A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Una profilassi quotidiana di regole sparse: brevi note a Tra i tempi tecnici, di Francesco Lorusso e Mauro Pierno (Fondo Verri, 2021)

 

Nel marzo del 2021 ha visto la luce uno smilzo libretto di poesie scritto a quattro mani da Francesco Lorusso e Mauro Pierno e pubblicato grazie al Fondo Verri di Lecce, Tra i tempi tecnici. Smilzo nella quantità di pagine ma di grandissima corposità e rilevanza perché il suo campo di indagine è il lavoro. Ora consideriamo che nella nostra vita dedichiamo molto più tempo al lavoro che alla moglie e a i figli, alle relazioni amicali, alle passioni che coltiviamo, dovrebbe quindi essere il lavoro un tema centrale nella produzione poetica di ogni autore, e invece con tutta evidenza il lavoro viene considerato un’ineluttabile tragedia, una maledizione biblica, e se ci pensiamo bene è esattamente così, e forse dovremmo darci una mossa e dire basta, trovare modalità nuove, distruggere quelle attuali che troppa sofferenza inducono;  un bellissimo saggio di Giorgio Agamben ha come titolo Il capitalismo come religione. Si tratta di cambiare religione! Lo so, non è cosa facile, eppure dovremmo provarci.  Una nota al testo ci racconta che le poesie in esso contenute sono nate in seguito a un incontro col poeta Fabio Franzin sul tema del lavoro e della creatività, e su invito del poeta Lino Angiuli e del professor Daniele Maria Pegorari.  Il valore del libro appare di interesse sociologico, perché delinea fin dai primi versi un sentimento di estraneità, di distanza:

Un lavoro comune ci straccia via la consapevolezza

gettata sulla scrivania impiallacciata dalle cartacce

e anche le ore che non vivi più con condivisione

fanno parte del tempo e di una chiacchierata perduta

in questi giorni scollati in cui fissi la notte fra le braccia

nel nuovo ruolo di aiuto digitale a fare male.

Con quale spirito e sentimento viene vissuto il tempo del lavoro? Perché gli autori parlano di “traccia di gelo che ti viene nelle vene”? Franco Berardi “Bifo” ha dedicato tutta la vita ad analizzare le problematiche relative al lavoro, ha radunato i  suoi scritti in un libro, Quarant’anni contro il lavoro, ma è soprattutto in uno degli ultimi, L’anima al lavoro, Alienazione, estraneità, autonomia, edito da Derive Approdi nel 2016, che approfondisce la nuova condizione che vive il rapporto tra lavoro e lavoratore: “…le tecnologie digitali e l’organizzazione reticolare della comunicazione si rivelarono dispositivi di cattura dell’anima. Il baricentro del processo di produzione si spostò allora verso lo sfruttamento dell’energia mentale, e l’anima fu sottomessa dalla dinamica della produzione di valore. L’anima messa al lavoro: ecco la nuova forma di alienazione. L’energia desiderante viene allora presa nella trappola dell’autoimpresa, l’investimento libidinale viene regolato secondo i principi dell’economia, viene catturata nella rete cellulare precarizzata grazie a cui ogni frammento di attività mentale deve essere trasformato in capitale.”

Che significato ha lottare per l’abolizione del lavoro? Comporta forse che non ci saranno più medici che ci cureranno? ingegneri che progetteranno? muratori che alzeranno case? No, lottare contro l’alienazione, il sentimento di estraneità che il lavoro spesso porta come corollario, è finalizzato alla liberazione del lavoro dalle sue catene, prima di tutto temporali. Significa riappropriarsi del tempo per vivere, per dedicarci a quello che ci piace e ci interessa, e quindi lavorare con responsabilità e gioia, con creatività e soddisfazione.  Ho lavorato in banca per oltre trent’anni e nel tempo l’orario di lavoro ha subito una riduzione temporale di circa cinque minuti al giorno, raggruppati in un nuovo giorno di ferie all’anno. Certo, meglio un giorno di ferie in più che un calcio in culo, è chiaro, ma si tratta di un’elemosina miserabile. Qualcuno ricorderà la canzone anarchica Se otto ore vi sembran poche, che risale ai primi del secolo passato, bene, da allora ad oggi, nonostante le clamorose e fondamentali innovazioni tecnologiche, l’orario di lavoro non ha subito sostanziali modifiche. Lo scorso anno l’amministratore delegato della Deutsche Bank annunciò che nel giro di dieci anni gli impiegati della banca sarebbero stati sostituiti da robot, chiarendo anche che oggi gli impiegati sono robot, in futuro i robot saranno gli impiegati. Si tratta di un processo in corso ormai inarrestabile e che coinvolge tutti i settori produttivi. Quanti anni ci vorranno perché i treni corrano senza macchinisti? e gli autobus senza autisti? Già oggi molte operazioni chirurgiche vengono effettuate da robot e tutta la nostra vita è destinata a cambiare. Allora che aspettiamo a operare una riduzione importante dei tempi di lavoro e a una redistribuzione dei carichi lavorativi? Leggevo anni fa in un saggio di Domenico De Masi che in Europa ci sono circa ventisette milioni di disoccupati, e che basterebbe portare la settimana lavorativa a trentadue ore per assorbirli tutti. Ecco che il verso “la sommatoria disagevole delle pratiche non evase” viene ad assumere una valenza umana oltre che sociologica, e un libro che racconta le atmosfere gelide legate alla percezione del lavoro, e registra il gelo dei panorami dei luoghi in cui il lavoro viene eseguito porta alla ribalta l’attenzione sulle discussioni che intorno al lavoro sono da approfondire. Nei paesi più evoluti è già in corso da tempo la sperimentazione della settimana lavorativa su quattro giorni, inoltre in paesi come la Danimarca le ore dedicate allo straordinario sono viste come azioni criminali perché sottraggono tempo ad attività considerate meritevoli di più impegno, come la famiglia, l’amore, lo studio, lo svago e persino il divertimento. A nessuno viene in mente che una settimana lavorativa di quattro giorni risulterebbe un enorme investimento per l’economia? Quante palestre, librerie, musei, cinema, pizzerie, ristoranti se ne gioverebbero? quanta informazione, cultura, studio scorrerebbero nella società? quanti viaggi, gite, quanta minore ansia e frustrazione sulla faccia delle persone?  Qualcosa sta cambiando nella percezione sociale se anche il Papa ha avvertito l’esigenza di proclamarsi a favore di una drastica diminuzione delle ore di lavoro e di una maggiore e più equa distribuzione tra le persone. Libri come questo inducono a nuove riflessioni e aprono a nuove consapevolezze. Tra i tempi tecnici non è un libro destinato ad ampia diffusione, non è certo finalizzato all’evasione, e anche dal punto di vista stilistico richiede attenzione, impegno, riletture, e tuttavia anche una esigua circolazione pianta i semi di nuove riflessioni e discussioni. Sul piano estetico va registrata la perfetta congiunzione tra restituzione di un’atmosfera e gelida estraneità del paesaggio circostante, sale dai versi tutto il senso di inutilità, di lontananza, tutta l’oppressione e la frustrazione che inducono a domandarsi: ma dove stiamo andando? perché?

 

 

 

Sono incisi fra i corridoi gli squadri freddi

a fare da cornice a tutte le vite imprecise

sempre piene di porte infinite e contro piani

inaccessibili e dispari verso il punto di chiusura

in quell’ora di ritorno alla tua stanchezza vera

che metti con le maglie bene ordinate nei cassetti

dentro l’angolo di luce che dall’icona impallidita

tormenta il tiepido alone della tua cucina nuova.

 

                                 ° ° ° ° °

 

Un assiduo schianto sulla poltrona docile

mentre il tempo fa il conto con il tuo corpo

e assegna un protocollo di presenza passato

a una profilassi quotidiana di regole sparse

nella carta carbone sono rimasti i segni

decifrabile della tua unzione. Lo sporco

che nella stanza gonfia asseconda l’ora,

l’unica traccia replicata e senza rumore.

 

                              ° ° ° ° ° ° °

 

Questo è lo spreco configurato negli anni

che ci fa docili sentinelle nei cassetti vuoti

una foto senza appigli di visi invisibili

dagli sguardi fissi sulle maniglie inesistenti.

 

                            ° ° ° ° ° ° ° °

 

Dal primo giorno sono fisso in questa stanza

rassicurato bene a una scrivania antiriflesso

e fermo senza sfilarmi di dosso più le scarpe

evado ansie protetto da istruzioni e sciarpe

fossile pestato di dati grafici discendenti

non colgo all’occhio il morbo che mi rende orbo.