Omaggio ad Andrea Zanzotto a cento anni dalla sua nascita, a dieci dalla morte, attraverso i suoi versi. “Il logorante continuo confronto con un inizio”. Una selezione a cura di Silvia Secco. 8
Ottavo giorno, Domenica 17 ottobre
Nel già citato articolo ‘Zanzotto, Fellini e il ‘Casanova’. ‘Recitativo veneziano’ (Q.N., 23 aprile 2013), leggiamo ancora: “la poesia di Zanzotto esige molto dal lettore che vi si accosti. Benché libero, geniale e tracciato da una mano sempre più smaliziata, l’arabesco zanzottiano produrrà l’effetto di avere sfondato in più punti la pagina su cui ha trovato definitivo assetto; tratto sicuro di sé e cancellature irreparabili faranno un tutt’uno, rivendicandosi tecnica volta con totale consapevolezza a circostanziare lo stupore che d’acchito si è generato a contatto con il messaggio, fra calamitante attrazione segnica, sua perentoria necessità e richiesta instante rivolta alla chiarificazione delle sue ragioni costitutive più profonde.
È così, in effetti, che Zanzotto si muove tra i materiali che affollano il suo congestionato laboratorio di poeta novecentesco fatto di sostanze semantiche e presemantiche, combinazioni grammaticali e pregrammaticali, soluzioni linguistiche e prelinguistiche, che altri – da Agosti a Bandini, da Milone a Belmonte, da Prete a Dal Bianco, solo per fare nomi affidabili – si è dato cura di inventariare e interrogare. Zanzotto è alla ricerca della pietra filosofale che gli consenta di riprodurre in versi la fabula straniante individualissima che chi scrive sta vivendo e, caso mai, di complicarla, aderendovi nel migliore dei modi: integralmente. Da questo punto di vista le considerazioni montaliane che seguono precisano bene l’operazione in atto: «Non è proprio che cerchi se stesso e nemmeno che tenti di sfuggire alla sua realtà; è piuttosto che la sua mobilità è insieme fisica e metafisica, e che l’inserimento del poeta nel mondo resta problematico e non è nemmeno desiderato». (Marco Marchi).
Sul concetto di “poesia troppo difficile”, riferita da molti alla poesia di Andrea Zanzotto, si è espresso chiaramente proprio Stefano Dal Bianco – autore anche della straordinaria introduzione all’Oscar Mondadori (Poesia del novecento) Andrea Zanzotto, tutte le poesie (2011) – nel saggio “La religio di Zanzotto tra scienza e poesia” all’interno della pubblicazione Dirti “Zanzotto”, Zanzotto e Bologna (1983 – 2011), Nem 2013, a cura di Niva Lorenzini e Francesco Carbognin.
Dal Bianco si rivolge, non senza ironia, al “lettore o non-lettore di fronda” e chiede “Hai provato a leggerlo davvero, dall’inizio alla fine?”. Poi prosegue parlando di bellezza.
Sostiene Dal Bianco che la bellezza sia prerogativa necessaria a definire un’opera di poesia: “È la vertigine che ci prende e ci fa quasi cadere dalla sedia. Il brodo di giuggiole in cui ci sciogliamo fa sì che siamo costretti a interrompere la lettura per misurarci con una dimensione altra, una specie di tunnel infinito che ci tocca in essenza e ha molto da insegnarci. È attraverso momenti simili che la poesia conserva e trasmette ciò che fu il sacro entusiasmo delle sacerdotesse del dio.” (Pag. 60).
Da Conglomerati (ultima raccolta poetica pubblicata in vita, 2009), Addio a Ligonàs
E così il purulento, il cancerese, il cannibalese
s’increspa in onda, sormonta
tutto ciò che con ogni amore e afrore di paese
doveva difenderti, Ligonàs, circondato
ormai da funebri viali di future “imprese”,
da grulle gru, sfondamenti di orizzonti
che crollano in se stessi
intorno a te.
Eri omphalos del Grande Slargo
che per decenni i più bei cammini resse,
per quel che valessero, amorosi del tuo essere
in sé e per sé.
Ora la morsa si serra
anche nella sua stessa maniacale
insicurezza di poter durare
senza il gran verbo delocalizzare.
Resta il tuo nome finalmente espresso
Sull’arca che tu fosti dopo tanta latenza:
inutile alzabandiera
in una cosca sera
che tutto copre in pece di demenza.
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