The scarlet letter di Elisabetta Sancino | Mi taglierei la gola per darti un inchiostro migliore. Nota di lettura a “La sete” di Sergio Bertolino

 

Ho recentemente letto con molto interesse “La sete” (Marco Saya Editore), seconda raccolta poetica di Sergio Bertolino, un libro enigmatico e misterioso, il cui significato profondo è celato dietro versi che al primo approccio sembrano voler depistare e scoraggiare il lettore affrettato. La pazienza, la dedizione e l’abbandono senza preconcetti al dettato lirico permettono invece di scoprire passaggi di grande suggestione e dolorosa intensità. La raccolta, inoltre, mi ha fornito alcuni spunti di riflessione sul rapporto tra poesia e arte, che trovo particolarmente affascinante.

La citazione a esergo della raccolta è tratta dal libro del profeta Amos, che predice per i disonesti e gli sfruttatori una serie di calamità naturali e una sete senza fine, non di acqua ma della parola di Dio: “allora andranno errando da un mare all’altro”, per trovare ciò che hanno perduto. E nel segno della ricerca di un significato profondo dell’esistenza si muove anche il poeta, in un continuo errare attraverso le cinque sezioni della raccolta.

“La sete” è, innanzitutto, un libro sull’acqua e sull’arsura che porta ferocemente all’acqua anche se, come scrive Bertolino, “nulla di questa febbre andrà risolto” e la pace non arriva mai “perché la pace va meritata/e io non ho fatto abbastanza”. Tutta la silloge è costellata da versi che vedono il poeta cercare di bere “le acque verdi” per tornare “alla verità della vite,/al remoto, al diverso che dà luce”, per togliersi dalla bocca “il sale dell’addio”.

Il senso di colpa che sta alla base di questa sete inestinguibile mi ha fatto pensare a quello sperimentato dai protagonisti della Rime of the Ancient Mariner di Coleridge, capolavoro del Romanticismo inglese intessuto di simboli cristologici. Nel poema, la crudele e immotivata uccisione dell’albatros da parte del vecchio marinaio avrà delle conseguenze terribili su tutto l’equipaggio: la nave resterà bloccata in mezzo a un mare torrido, sotto un cielo rosso sangue. Malgrado la presenza del mare, non c’è acqua da bere per i marinai: celebri sono i versi

Water, water, everywhere,
And all the boards did shrink;
Water, water, everywhere,
Nor any drop to drink.

L’arsura impedisce l’articolazione della parola nel vecchio marinaio, che sceglie di mordersi il braccio per poter bere qualche goccia del proprio sangue: un sacrificio simile a quello evocato da Bertolino, che in uno dei componimenti della sezione “Elementi”, scrive: “mi taglierei la gola/ per darti un inchiostro migliore”. Eppure le parole restano incastrate in gola, come chiodi, a tener desta la dolorosa consapevolezza dell’impossibilità di comunicare. La sete investe tutto l’universo: i piccioni “bevono l’ombra delle pietre” e la belva vive “in una sete di specchi”, metafora eliotiana di una Waste Land dove, malgrado il sacrificio del poeta, “in mezzo al chiostro brilla una sola fontana” e “non c’è parola che possa farsi in questa brace”.

Attraverso una scelta linguistica accurata, il poeta riesce a rendere in modo efficace un universo arroventato e asciutto, molto vicino a quello delle sculture di Arturo Martini in pietra di Finale, con la loro grana porosa e grossa, i buchi sulla superficie come piccoli crateri che implorano pioggia e il corpo che, nella scultura omonima (in mostra al Museo del Novecento di Milano), si trascina verso un’immaginaria fonte d’acqua, fiutando la terra con furia animale.

Arturo Martini, La sete, 1934. Pietra di Finale. Milano, Museo del Novecento

L’opera fa parte di un ciclo dedicato all’immagine del bevitore ed è ispirata alle figure pietrificate nell’orto dei fuggiaschi di Pompei. Sempre di Martini abbiamo la scultura in terracotta conservata alla Pinacoteca di Brera, che mostra un uomo nudo mentre beve avidamente da una ciotola, un gesto semplice e quotidiano che tuttavia assume una valenza rituale per via del modellato arcaicizzante volutamente ispirato alle statue di idoli preistorici.

Arturo Martini, Il bevitore, 1928-29. Terracotta. Milano, Pinacoteca di Brera

Perché l’acqua è vita e il bisogno di dissetarsi è un impulso primario fortissimo, legato all’istinto di sopravvivenza più ancora del cibo. Ma l’acqua è anche un elemento dai molteplici significati simbolici, da sempre sinonimo di rigenerazione, fertilità, purezza.  E’ dunque affascinante vedere come il tema sia stato efficacemente tradotto in scultura da Martini e in poesia da Bertolino, utilizzando al meglio gli strumenti che ciascuna di queste due forme d’arte mette a disposizione. Un nesso già sottolineato da Giovanna Menegus, che nella bella recensione  all’opera di Bertolino apparsa sul blog “La poesia e lo spirito” parla di “poesia come sete, o sete di poesia. Desiderio inappagato e inappagabile, risorgente sempre e nonostante tutto a fornire una prova dell’esistenza dell’anima, se non di Dio”.

In opposizione all’elemento acqua, ecco il fuoco nel quale il poeta ha la sua dimora: “sull’ara del cervello incendio labbra/di carbone. E’ lì che vivo , arcanamente”. E ancora, per citare altri riferimenti simili,  “in questa brace a cielo aperto” e “nel sonno ancora bruci”. Un universo riarso, che ci si deve lasciare alle spalle per ricongiungersi altrove in una dimensione dove la sete si plachi finalmente: “Umu, passata l’ansia dei deserti/ci vedremo al di là del mare”, dove le cose fioriscono e hanno sentore di menta e sambuco.

L’unico a danzare libero è il bambino, forse il solo in grado di articolare la parola. Eppure a tratti, con fatica, anche il poeta prova a sbrigliare la parte di sé che ancora trattiene: “so bene la fatica che mi costa/coi piedi ciondolanti a pelo dell’acqua/sfrenare i miei cavalli intorpiditi”. Ed è sempre meglio affrontare il dolore che rimanere immobili e anestetizzati alla vita: “paura, sciogli nella ressa/i tuoi cani febbrili. Voglio/sentirmi vivo”.

Il poeta attraversa la raccolta quasi sempre solo o in compagnia di un altro che, tuttavia, non attiva una reale comunicazione con lui: “tra me e te/la parola giusta si fa muro”. Ma il desiderio non si placa: “per averti, sì riaverti/sotto assedio fra gli scogli, l’ora falcata/presto ascolto alla tua sete”. Solo nel buio (buio morte? O buio come ritorno a una condizione uterina, prenatale?) “saprò dirti chi sono” ma anche in questo caso più che l’avverarsi di una vera comunione con l’altro, prevale l’aspetto del dolore: la confessione proviene da un universo franto e irto di ostacoli “tra scogli e lingue e lame e forme rotte”.

E l’incomunicabilità col mondo esterno investe anche quello animale: i piccioni “ridono di te, perché hai lo stimma del cane”, anche se da stamane il poeta ride “mortalmente/con le scimmie”, forse perché ha acquisito una consapevolezza che al resto del mondo è preclusa.

C’è solitudine e necessità di contemplare le cose da fuori (“resto l’uomo che guarda fisso il vuoto/dai ponteggi”), per “far l’amore con se stessi” e trovare finalmente “cuciti addosso/i frutti della stella”, anche se la scoperta finale coincide forse con la morte, con la resa del corpo che smette di desiderare la vita, di avere sete “il corpo ha finalmente/dichiarato il suo ritiro/Un attimo/il tempo, il tempo di saltare”.

Uno degli espedienti utilizzati da Bertolino per potersi esprimere mantenendo una distanza con il lettore è quello della maschera, che gli permette di parlare adottando il punto di vista di un personaggio dell’arte o della letteratura. Questo procedimento è visibile nella poesia di pag. 39, i cui versi iniziali sono “Impara a farti scudo con le mani”, ispirata non ad una ma a diverse opere di Artemisia Gentileschi. Ritroviamo così nuovamente il leit motiv dell’acqua, questa volta rappresentata da Zeus che, sotto forma di pioggia d’oro, cade sul grembo di Danae fecondandola (“sanno le mani/la pioggia d’oro/che ti schizza la lotta in pancia”),  e l’immagine della testa del nemico che sta per essere mozzata da una mano coraggiosa (si pensi a Giuditta e Oloferne). La pioggia e il sangue schizzato dalla testa sono entrambi simboli di una vitalità (e di un erotismo, verrebbe da dire) che vuole imporsi sulle costrizioni e sulla paura di mostrarsi per quello che si è: un dualismo, questo, che attraversa tutta la raccolta.

Artemisia Gentileschi, Danae, 1612. Olio su rame. Saint Louis Art Museum (Missouri).

Artemisia Gentileschi, Giuditta e Oloferne, 1620. Olio su tela. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Intanto, fuori dall’universo oscuro e dolente tracciato da La sete, la vita scorre con le sue gioie incomprensibili e inaccessibili al poeta, eppure così reali: “un cormorano/che medita l’attacco, ragazze in fregola/e il folclore della piazza”: “gioie disarmate e senza tempo, canti e strappi/senza pena” ma al poeta non resta che la miseria dello scriverne perché a lui non è concesso vivere appieno tutto questo.

I testi più diretti e accessibili sono, a mio avviso, quelli nei quali traspare una speranza di comunione con l’altro, come nei versi del testo “Qui nulla m’appartiene”: “però, restami accanto. Dal di fuori/potrei conoscermi, e in qualche modo amarmi”. Un auspicio, questo, che potrebbe essere l’inizio di un nuovo itinerario poetico per Bertolino, all’insegna di una poesia meno ermetica in grado di coniugare un’indubbia padronanza stilistica e lessicale con una maggior apertura verso il reale, che coinvolga un numero sempre più vasto di lettori.

 

Liberatemi. Mi dorerò

al sole che la bacia; staremo ore

a dialogare nella lingua degli uccelli.

Nata più volte, ho avuto tanti nomi

quanti amanti, e uno ad uno, nella danza,

li ha perduti. – Fino a ieri

era il mezzogiorno salutato dai balconi.

Ma all’alba sono crollati i palazzi, i ponti

e i colossi d’acciaio.

 

Resta lei a ricordarmi

con labbra azzurre di mistero

che a questo mondo non c’è vera solitudine.

*

Danzano in gola e non so

che dire, se l’intero si specchia nel nulla

e il cielo naviga al fondo…

E se il vero, infine, è morte e non c’è altro

che illumini un uomo. – Cuciti addosso

i frutti della stella (mai una mano

li ha colti, mai un morso),

senza nome che tagli

sulla banchiglia mi siedo e ti ascolto.

*

Verrà il tempo

il cerchio esatto in cui ti attendo;

e con le voci delle cose incompiute

attorno, t’accorgerai

che l’invisibile è già nostro;

ch’è giusto un attimo più avanti.

“Salterai?”

            Il corpo ha finalmente

dichiarato il suo ritiro. Un attimo,

il tempo, il tempo di saltare.

*

Prego di dar voce alla ghiandaia

in cima all’albero. – C’è sempre un fuori

che per poco mi somiglia: la pertica

che resta a galla  come un morto,

le case basse sotto il fuoco

dei vagoni.

 

Non lascia metafisica l’estate.

 


Sergio Bertolino è nato a Reggio Calabria nel 1984. Laureato in Filologia moderna presso l’Università degli Studi di Torino, è docente di Lettere, cantautore, co-fondatore e co-direttore di Avamposto. Ha pubblicato le raccolte di versi Chiave di volta (Nulla Die, 2018) e La sete (Marco Saya, 2020 – Premio Umbertide XXV Aprile 2022 e menzione d’onore al Premio Lorenzo Montano 2021). Suoi testi sono apparsi su antologie, riviste e blog letterari.