Omaggio ad Andrea Zanzotto a cento anni dalla sua nascita, a dieci dalla morte, attraverso i suoi versi. “Il logorante continuo confronto con un inizio”. Una selezione a cura di Silvia Secco. 7

 

Settimo giorno, Sabato 16 ottobre

 

Per me, nata alla fine degli anni settanta, in un tempo sospeso fra diverse generazioni (a lungo la minore in un mondo di adulti e di anziani) ed all’interno di un contesto geografico e di tradizioni anch’esso in qualche modo in bilico, sul filo fra le abitudini del nordest rurale e contadino e tutto ciò che dal loro progressivo smantellamento è venuto dopo, tanto l’uso del dialetto in poesia, madrelingua anche mia – unica lingua fino alla scolarizzazione – quanto il nome scelto a titolare la raccolta Filò di Andrea Zanzotto significano un intero microcosmo che si fa letteratura.

La pratica dei contadini di vegliare la discesa della notte insieme, nuclei familiari diversi e abitanti della stessa contrada, al riparo dall’inverno nella stalla più grande e al calore della paglia e del fiato delle bestie, anche se per poco non vissuta personalmente (nonostante io sia cresciuta assieme agli animali e grazie al lavoro contadino della mia famiglia, il quale prosegue tutt’ora) ha caratterizzato i racconti dei miei nonni e dei miei genitori al punto che questo odore e questo quieto tiepido di fiati e voci e piccoli lavori, io lo porto fra i capelli: lo continuerò a portare.

La plaquette Filò di Andrea Zanzotto viene pubblicata per la prima volta a tiratura limitata presso le Edizioni del Ruzante di Venezia nel 1976. La prefazione all’edizione Einaudi del 2012 della mia libreria (Andrea Zanzotto, Filò, per il Casanova di Fellini – con una lettera e cinque disegni di Federico Fellini) porta la firma di Giuliano Scabia e parla di un “filò (prima di tutto) fra due – Andrea e Federico. Filò filiera di parole emerse dal fiato della madre lingua”.
Il primo capo del filo è questa lettera che Fellini scrive a Zanzotto e della quale riporterò due passaggi.

Roma, luglio 1976

Caro Andrea,
… e adesso devo doppiarlo questo film che ho spericolatamente girato in inglese e tra i tanti problemi c’è anche quello del dialetto veneto. Come mi ha ricordato Naldini con attenzione tempestiva, quando gli ho manifestato i miei timori, ho pensato che avrei potuto scrivere a te per avere un aiuto nel trovare una chiave. E ti scrivo ora, un po’ esitante, perché in fondo non so bene che cosa voglio e temo di disturbarti. È una intenzione confusa, un proposito che non so fino a che punto sia realizzabile.

Ora provo a manifestartelo: vorrei tentare di rompere l’opacità, la convenzione del dialetto veneto che, come tutti i dialetti, si è raggelato in una cifra disemozionata e stucchevole, e cercare di restituirgli freschezza, renderlo più vivo, penetrante, mercuriale, accanito, magari dando la preferenza ad un veneto ruzantino o tentando un’estrosa promiscuità tra quello del Ruzante e il veneto goldoniano, o meglio riscoprendo forme arcaiche o addirittura inventando combinazioni fonetiche e linguistiche in modo che anche l’assunto verbale rifletta il riverbero della visionarietà stralunata che mi sembra di aver dato al film. (…) Mi sembra che la sonorità liquida, l’affastellarsi gorgogliante, i suoni, le sillabe, che si sciolgono in bocca, quel cantilenare dolce e rotto dei bambini in miscuglio di latte e materia disciolta, uno sciabordio addormentante, riproponga e rappresenti con suggestiva efficacia quella sorta d’iconografia subacquea del film, l’immagine placentaria, amniotica, di una Venezia decomposta e fluttuante di alghe, di muscosità, di buio muffito e umido. (…)

Zanzotto risponde con l’assoluta “maraviglia” di un tuffo nell’oro, che altro oro genera. E allora, come scrive il professor Marco Marchi nell’articolo dal titolo Zanzotto, Fellini e il ‘Casanova’. ‘Recitativo veneziano’, pubblicato il 23 aprile 2013 su Q.N., “è come se nel poeta fossero state traumaticamente rimosse, grazie a questa intrapresa collaborazione, le residue resistenze che avevano fino ad allora trattenuto la sua sperimentazione da un così completo e compatto tuffo nel dialetto. (…) Sta di fatto che, a dispetto di tanta critica zanzottiana accumulata e sempre più spregiudicatamente dotata di moderne strumentazioni, è stato un vecchio lettore di poesia spesso non molto al di sotto del grado di autorevolezza riconosciutogli come poeta, Eugenio Montale, a cogliere nel segno sulla poesia di Zanzotto, o perlomeno su di un aspetto ineludibile di essa che merita di essere riconsiderato. L’intervento è breve, a carattere recensorio (l’occasionava, nel 1968, l’uscita della Beltà), e il passaggio che più ci preme di citare recita: «Zanzotto non descrive, circonscrive, avvolge, prende, poi lascia».”

 

Da Filò (1976), Recitativo Veneziano

Oci de bissa, de basilissa,
testa de fogo che ‘l giasso inpissa.
nu te preghemo: sbrega su fora,
nu te imploremo, tutto te inplora:
móstrite sora, vien su, vien su,
tiremo tuti insieme, ti e nu –

aàh Venessia aàh Venissa aàh Venùsia

Occhi di biscia, di regina,
testa di fuoco che accende il ghiaccio,
noi ti preghiamo: erompi su, fuori,
noi t’imploriamo: tutto t’implora:
mostrati sopra, sali, sali,
tiriamo tutti insieme, tu e noi –

aàh Venezia aàh Venissa aàh Venùsia

 

***

 

O come ti cressi, o luna dei busi fondi,
o come ti nassi, cavegi blu e biondi,
nu par ti, ti par nu,
la gran marina no te sèra più,
le gran barene de ti se inlaga,
vien su, dragona de arzento, maga! –

aàh Venessia aàh Venaga aàh Venùsia

O come cresci, o luna dei baratri fondi,
o come nasci, capelli blu e biondi,
noi per te, tu per noi,
il grande mare più non ti rinserra,
le grandi barene di te si allagano,
sali, dragona d’argento, maga!

aàh Venessia aàh Venaga aàh Venùsia