A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Cosa sarebbe il mondo senza le scorrerie del vento. Alcune domande ad Anna Polin sul suo Canto primitivo (Anima mundi editore, 2022)
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Tatto e luce è un binomio davvero inconsueto per un sottotitolo. Da dove nasce il titolo Canto primitivo?
Nasce dall’ascolto. Se si sta in silenzio nella natura ci si accorge che non è un silenzio zitto, c’è qualcosa a cui il corpo si accorda. La foresta ci fa immergere in una sorta di canto primitivo. Quel silenzio origina ogni parola, quindi anche la mia. E’ qualcosa che è sempre presente, ma in pochi ascoltano, si pensa subito alla risposta da dare, si perde il canto che ci abita. A volte in rare occasioni, quando si sta vicino a qualcuno senza dire nulla e senza imbarazzo, accade. Viceversa, se due esseri umani si accarezzano riconoscono subito il canto che li abita, riconoscono la vibrazione, per questo il sottotitolo parla del tatto, della sua luce.
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Ci sono alcune parole che ricorrono e giocano un ruolo importante, per esempio silenzio, con atmosfere che richiamano la quiete, ma anche vento: è metafora di mutamento? di flusso? di vitalità?
Qualche giorno fa ho dormito in un bosco senza tenda, appoggiata a un improbabile materassino. Per tutta la notte il vento ha mosso le cime degli alberi. Ho vissuto un dialogo talmente intenso con le forze della natura che non sono riuscita a chiudere gli occhi. La bellezza era talmente profonda che letteralmente gli occhi non riuscivano a chiudersi, lo stupore li teneva spalancati. Non riesco a definire il vento una metafora, lo percepisco come parte della realtà, quando il silenzio quieta la mente, il reale appare, ed è talmente vivo da superare ogni parola. I miei tentativi di riportare una bellezza così grande, sono piccoli in confronto all’esperienza.
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Nei tuoi versi affiora una gioia sotterranea, non semplicemente accennata, ma inquadrata di fronte, di lato, da varie prospettive: “c’è gioia ogni mattina sull’asfalto”; “animali madidi di gioia”; “il presentimento della gioia che ci riguarda”; che ruolo gioca la gioia nella tua raccolta?
La gioia è tutto. E’ il fondo di ogni cosa che esiste. Nello yoga tradizionale del kashmir, si dice che ogni emozione, anche la più terribile, nasce dalla gioia, emerge nel nostro sentire e si esaurisce nella gioia. Il corpo umano proviene da là, ne è la manifestazione più evidente, quando due corpi s’incontrano la creano. Ma è vero che nel nostro mondo deformato, ci sono molti offuscamenti da attraversare prima di riconoscerla. La gioia è molto semplice, non ha bisogno di ragionamenti, è immediata, talmente semplice da non essere collocabile in nessuna categoria mentale, per questo non viene riconosciuta e per questo non le diamo il permesso di inondare la nostra vita e far saltare le nostre noiose sovrastrutture.
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Si parla anche di musica, ma di una musica che non attiene soltanto alla raccolta, ma è parte della vita, vedo giusto?
Franco Fornari, un grande psicoanalista diceva: “ il significato inconscio della musica corrisponde al significato inconscio della vita.” Quindi si, vedi giusto, io non saprei dirlo meglio di Fornari.
5. Alcuni tuoi versi dicono: “Arrivi con la spesa. Hai preso il vino e l’olio nuovo. Disponi le cose con gesti millenari”. E più avanti: “Nel nome del padre / del figlio / e delle piccole cose”. Ma la tua poesia non mi sembra minimalista, è così?
Se ti riferisci a Carver e alla corrente del minimalismo, direi che non lo sono, seppure mi piaccia molto. Mi cattura ciò che gli oggetti e i fatti quotidiani raccontano, ma alla fine mi lascio prendere da quello che evocano e dimentico il fatto puro, l’oggetto. Parlo di ciò che non si vede, di ciò che c’è prima, la poesia è una sorta di passione, non puoi fare a meno di seguirla, in questo senso non riesco ad essere minimalista.
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“Le cose grandi richiedono passaggi e solitudine. Farsi fare dal mistero che fa crescere l’albero, il radicchio e il fiore.” Affascinante il mistero di cui parli, è lo stesso mistero della poesia?
Si, credo di si. Riconoscere la vita, non avere nessuna opinione sull’esistenza. Spesso bisogna isolarsi per percepirlo, far riposare le migliaia di stupidaggini che pensiamo ogni giorno. Qualche settimana fa ero vicino a un campo di frumento, quella distesa dorata pronta per essere tagliata mi ha fatto sorgere spontaneamente il desiderio di ringraziare per gli anni vissuti. Solo ringraziare, nessuna protesta per le presunte vittorie o fallimenti, ciò che mi toccava era aver potuto vivere.
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Undici istanti fedeli è il sottotitolo del capitolo Himalaya. Inoltre alcuni versi recitano: “Io non voglio fare arte, voglio essere fedele”. A quale tipo di fedeltà alludi?
La fedeltà alla vita incontaminata, a ciò che è fuori da ogni categoria, da ogni circuito letterario, da ogni possibilità di classificazione. Per restare in tema con una tua domanda precedente, m’interessa solo la fedeltà alla gioia.
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L’India ha cambiato odore. Ricorrono diversi motivi che alludono ad un influsso, oltre che ad un’esperienza, orientale, a partire dalla tazza di tè, dal concetto di vuoto, dal vapore che sale, e da altri vari indizi. Ci racconti il sostrato di questa raccolta di Canto primitivo?
L’India e in particolare alcune sue correnti filosofiche, sono ciò che mi hanno formata. Anni fa ho cominciato a prendere molto seriamente gli insegnamenti di Eric Baret, esponente di spicco dello yoga tradizionale del kashmir. Ci ho trovato una verità pragmatica, sperimentabile nella vita di tutti i giorni che non mi ha più lasciata. Ad un certo punto ho deciso di esplorare le terre in cui è nato quell’insegnamento. E’ difficile raccontare quell’esperienza, posso solo dire che nel viaggio aereo di ritorno ho passato sette ore ad ascoltare in loop un brano di Ezio Bosso. Ho pianto per tutto il tempo, un pianto irrefrenabile. Arrivata a Roma mi è venuta la curiosità di sapere il titolo della musica che stavo ascoltando, il titolo era “Roots”, radici. Arrivata a casa non sono riuscita ad uscire per tre settimane, facevo veloci fughe al supermercato e mi rintanavo. Non riconoscevo più la stretta intelaiatura che soffoca il nostro mondo occidentale e anche ora la mia vita è in corso di adattamento. I viaggi in India sono stati di sola andata, quella che era partita, al ritorno non esisteva più. Con questo non voglio idealizzare un paese complesso e altrettanto alterato, ma esistono ancora dei luoghi, delle nicchie nascoste, in cui la purezza parla, sconvolge.
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Il Kintsugi è oro sulle cicatrici. Qui si parla di dolore del mondo. Ma anche quanto di dolore personale?
Quando ho scelto la parola “Kintsugi” non era ancora molto conosciuta, ora gira sui social e ha perso molta della sua forza. Una parola pronunciata senza silenzio viene bruciata. Non credo la sceglierei ancora. Per quanto riguarda il dolore, certamente c’è un intreccio tra il mondo e me, è impossibile che non ci sia. Nella mia vita il dolore è sempre stato un suono possente, necessario. Provare dolore significa che qualcosa d’essenziale ci sta toccando e cosa c’è di più importante che la vita stessa? E’ un privilegio provare dolore, indica che non siamo più indifferenti alla vita, significa che ci vuole. Non parlo della sofferenza, che non è altro che un capriccio di un bambino. Chi soffre batte i piedi perché gli arriva una cosa diversa da quella che aveva pensato. Nel dolore non si pensa, è più profondo, si cerca di sopravvivergli e meno si resiste più la vita ci diventa cara. Il dolore è un ammaestramento dell’indifferenza, dopo averlo attraversato non si può più essere insensibili a un figlio, a un marito, a un processo creativo, a uno sconosciuto. Quello che si presenta viene riconosciuto nell’istante, l’attimo dopo scompare, qualcos’altro arriva. Il margine è rotto, tutto ci riguarda e nulla ci coinvolge davvero. Questo accade proprio perché si è ben compresa la differenza tra dolore e sofferenza, la sofferenza non è interessante, viene lasciata nelle mani del suo proprietario, non la si prende perché non ci si crede più.
La novità amore mio
è accarezzarci
come fosse l’inizio.
Le mani dicono:
“benvenuto al mondo, benvenuto.”
Percorriamo insieme
la strada di olfatto e fame,
il suo umido oro, il suo succhiare
e nell’estasi del latte
ci guardiamo negli occhi
ma troviamo solo cielo.
° ° ° ° °
Contemplo la tua grazia
tu e il vento
siete un’unica promessa
un’unione senza fine
e mentre sei qui
il pettirosso vola
con un bacio misterioso
tra le piume.
° ° ° ° °
La bellezza si sveglia ogni giorno
prima di me.
Questa mattina
aveva il battito di un tamburo
e mani di farfalla.
Io le ho detto:
“vieni, vieni,
iniziamo un nuovo giorno.”
° ° ° ° °
In ogni caso
A Mohamed arrivato per mare
Hai moncherini e spine
le più forti sono nel cuore.
Hai acqua tutt’intorno
nessun pesciolino d’argento
solo Babele e spavento.
Chiudi i tuoi occhi
cerca la madre
che ti ha intessuto il sangue.
Incanta lo spavento
con il suo nome: “mamma.”
C’è un luogo del corpo
del corpo-mondo,
che già sa
la geometria sconquassata.
Noi umani
abbiamo dimenticato
l’uragano del primo passaggio,
ma è così essere qui:
diventare minuscolo corpo
restare in vita grazie
a una carezza e poco latte.
Gli umani non ricordano,
ma la terra lo sa. Lo dice
con ogni carcassa d’animale,
germoglio, papavero e temporale.
Cosa sarebbe il mondo
senza le scorrerie del vento
e la genuflessione del grano?
Cosa sarebbe senza
cielo e mani?
Apri gli occhi bambino mio
guarda la luce in Inverno
ascolta il tuono.
07/07/2024 alle 09:30
Ci sono tanti modi e tante filosofie per dire la stessa cosa, l’unica che ha un senso, e cioe` che noi siamo Amore e tutto e` Amore. Se provo a comunicarlo io risulto noioso a causa dell’impronta troppo razionale della mia mente, grazie invece ad Anna Polin che riesce a esprimerlo con la poesia e anche con le risposte a questa avvincente intervista.