora quello in cui chiediamo agli altri di mettersi in attesa.

I “cinque minuti” di questo libro sono tante cose, ma se dovessi sceglierne tre ti direi che sono metafora del tempo infinito che ci separa da qualcosa che aspettiamo da tanto, lo spazio prezioso in cui l’immaginazione riesce a trasformare la realtà in un mondo fantastico in cui persino il tempo cessa di esistere e, in ultimo, l’attimo che apre all’eternità.

 

Ci sono più protagonisti di questa storia, ma gli sguardi nei quali ci immedesimiamo di più sono quelli della bambina, di cui condividiamo l’attesa, e di Mosè, che trascorre sulla riva del mare la sua ultima estate. Sono due tempi paralleli, i loro, che pure si intrecciano. Si riversano, quasi, l’uno nell’altro.

La bambina e Mosè sono i personaggi principali di questo libro e una delle pagine più belle è la tavola in cui li vediamo raffigurati di fianco, quasi a simboleggiare la parabola della vita.

Per tutta la narrazione hanno entrambi lo sguardo rivolto verso il mare. Quello della bambina ci cattura fin dalla prima pagina e ci fa quasi desiderare di fare il bagno con lei, per essere finalmente felici. 

Mosè, invece, entra in punta di piedi nella storia e il mare rimane per tutto il libro l’orizzonte lontano e ultimo del suo sguardo.

Quello che questi due personaggi vivono in maniera differente è la percezione del tempo che li separa dal mare. Se alla piccola protagonista i cinque minuti che la mamma ha chiesto di attendere per fare il bagno sembrano scorrere lenti come l’eternità (tanto che nella noia di questo tempo che non passa mai si ingegna, con un gioco di fantasia, per accelerare la vita di tutte le cose e le persone che la circondano), per Mosè quegli stessi cinque minuti sono la distanza ultima per ritrovarsi sulla riva del mare, confine temporale della sua vita terrena. 

Trovo la scelta del codice iconico delle ultime tavole (le pagine diventano il mare, la bambina nuota felice e Mosè è diventato un branco di piccoli pesci) un modo molto poetico per parlare anche ai lettori più piccoli di tematiche ineludibili come quella della morte. L’incontro con e nel mare, oggetto del nostro desiderio per tutto il racconto, sembra volerci dire che in fondo chi muore abbandona la sua forma terrena ma rimane per sempre nelle cose e nelle persone che ha amato.

 

Che bella questa tua risposta, che accompagna senza esaurire, lasciando la voglia di andare a vedere. Il tempo della bambina e il tempo del vecchio, entrambi sono tempi accompagnati dalla cura, da chi fa fermare la bambina, da chi lava la schiena stanca di Mosè… eppure l’età di mezzo, che tutto regge e che sembra essere un’età tutta femminile, sta nello sfondo. Poco o nulla vediamo di lei, se non che fa da perno al mondo…

Grazie per questa tua domanda. Non mi ero mai soffermata abbastanza su quello che i tuoi occhi hanno visto. Questo mi fa riflettere ancora una volta su quanto sia vero che l’arte, una volta consegnata al mondo, diventa del mondo. Un po’ come i figli, che da te vengono al mondo e poi appartengono al mondo e non più a te. Eppure, il momento in cui Sara bagna le spalle affaticate e stanche di Mose “raccogliendo il mare in un sacchetto” è tra le scene che fin da subito hanno toccato le mie corde emotive più profonde. All’illustrazione si intrecciano 15 parole sulle quali ho lavorato a lungo, pesandole una per una, cercando per ciascuna la posizione più giusta, nell’intento di restituire nella nostra lingua la poesia che sentivo nella scena originale. L’anziana Sara e la mamma della bambina protagonista rappresentano una forma di attenzione al nostro tempo: a quello dell’infanzia, in cui dobbiamo imparare a fidarci e affidarci, ma anche al tempo affaticato e stanco che percorriamo per raggiungere il confine che separa questa vita dall’eternità.

 

Cinque minuti è anche un esercizio delicatissimo di traduzione, di forma espressiva oltre che di lingua. Come avete lavorato al passaggio dal cortometraggio al tempo più dilatato e intimo del libro? Che tipo di scelte hai dovuto e voluto fare per i testi?

Parto dalla storia della scoperta del corto. Era un sabato mattina quando, svegliatami molto presto, in un insolito silenzio della mia casa, mi sono imbattuta in “Five minutes to sea”. Pochi minuti per ritrovarmi completamente senza fiato. L’ho guardato e riguardato perché sentivo che le corde emotive che continuava a toccare erano più di una.
Ho contattato subito Natalia Mirzoyan e le ho proposto di fare del corto un albo illustrato. La mia proposta è stata accolta dal suo grande entusiasmo, lo stesso che poi ha accolto noi due in redazione. E così per tanti mesi abbiamo lavorato alla realizzazione del libro. Assieme a Natalia abbiamo deciso quali idee e quali scene fossero più idonee all’adattamento in forma di libro. Abbiamo ad esempio deciso di dedicare la parte centrale dell’albo a un quasi silent book: otto pagine in cui la lentezza dello scorrere del tempo viene percepita soltanto attraverso un attento esercizio dello sguardo.
La traduzione del testo è stata una delle attività per me più creative. Da sempre convinta che la traduzione sia un ponte fra due culture prima che fra due lingue, ho speso moltissimo tempo con e sulle parole. Le ho pesate, una ad una, ho cercato per ciascuna il posto più adatto all’interno della frase e della pagina.
Ho scelto di essere fedele all’immaginario artistico e alla poesia, concedendomi piccoli interventi di riscrittura.

Quindi,anche tradendo, la traduzione ha una sua forma di fedeltà? Cosa significa per te essere una traduttrice?

 

“Sono una tribù strana sparsa per il mondo
perché spostano il mondo.
Portano mondi da una lingua all’altra.
Ecco il loro mestiere.
Fanno nevicare in arabo, cambiano il nome al mare,
portano cammelli in Svezia,
fanno che don Chisciotte cavalchi su Ronzinante
dalla Mancha in Manciuria.
Fanno delle cose strane, pressappoco impossibili.
Dicono nella propria lingua
cose che mai quella lingua aveva detto prima,
cose che non sapeva di poter dire.”
(Juan Vicente Piqueras)

 

Questa poesia è per me tra le più belle definizioni di cosa siano i traduttori.
E la bellezza del tradurre è tutta in quel “portare il mondo da una lingua all’altra”.
Tradurre ti insegna innanzitutto a osservarlo il mondo, ad acuire la vista ampliandone lo sguardo. Ti insegna a perdere o prendere tempo, a non accontentarti della prima suggestione, ma a cercare le parole più millimetricamente vicine all’immagine della lingua dei tuoi occhi. Ti insegna ad aspettare con pazienza che arrivi la parola giusta.
Tradurre questo testo mi ha permesso di portare il mio mondo da una lingua all’altra.

 

 

 

 

CINQUE MINUTI
Natalia-Mirzoyan,
traduzione di Tatiana Pepe
Caissa Italia editore.