Sogni di Emanuela Rambaldi | Quattro. Gli amori perduti 

 

La tempesta se ne era andata, ma invece di portare l’azzurro, aveva lasciato una coperta grigia, appesa, densa di nuvole contornate da ricami nerastri, che sembravano sgomitare le une con le altre sovrapponendosi in disordine per guadagnarsi un posto nel cielo sovraffollato. In questa lotta silenziosa a volte apparivano sprazzi di luce, che inducevano a sperare che le nuvole si sarebbero finalmente separate e avrebbero aperto un varco per il sole, ma era solo un attimo. Le nuvole subito si riavvicinavano, compatte, in una barriera vendicativa.
Il vento aveva lasciato la spiaggia e sulla terrazza l’aria era ferma, spessa, e silenziosa, come in pausa.

Annunciare la tragedia da parte di Giselle, così inaspettatamente, all’improvviso – tutti lo percepivano – era stato un punto di non ritorno. E dopo la rabbia della pioggia, era rimasta solo un’enorme insopprimibile vaghezza, che era caduta addosso a tutti come una specie di torpore malinconico.
Nessuno sembrava aver voglia di parlare. Le ultime parole erano sembrate parole di troppo. E non era facile superarle.

– Gli amori perduti, lì dovrebbero rimanere, nell’assenza. Non dovremmo cercare di ritrovarli. Resuscitarli, non serve a niente.
– Non è facile, quando si hanno vent’anni, Ruth. – dice Giselle.
– Non è facile neppure dopo, quando se ne hanno molti di più, di anni.
Marcel l’ha detto con una voce profonda, che non gli si addice. Ha abbandonato il suo tono spavaldo, canzonatorio. E tutti sono colti di sorpresa. Quindi continuano a tacere, a disagio.
Qualcuno pensa che non sia opportuno, uscire così dalla propria parte, senza averlo concordato. Senza aver avvertito.
Qualcuno incolpa Giselle, con la sua studiata mania di voler stupire a tutti i costi.
Qualcuno pensa che è così che succede, con le parole, ci vuole tempo. Che le parole sono come scie chimiche, che attraversano il cielo e persistono nello sguardo, prima di abbandonarlo, apparentemente intatto.
Marcel non trova ostacoli, come si sarebbe aspettato. E nel silenzio, comincia il racconto del suo sogno, che non è un sogno, ma un desiderio.
– Tutti gli anni, il giorno del mio compleanno, io ritrovo il mio amore perduto. Penso spesso a lei, mi chiedo se si ricordi di me, se si ricordi di amarmi. Ma non so neppure se sia ancora viva. E dato che alla fine l’unico pensiero sensato, reale, è quello che non la rivedrò mai più, allora, tutti gli anni, il giorno del mio compleanno, io immagino, sogno, ad occhi aperti, che per caso, un giorno, tra la folla, l’impossibile finisca per realizzarsi.
E dunque, io scopra, che sì, lei esiste ancora.
È un fatto. Per saperlo basta un secondo. Io ho lo sguardo basso, distratto, cammino, solo. Poi, senza motivo, mi fermo. Cambio strada. Torno indietro.
È grazie a questo guizzo del destino, che lei smette di essere invisibile, irraggiungibile, né viva né morta.
Sarebbe potuta passare un po’ più in là, sarebbero bastati un paio di metri. Invece, mi viene incontro. Lei, e l’uomo che le sta a fianco.
E proprio in quell’istante – in quella frazione di tempo e spazio, in quel vuoto gelatinoso – io, che cammino sempre distratto, scelgo di alzare gli occhi – e di trovare il suo sguardo.
Eccola lì. Quante volte ho creduto di riconoscerla nel volto di una sconosciuta, in tutti questi anni.
Questa potrebbe essere solo una volta in più. Continuiamo a camminare, nelle nostre opposte direzioni, come abbiamo sempre fatto, ognuno con la propria banale indolenza. Senza fretta. Passiamo oltre, l’uno all’altra.
Poi – ancora nello stesso scivoloso istante – ancora, una coincidenza da romanzo rosa, ci voltiamo, l’uno verso l’altra, e ci guardiamo, un altro interminabile istante, tanto a lungo che mi sembra che anche l’uomo si volti, credo, capelli cortissimi, portamento altero, credo.
E io, dunque, mi volto – e non so ancora perché. Sono un automa, mi volto. Un pazzo.
Cerco di essere lucido. La vedo. Cosa vedo.
Un volto di cui non possiedo neppure una fotografia, che ho smesso di saper ricordare. Un volto che scelgo di fissare di nuovo, convinto di sbagliarmi ancora, come sempre.
La fisso. Serio. Attonito. Smarrito. Non so più chi sono.
E poi – poi lei – lei risponde in silenzio alle mie domande – ricordi? – diceva – prima della parola – nella notte dei tempi, era il pensiero – così usava comunicare il genere umano – tu quindi sai – sai chi sono – l’hai sempre saputo, tutti questi anni, oggi, ancora, non hai dubbi – non ne hai mai avuti, su di me.
Sorride. Lo fa una volta, due, tre. Lo fa per sempre. Stringe un po’ gli occhi, inclina la testa di lato. È un movimento affettuoso, un vezzo, una complicità che conosco a memoria Così, adesso, anch’io so finalmente chi sono, e so chi è lei, e con lei scopro tutta intera la pena di non poter essere giovane mai più.
E quando stacco gli occhi dal suo sorriso, capita per caso che trovi una vetrina di un negozio, quindi uno specchio, e così oltre a lei vedo me stesso – e penso – mio dio – cosa siamo diventati, con queste occhiaie – e queste rughe e questa espressione acida – e questa incapacità di sorriderti. Perché questo faccio, io, non le sorrido. Così rimango vecchio per sempre, anche per lei, perché io, sono giovane solo quando sorrido.
Chissà cosa pensa, se alle richieste dell’uomo che le sta accanto risponde – nessuno – non è nessuno – o forse lui neppure chiede – perché non c’è niente da chiedere, quando non accade niente, perché è così ovvio che anche lui sappia – nessuno, questo sono – sempre, tranne per quell’istante in cui lei mi guarda e sorride.
Cosa resta di un amore – dopo tutti questi anni, niente – non resta niente, o il contrario di niente. Resta la voglia di rincorrerla – di fermarla – che questo desiderio è ancora troppo – e sarebbe abbastanza per entrambi – e non ricordo più cosa ci abbia diviso, ma so che tutto questo finirà prima o poi per travolgermi – per annientarmi.
Chissà cosa sarà ora per lei – ritrovarmi in mezzo alla folla, se anche lei vorrebbe fermarsi, o se dopo pochi passi mi avrà già dimenticato.
Chissà se le verrà voglia di cercarmi, di vedermi, di sapere cosa faccio, e dove mi ha portato la vita, e perché.
Allora le spiegherei – mentendo – che al suo sorriso non ho risposto per vendetta. Non le direi che – molto più banalmente – lo stupore ha fatto di me una statua di sale.
E alla fine, le direi, che tristezza, vedere come il tempo cambia i corpi, irrimediabilmente – come ci sfigura, e non fa lo stesso con i nostri desideri – perché?
Che tristezza – le direi – lo sguardo dei vecchi, pietra o smarrimento – perdita di sé, che tristezza – destinati a non riconoscersi mai più, senza rimedio, la mente ancorata ad un’immagine di gioventù che non ci appartiene. La nostra mente non sa invecchiare – questo è il vero problema, basterebbe questo per fare della creazione del genere umano la più grande delle truffe, nessuna intelligenza suprema – un errore, nasciamo cresciamo invecchiamo e moriamo, per un errore di quella che ci fanno credere sia un macchina perfetta, ma è solo la suprema idiozia del caso.
Le direi, sono così confuso da scambiare per segnali gli scherzi del destino, le direi che ora sono certo di non saper più sorridere – e con questo perdo tutte le giovinezze possibili.
Quante stupidaggini. – le direi. – vorrei avere ancora promesse da mantenere, e non solo nausea e amaro in bocca. Le direi – vorrei poter avere qualcosa ancora da scambiare con il destino.
E questa volta le sorriderei.

 

***continua***