A tentoni nel buio di Paolo Polvani | tornare a Roma – madre – è necessario; alcune domande ad Anna Cascella Luciani a proposito del suo libro “tra spighe viola pallido, 2013-2017” (Macabor editore 2022) – Prima parte
1) Nel suo libro, a partire dal titolo, il mondo vegetale costituisce una presenza costante; i fiori, per esempio, in questi bellissimi e significativi versi: “i miei amici – fiori – / amici carissimi – / infiniti percorrono / la terra – resistenti / alla disgrazia umana –“ e ancora i platani di Roma, e i pini della villa, e la spiga di lavanda, una presenza assidua che suggerisce un grande abbraccio a tutto ciò che esiste. Ci spiega le motivazioni dietro queste presenze nella sua poesia?
Erano splendidi i pini sotto la casa dove andai ad abitare con i nonni materni e le loro quattro giovani figlie – sorelle di mia madre – Menina, mia madre, a quel tempo era lontana – insegnava vicino Roma – e certo non conoscevo nei miei quattro anni d’età la parola “splendidi” ma così dovettero sembrarmi in filare doppio, ai lati della strada che ho sempre sentito indicare come “viale dei Pini”, per poi scoprire molto più tardi il vero nome cittadino – Viale Regina Margherita -.
Erano gli anni del primo dopoguerra, a Pescara – perché io, nata a Roma, fossi lì, lo si può leggere nel mio più recente libro di poesie – “tra spighe viola pallido. 2013-2017″, prefazione di Giulio Ferroni, con una testimonianza di Marco Corsi, Macabor editore 2022.
*
I primi fiori che ricordo: ancora a 4 anni di età, dopo lo sfollamento in un paese d’Abruzzo, tornata nella cittadina del mare – molte le macerie, le distruzioni, pesantemente minata dall’esercito tedesco in ritirata verso il nord d’Italia, e bombardata fortemente dai primi passaggi degli aerei Alleati, nell’agosto-settembre del ’43 -, a presentarsi per primi furono i fiori del glicine.
In una delle poesie nella plaquette a Lisabetta, raccontando al fuoco (edita dopo il libro, per il giovane progetto di “via Ozanam”, a cura dei due 27enni Ghiotti e Laviola), e che arriva da un volume a cui sto lavorando, in alcuni versi ho scritto: “[…] Tu – non schiantato / tu – sopravvissuto glicine / ai giorni rendevi la bellezza // m’insegnavano il verde / i pini del viale / unito alla tua selva / favolosa – regale – / di celeste-viola – / trascolorante in perle // colore altro la parola / del mare // /…/”. Rami, foglie, sorprendenti e rampicanti, arrivavano al terrazzo del primo piano d’un palazzetto dove il nonno aveva avuto in affitto un appartamento di molte stanze, e il parco della baronessa – padrona della casa – aveva un largo spazio ricolmo di pini – era severamente! vietato entrare nel “giardino segreto” ma con un’amichetta della casa accanto – tra quelle rimaste in piedi -, c’infilavamo in certe ore d’estate, dedite di corsa alla raccolta da terra dei tesori di pigne, e pinoli, impiastricciandoci le mani di resina e di quel liscio colore scuro dei gusci, che ci tingeva le dita, tirando fuori la rapina! dei pinoli.
Imparai molto di cosa fosse la natura, negli anni dell’infanzia.
Un po’ in fretta, poi, devo ricordare – non il tempo qui, ma lo spazio stringe -, a 4, 5, 6 anni di età, lo sfolgorio dei papaveri nei campi attorno alla cittadina, non ancora infoltiti di case, come poi accadde, in una speculazione senza progetto, se non quello che sfiancò alcune delle colline, belle forme erbose e dolci poco dopo la stretta linea di confine dalla città in piano. Un rosso stupefacente nella leggerezza dei petali sullo stelo che lievitava la corolla di grazia.
A gruppi i minimi fiori di camomilla. Il loro odore li annunciava. Il volatile colore bianco dei soffioni.
Le molte erbe… La radice di liquirizia, difficile da trovare, segreta, nascosta, bisognava riconoscerne le foglie, sapienza trasmessa da una zia in qualche camminata pomeridiana. Le erbe scoperte nel balcone all’ultimo piano del palazzetto del glicine. Le più semplici, nei vasi della signora De Cinque, e proprio però da adulta riviste negli orti botanici: erbe da cucina, unite alle medicamentose, alle odoranti. Il prezzemolo delle frittate!, delle patate lesse in insalata!, il più qualificato basilico che poi appariva nei sughi, nelle insalate di pomodoro dagli orti delle donne nelle ceste dei giorni del mercato sotto casa, il rosmarino pungente e dagli occhi azzurri, la più rara salvia, e infine le spighe della lavanda, odorata, odorosa che – nonna e una zia ventenne insegnavano -, a mazzetti, le spighe dal colore angelico, messe a seccare, e poi nei cassetti delle camicette, nell’armadio delle lenzuola di casa, e dei giovani corredi femminili. Eravamo nel ’44, nel ’45, nel ’46, nel ’47 del secolo scorso.
Così, dal morbido terreno, direi dal morbido zoccolo naturale e infantile, non fu difficile, in età diversa, in The Waste Land, farsi emozionare e sedurre dall’apparizione, dal lampo eliotiano della “hyacinth girl” – “la ragazza dei giacinti” – “You gave me hyacinths first a year ago”; / They called me the hyacinth girl” – e dalle radici sopite dei lillà che a primavera mischiavano “memory and desire”, nella fatica del muovere la terra in quel partorire, da tuberi secchi, rami, foglie, fiori di quelle piante, nel mese verticalmente definito “il mese più crudele”, un “cruellest” aprile, destinato a future migliaia di citazioni.
E la pianta di lillà l’avevo vista da bambina – i grappoli pieni e delicati dei fiori, uniti per sempre, nel nome della pianta, al loro colore – erano in un giardinetto d’una bassa casa, di fronte alla quale passavo, fermandomi ad ammirarla, ancora non sapendone il nome. Lì c’erano dei giaggioli – fiori nati dai bulbi -, lì le bellissime calle – calice bianco intenso, vellutato, pistillo giallo svettante al centro – spina dorsale -, su cui, più tardi, scrissi dei versi, poi in Tutte le poesie. 1973-2009, 2011.
Nel corso del tempo, forse, nei miei versi, i fiori – e molti ebbi poi modo di coltivarli sul “lungo balcone” di una casa di Roma – e così fu per “i semplici”, – si avvicinarono, a qualcosa che, se fossi un critico letterario, ma non lo sono -, avvicinerei a quanto poi leggemmo in T.S. Eliot, nel suo The Sacred Wood: Essays on Poetry and Criticism, il volume che pubblicò a Londra, nel 1920, quando, in uno di quei saggi, definì come “correlativo oggettivo” “una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un’emozione particolare”.
Bellezza, caducità, speranza, rinascita, morte, perdita, ritorno, giovinezza, adombramento d’amore, segni del mito, emblema di Proserpina fanciulla, la Kore che raccoglie fiori, forse sulle rive del lago di Pergusa, in Sicilia – Magna Grecia -, e, in quegli istanti, la forza di Ade, l’immortale re delle ombre, la trascina nel luogo che da lui prende nome, nel ratto la costringe, e Kore, la fanciulla, la ragazza dei fiori, la Proserpina del mito romano, muta in Persefone, sposa di Ade, regina delle ombre e lo sarà nei mesi che il mito racconta – autunnali, invernali, lontana dalla madre Demetra – per poi rifiorire fanciulla sulla terra, e questa con lei, nel ciclo che sancisce e assicura la rinascita, il ritorno, unendo metamorfosi e vita.
2) Molte delle sue poesie sono dedicate a persone che hanno attraversato la sua vita, così che nell’intera raccolta soffia il vento dell’amicizia, della vicinanza umana, dell’attenzione e della cura. Quanto hanno regalato alla sua vita queste persone?
Mi hanno regalato, alcune persone, alcune amicizie, delle poesie. A volte inviandomi un loro scatto di Roma, a volte portandomi una conchiglia dalla Grecia, altre volte inviandomi una loro poesia a cui rispondevo con dei versi. A volte scrivendomi una mail. e, in una mia poesia, poi ne citavo una frase, tra virgolette, sempre, ma seguendo una mia costruzione del verso, seguendo un mio ritmo.
Altre volte mi hanno raccontato un sogno e, quello colpendomi molto, è finito in una mia poesia. Altre volte ancora ascoltando una frase al telefono. O, dopo una loro visita, riflettendo su alcune delle frasi scambiate, o un sorriso, uno sguardo, una loro vicinanza.
A volte, in poesia, confidando, ad alcune tra loro, in certi difficili passaggi di vita, dei miei dubbi, dei tremori. O, in qualche verso, e credo sempre con molto pudore, accanto alla perdita di un loro familiare.
Le dediche che di frequente si trovano al fondo dei miei testi – più raramente sono nei titoli delle poesie – e, al fondo dei versi – desidero sempre che dediche e nomi siano spostati un poco a destra del foglio – è per me importante che sia così -, sono dunque, sì, persone – e anche poetesse, poeti – che hanno attraversato la mia vita – che ho incontrato – “ci siamo incontrati, ci siamo conosciuti, abbiamo parlato, discusso, gioito a volte su alcune cose, altre provando tristezza, dispiacere, altre volte avendo dei dissidi…”: nell’andamento della vita, dei giorni, che ha, contiene, prevede – va da sé – momenti di maggiore o minore frequenza, maggiore o minore vicinanza. E a volte ci si perde, ci si allontana, e a volte, nella mortalità di noi esseri umani, dobbiamo dire, a chi se ne va, “addio”. Ma la persona resisterà, nel ricordo, nella memoria, nell’affetto.
*
Certo le amicizie, scambievolmente, a vicenda – come tutte le umane cose – hanno dentro la possibile noce amara della delusione, ma esse sono l’arte della vita. La si impara sbagliando, la si impara provando, la si impara, appunto, vivendo.
a che punto – a che grado
è la notte? a che sisma
di sogno? in quale
epicentro risiede
la nota d’inizio del sogno?
Quale è il processo di stenti
che raschia la voglia
d’agire – che strangola
visione e esplosione
nutrendo il patire?
*
Amici, vorrei vedervi
più spesso – portate
il vento del mondo
esterno alla stanza
le vostre storie
di vita – il bene
degli anni – l’affetto
la stima la conoscenza
di anni – portate
la nuvola ottobrina
posso vederla
dal letto – ma voi
me la portate dal cielo
che è fuori –
agli amici Enzo Eric Toccaceli, Plinio Perilli, Valentina D’Urso,
Roma 2017
*
Non ho una poesia nuova
per l’autunno – una appena
scritta e che si ami.
Nella corsa dei giorni –
e di stagioni – gli arborei
dettàmi dell’artigiano
ottobre – orafo più scelto
ch’io non sia – illustra
la grazia del suo arrivo
alle maggiori ombre
che propaga il cielo –
*
segue…
Anna Cascella Luciani (Roma, 1941) ha pubblicato: Le voglie, in Nuovi poeti italiani 1 (1980), Tesoro da nulla (1990), Piccoli campi (1996), i semplici (2002), Tutte le poesie. 1973-2009 (2011), Gli amori terreni ( 2016). Ha tradotto e curato una sua scelta in Emily Dickinson. Rosso, purpureo, scarlatto (2011) e dedicato a F.S. Fitzgerald I colori di Gatsby. Lettura di Fitzgerald (1995). È del 2020 (Macabor) il volume di contributi critici per la sua poesia La luna e le sue forme.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...
07/02/2023 alle 13:26
Grazie, fortunato passare per altre essenziali vie