Angoli di poesia di Luca Ariano | GiulianoLadolfi, La notte oscura di Maria, Puntoacapo, 2021

 

Per Puntoacapo Editrice, nella collana AltreScritture, Giuliano Ladolfi dà alle stampe la sua ultima raccolta, La notte oscura di Maria con una Prefazione di Giulio Greco e una Postfazione di Ivan Fedeli. Proprio Giulio Greco ci introduce nell’opera in questione: “Il titolo del poemetto di Giuliano Ladolfi si riferisce al testo di San Giovanni della Croce Notte oscura, in cui il mistico descrive il momento della propria esistenza quando il buio prende il sopravvento nell’esperienza umana e religiosa.” In questo poemetto emerge tutto il dolore di Maria dopo la morte di Gesù e prima della Resurrezione: ”Tu vuoi che chiuda gli occhi? / Che salga anche io sulla croce? / Forse anche Tu ti sei afflitto… […]. La figura di Maria diventa umana, incarna tutte le sofferenze di una madre che ha perduto il figlio, afflitta dai dubbi, di chi ha perso una parte di sè: “Notte oscura: / il ritirarsi delle cose, / l’abbandono di noi / stessi da noi e dal nostro passato, / e dal presente e dal futuro. […]” Numerosi sono i riferimenti ai testi sacri indispensabili per affrontare questa tematica e questi momenti come del resto lo sono anche  le influenze di Francesco D’Assisi, Teresa d’Avila, Santa Chiara di Montefalco e Madre Teresa di Calcutta. I versi di questo poemetto intenso non calano mai di tensione e ci trasportano nelle sofferenze, nelle paure e, come detto, nel dubbio di una madre in carne ed ossa: “Ma quanti dubbi… proprio non capivo / a qual disegno mi fossi affidata: / il Signore parlava… forse / non sapevo ascoltarlo o forse / soltanto mi illudevo che parlasse […]” Si percepisce, nel suo monologo, un senso di fallimento, di impotenza: “Gli occhi ormai asciutti / non scorgono che un masso / sopra un terreno in cui / è stato sepolto quel seme / che avrebbe dovuto / unire il tempo con l’eternità. […]” Questa raccolta, attraverso la vicenda di Maria, diventa un’allegoria della condizione umana, di chi si pone interrogativi dinanzi alle vicende luttuose della vita e dell’essere umano: “Se Tu, mio Dio, / sei l’amore e sei misericordia, / come diceva il mio Gesù, / non ha luogo in Te la sofferenza…” La preghiera, la Fede, unico baluardo alle brutture del mondo vengono messe a dura prova: “Non mi ha lasciato nulla, / neppure la capacità / di perdonare / come ha fatto lui.” Ivan Fedeli, nella sua postfazione, sintetizza così la poetica di Ladolfi: “Nel poemetto “La notte oscura di Maria” Ladolfi si misura con una tematica forte, quella di Maria – madre sorpresa nel momento topico del dolore, la morte del figlio. Tema difficile da trattare, certo. Il rischio è duplice: la banalizzazione da un lato, la tentazione di un’empatia eccessiva dall’altro. Ladolfi affronta il tema evitando entrambi: sul piano formale, una narrazione poetica legata al flash – back iniziale strappa, ex abrupto, il tessuto del piano temporale; l’effetto è una frammentazione del vissuto stesso di Maria, e con essa del genere umano, che evita da un lato ogni forma di preghiera catartica e, dall’altro, sospende il tempo in una serie di quadri poetici che drammatizzano e, in parte, deformano gli eventi, pur nella fedeltà del dettato storico-religioso, anche grazie ai tanti interrogativi aperti e irrisolti. Da ciò deriva un senso di spaesamento che rende il poemetto unico nel suo genere, difficilmente paragonabile alle meditazioni di un Marco Beck sulla figura mariana, a cui Ladolfi è affine per profondità di sguardo e sapienza narrativa, o alla focalizzazione sulla femminilità di Maria, come accade, ad esempio, in Daniela Raimondi.” La poesia religiosa è da sempre un “terreno minato” che ha visto nel Novecento grandi figure come Clemente Rebora e Padre David Maria Turoldo, ma Giuliano Ladolfi si cimenta in questo genere di poesia senza mai scadere nell’ovvio, nel già detto e sentito con una profondità di meditazione ed intensità di versi che rendono La notte oscura di Maria non solo un libro di poesia religiosa, ma una raccolta dove i tanti aspetti dei sentimenti dell’uomo diventano universali e anche chi non crede in Dio può riconoscersi in questi versi per riflettere sulla natura dell’uomo, sulle vicende, gli accadimenti e sulla poesia: “Sapevo: sei un Dio che frantumi / ogni attesa e ogni intelligenza, / ti vedo arreso / di fronte la malvagità umana.” Versi più che mai attuali in questo nuovo decennio, secolo, millennio.

 

 

*

 

Opachi sono i segni,

acide le lacrime,

bestemmia la parola

al cospetto del dolore del Giusto.

Il caos è tornato:

luogo e tempo si sono dispersi;

la notte regge la natura

in un frastuono immenso.

 

 

Il nulla delle cose umane

sta distruggendo l’Essere

che ha creato il mondo

e la bellezza è ciò che non esiste.

Se creo le parole,

le sento mutilate,

cacciate in esilio

come i nostri progenitori.

Sul pavimento si sparpagliano.

Chi ha distratto il Creatore da lasciare

incompiuto il cosmo?

Per questa morte l’universo

non è più la casa dell’uomo.

 

 

*

 

Giuseppe, che ti ha detto

il bambino sul tuo letto di morte?

Mi ero allontanata per raccogliere

un sorso d’acqua

e al ritorno

l’intera sofferenza era sparita.

Lo guardavi rapito e mai così felice,

nemmeno quando i sogni

ci rischiaravano il cammino.

 

*

 

Quando guardavo il bambino,

mi alzavo e coricavo

signora del Creato,

tremando nel profondo

per la cacciata

dal Paradiso.

Quale sorte è toccata

alla stirpe di Adamo?

Forse venire al mondo per patire?

Per patire l’assurdo?

Hai avuto paura d’esser solo?

Questi nostri silenzi

son lamenti strozzati

da un nulla che pervade il sangue e le ossa.

Non percepisco più

né il cielo né la terra,

ma l’immensa distesa del fluire.

 

Che cos’è questo essere anomalo

all’interno del ciclo universale?

La coscienza di un dolore eterno?

 

Mio Dio, salvami,

dal tormento di esserci,

di essere gettata in questo mondo.

 

 

*

 

Guardavo quel bambino

seduto alla mia mensa:

quali erano sogni di una madre?

Chi era? Continuava

a rimbombare dentro me

la domanda.

“Il Figlio dell’Altissimo” mi disse

il messaggero quando devastante

una Luce transumanò

il mio essere e in un attimo

mi sentii rivestita di Infinito.

Il Figlio dell’Altissimo?

il riscatto del popolo…

e il trono di Davide, suo padre?

Tomba, silenzio, angoscia,

l’abbandono con la disperazione…

 


Giuliano Ladolfi (1949), laureato in Lettere, ha diretto nove istituti di scuola superiore. È stato anche docente in otto master per l’abilitazione degli insegnanti delle scuole superiori e docente a contratto alla Scuola Interateneo di Specializzazione SIS delle università di Vercelli e di Torino in Elementi di Sociolinguistica e Dialettologia. È stato titolare di Pedagogia e Didattica di Storia dell’Arte e di Tecniche di scrittura all’Accademia delle Belle Arti di Novara. Queste le raccolte di poesia: Paura di volare. I ragazzi dell’Ottantacinque (1988), Il diario di Didone (1994), L’enigma dello specchio (1996) e Attestato (I 2005; I e II 2015, tradotto in georgia[1]no, inglese, spagnolo, francese e rumeno). Nel 1996 ha fondato la rivista di poesia, critica e letteratura «Atelier». Tra i suoi lavori ricordiamo L’opera comune, antologia di 17 poeti nati negli Anni Settanta (Atelier, 1999); l’antologia Così pregano i poeti (San Paolo, 2001; Per un’interpretazione del Decadentismo, Guido Gozzano Postmoderno e il saggio di estetica Per un nuovo umanesimo letterario (Interlinea). Del 2015 è il lavoro di saggistica La poesia del Novecento: dalla fuga alla ricerca della realtà (5 tomi). È giornalista; collabora con la pagina della cultura del quotidiano “Avvenire”. Nel 2010 con Giulio Greco ha fondato la casa editrice “Giuliano Ladolfi”. È organizzatore di numerosi convegni letterari.