Sogni di Emanuela Rambaldi | Quindici. La folie.

 

Il sole non smette di splendere. Il cielo è ogni giorno più terso. Ci si stupisce di come l’inverno si sia arreso così in fretta e abbia regalato una primavera perfetta.

Marcel si è rivelato a tutti per quello che è, cioè Paul. Tra stupori e incantamenti, ha spiegato perché avesse nascosto il suo vero nome, cosa che Ruth ha compreso un po’ più degli altri. Di nuovo si trattava di un cappotto cammello indossato aperto, di un uomo tormentato e bellissimo, di una sensualità divampante e senza controllo. Un attore ormai indistinguibile dal suo mito, fuso con il suo personaggio, colto nello splendore di una passione mortale. Questione di rispetto, aveva detto Paul. Non si può indossare un nome così, dopo un film così.
– Materiale per il libro. Ha commentato laconico Robert, accompagnando le parole con un sorriso. Sorridere è diventata un’abitudine, da quando lavora insieme ad Hélène.

Ruth e Giselle oggi sono sole sulla terrazza. E’ quasi ora di pranzo. Il sole scalda i corpi in una maniera che evoca protezione, sicurezza.

– Nella mia vita ho visto troppe facce. Se mi fermo a guardare la gente, mi sembra di conoscere tutti.
Mi chiedevano. Di cosa hai paura? E io dicevo. Della gente. Io vedevo le persone. Le vedevo come erano veramente. Le fissavo negli occhi e vedevo le maschere cadere. E mi spaventavano a morte. Tremavo. E piangevo. Ormai non facevo nient’altro.
I genitori dei miei alunni, ad esempio, venivano ai colloqui, e io dovevo parlare dei loro figli, ma ad un certo punto mi distraevo. Perché in ognuno di loro riconoscevo le paure, i tic, le violenze, i gesti scomposti, l’egoismo.
Mi saliva la nausea. Mi girava la testa.
Avrei voluto dire. Signora, madre di Marthe, voi fate sempre una tragedia per un nonnulla, tendete all’esagerazione, esasperate i conflitti. Signore, padre di Marc, urlate continuamente perché siete nevrotico e frustrato e non riuscite a dominare la rabbia. Smettetela. Pensate a loro, salvatevi, salvateli.
Un giorno l’ho fatto. Invece di pensarlo l’ho detto. Quello, mi pare, sia stato l’inizio della fine.
L’inizio del dopo.

Lo ricordate, il mio sogno?
Come tutti i sogni appartiene a questa vita, solo che mentre dormiamo la vita ci trascina altrove.
Anni fa, in uno di quegli orribili parchi acquatici, mi ero ritrovata nella piscina che imitava l’acqua del mare. Ai margini, onde innocue si perdevano in un chiaro bagnasciuga di cemento. Una volta al largo di quel mare fittizio avevo alzato lo sguardo al cielo e al posto dell’azzurro avevo visto una cappa color indaco – spessa e tetra – e al centro – al posto del sole – una specie di lampada che emetteva una luce irreale – dai contorni frastagliati.
Ecco – il dopo è stato molte cose, durante la veglia. Ma durante il sonno io ero sempre lì – sotto quel cielo buio, finito, dove il sole era una presenza elettrica. Solo che nel mare le onde erano gigantesche, spumose e implacabili. E mi travolgevano senza rimedio.

Nel dopo, per me, hanno cominciato ad avere importanza solo le cose che per gli altri non ne avevano affatto. D’improvviso, per vivere, per affrontare le mie giornate, io avevo bisogno soltanto di ciò che non serve. Amori senza futuro, oggetti senza scopo, azioni che non costruiscono, pensieri che girano intorno a se stessi in eterno, gesti solo immaginati, che non si compiono mai.

La vita mi sembrava di un fragore insopportabile e io avevo bisogno di silenzio. Per concentrarmi.
Allora stavo dalla parte dei morti, di quelli che non avevano più voce. Con loro ero tranquilla. I miei fantasmi avevano sembianze rassicuranti. Percorrevo insieme a loro il sentiero tortuoso degli esseri inesistenti, che non avevano più bisogno di perché. La ritenevo una questione di sopravvivenza. Tutto qui.
E’ così che comincia la follia?
Qualcuno, parlando della mia mente, credendo non stessi ascoltando, ha pronunciato la parola crepata. E io mi sono vista come quelle bambole di porcellana invecchiate dal tempo, sfigurata.
Dicevano che avevo scelto. Che esisteva un confine e io l’avevo attraversato. Che ero fuggita, oltrepassando il limite. Che avevo abbandonato la normalità perché non mi sentivo più al sicuro con me stessa, e che era solo un altro modo per proteggermi, per nascondermi, per sottrarmi.
Mi ero allontanata, così dicevano.

Lo sapete, Giselle, qual è la cosa più difficile? Non è interrompere i pensieri. E’ interrompere i sogni.

Non so, forse davvero ero andata oltre quel limite. Ma anche dall’altra parte le cose non andavano meglio.
Di giorno, vedevo tutto a rovescio. Quella che gli altri chiamavano realtà, per me era totalmente irreale. Come quando non si riconosce una strada dove si è passati un milione di volte.
La notte avrei avuto bisogno di essere pesante, di essere ancorata, per evitare quel perenne peregrinare in luoghi del tutto ignoti. O almeno per cercare di annullarne il ricordo, al risveglio. Ritornare a possedere una materia, essere di nuovo sostanza. Ma i sogni non svanivano. E anche se non tornavano completamente, a volte durante il giorno ne riaffiorava uno sfilacciato ricordo. Che mi avvelenava.

Dicono che bisogna cadere per rialzarsi, perdersi per ritrovarsi. Niente di più falso. Cadere serve solo a ferirsi. E perdersi serve a non ritornare mai più. E nel frattempo, la vita passa. E finisce il tempo di avere tempo. La pelle si assottiglia, diventa fragile, ci si ferisce senza accorgersene.
Ad uno ad uno scompariamo. Certo, deve essere anche per una questione di spazio.

Lo so, Giselle, cosa vorreste dirmi.
Perché ora, Ruth, pronunciare le parole che ci hanno condotto qui, quelle che hanno fatto di noi ciò che siamo, corpi in balia di emozioni che non impareremo mai a dominare, sempre sul punto di cedere, afflosciarci al suolo, come palloni punti da un’ape sbadata.
Ruth, che importanza ha, a volta viene voglia di morire, d’inverno, e risvegliarsi a primavera, come gli orsi, e allora.
Allora sì, Giselle. Avete ragione. Andrebbe prima o poi superato il disagio di essere solo se stessi.

         

***continua***