A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Il corpo è lui e lui è il suo corpo (note di lettura a Apprendistato alla salvezza, di Pasquale Vitagliano, Interno libri edizioni, 2022)

 

       Un buon viatico per l’attraversamento della raccolta di Pasquale Vitagliano, Apprendistato alla salvezza, è una frase contenuta nella lettera che Lino Angiuli ha inviato al poeta; la lettera funge da postfazione, ma soprattutto possiede le qualità per funzionare come istruzioni per l’uso, non solo di questa raccolta ma della poesia tutta, un suggerimento utile per districarsi in quel labirinto di parole che spesso ci si presenta come prima impressione nella lettura di un testo poetico:

       “Quando mi trovo di fronte alla poesia di un poeta, avverto sempre meno la spinta ad attraversarne le pagine con i modi e i tempi del verbo capire (vicino di casa del verbo carpire), scegliendo invece di farmi attraversare dalle parole, dalle sillabe, dai versi in modo tale da consentire loro di bussare liberamente alla mente e all’addome della mia persona. A tal fine, mi metto a leggere non solo con gli occhi ma anche con l’orecchio e con la bocca, masticando e degustando parole e suoni in cerca di un contatto fisico da cui muovere per avventurarmi in quel viaggio conoscitivo che solo la poesia può garantire, all’autore come al lettore, scavalcandone la logica e smarcandone le logiche”.

       Apprendistato è una parola che prefigura un percorso, una direzione, e soprattutto squaderna uno spazio infinitamente bianco ed esteso, con indicazioni che a prima vista ci sembrano scarne al fine di sbrogliarsi nelle prove pratiche utili a traghettare dalla fase della non conoscenza alla situazione dell’esperienza consolidata.

       Dunque si tratta di provare a tracciare una mappa per individuare un orientamento all’interno delle prassi idonee a garantire la funzionalità del percorso.

      Alla luce di questo processo il testo allora appare generoso di indizi, di suggerimenti che a tratti individuano la potenzialità di un cammino, a tratti si inabissano, ne prendono le distanze, giocano a defilarsi e ricomparire, a prendere la mano del lettore e subito sviarlo, fornirgli indicazioni contraddittorie o comunque intrise di ambiguità. – Così tutto è stato detto prima, non parla più nessuno, tutto è divenuto possibile -.

      Siamo nel cuore di una poesia in apparenza lontana da una parvenza narrativa o aggrappata a un senso, a un simulacro di direzione, ma che invece sparge semi con indicazioni multiple, traccia segni come se alimentasse un disordine e rendesse mimetico il percorso.

       Questo male mi ha reso una falce, dichiara l’autore, e finalmente nomina il corpo, che appare come la trincea, e insieme l’oggetto vocato alla salvezza e il soggetto delle operazioni finalizzate all’apprendimento, al conseguimento di quello stato finale in cui la tensione al completamento del processo apparirebbe giunta alla fase ultima. – Mi siedo come un rodin vittorioso -, (e anche più avanti l’autore utilizza il termine rothko in funzione sostantivale).

       La idealità del percorso viene evidenziata in alcuni brani dove la descrizione è intrisa in una efficace e stilizzata concettualità, Due case stanno davanti, (e il numero viene ripetuto), loro due davanti a una panchina, e sono due tralicci verticali, e lei è fosca mentre lui è muto, e la domanda, perché non parli? riecheggia una domanda già sentita, una suggestione letteraria: Parla con me. Perché non parli mai? Parla.

       Contenuta nella Terra desolata, o devastata secondo alcune nuove traduzioni. Qui non si narra più, si fanno oggetti con le parole. Dunque assistiamo a un flusso che parrebbe escludere qualunque tentazione narrativa e cercare di farsi oggetto, un oggetto fatto, impastato di parole. – È questo un evento non c’è alcuna idea dietro / Tu non dici nulla muovi appena il capo / E tutto è finito -.

       Qui il testo si carica di un forte senso di identificazione: – Di sicuro / C’è solo / Che sono vivo / Sì sudo /Ma sto bene/ Sudo senza volerlo –

   

 

   E più avanti, parlando del dolore, ci fornisce una traccia utile ai fini della salvezza, una traccia che ricorda e capovolge un concetto buddista: nel buddismo si pratica la non identificazione col dolore, al fine di superarlo, di lasciare che il dolore prenda la sua strada, qui invece è il dolore che crescendo avverte di non aver più bisogno di identificarsi con il soggetto, e si veste di questi versi:

 

Devi solo avere pazienza che lui cresca

E crescendo si accorga

Che non ha più bisogno di te e sarà lui

A lasciarti andare a lasciarti la mano

E tu non sarai più né figlio né padre sarai salvo.

 

       Molto interessante risulta il testo dove il primo verso recita: – Niente di quello che sto vedendo è vero – e il verso di chiusura: – Tu riesci finalmente a guardare la parola -. Dunque l’apprendistato alla salvezza implica questo rapporto stretto con la parola, che sebbene osservata con diffidenza, negata nelle sue funzioni salvifiche, alla fine si rivela lo strumento chiave ai fini del percorso di conoscenza che conduce alla salvezza.

       E alla prova di successive letture, quello che appariva nebuloso inizia a svelarsi e a mostrare una parvenza, una struttura che pur non prevedendo le fasi canoniche di un racconto, tuttavia procede per sprazzi, per spiragli attraverso cui individuare passi successivi, un avanzamento, un avvicinamento a qualcosa di meno indefinito. Si tratta di una poesia dalla immediata fruizione? Sicuramente no, una poesia che richiede tentativi ripetuti, riascolti successivi per entrare nella sua atmosfera, per cominciare a goderne gli esiti, per assistere a un graduale avvistamento dell’idea di salvezza.

       Rimane come un grande lago in cui affiorano il dubbio, la mancanza di certezze, e tuttavia si possono quasi toccare certi disagi che serpeggiano nella società, un diffuso malessere e un discreto abbandono alla depressione, un’atmosfera che rispecchia con indubbia fedeltà l’aria che respiriamo ogni giorno.

 

 

 

Di sicuro

 C’è solo

 Che sono vivo

 Sì sudo

 Ma sto bene

 Sudo senza volerlo

 Non riesco più a pensare

 Come sono arrivato

 A questo punto senza sudare

 Non c’è alcun calcolo

 Nei segni lasciati sulla fronte

 Non sono concetti queste gocce

 Viscerali e loquaci segnalano

 Senza alcuna intenzione apparente

 Il momento più eloquente

 Che non battezza alcuna bellezza

 Ma in silenzio pronuncia il mio nome.

 

 

°   °   °   °   °

 

 

Lui sa perché ha fatto questa scelta

 Ma il suo corpo lui credo di no

 Anche lui ha sempre pensato

 Che il corpo gli appartenga

 Che le parole gli appartengano

 Le parole sì le parole tacciono

 Restano in silenzio o le puoi volgere

 In nome e per conto d’altri

 Il corpo è lui e lui è il suo corpo

 Inderogabilmente l’uno per l’altro

 Senza procura alcuna se non che

 Il corpo non resta mai in silenzio

 Benché pronunciate continuano

 Le parole ad essere le tue anche

 Se col tuo corpo non c’entrano più

 Ormai sono fuori create e poi staccate

 Generato non creato è resta il suo corpo

 Gli piaccia o meno è lui non un altro.

 

 

°   °   °   °   °

 

 

In questa poesia non ci sono alberi

 Animali o elementi naturali

 Neppure parti del corpo e

 Neanche oggetti di uso comune

 Che pure sono quelli che preferisco usare

 In questa poesia ci sono soltanto

 settanta parole che senza aspettarsi premi

 Cercano di scrivere appena

 Ciò che la vita non riesce a dire

 Quello che dalla vita avanza

 Perché possa smaltirsi il dolore

 Per dare un senso alla salvezza.

 


Pasquale Vitagliano (Lecce, 1965) è un poeta, saggista e critico letterario. È tra gli animatori del Lit-blog Lapoesiaelospirito. Collabora con la Gazzetta del Mezzogiorno e il Manifesto. È capo-redattore della rivista Menabò delle Edizioni Terra d’ulivi. Ha pubblicato numerose opere di poesia, narrativa e saggistica. È presente nell’Atlante dei poeti Ossigeno Nascente curato dall’Università di Bologna