Risonanze di Massimo Parolini | L’incrinatura dell’assenza: nota su “preghiere imperfette” (Moretti&Vitali, 2022) di Nadia Scappini

 

 

Preghiere imperfette - Nadia Scappini - Libro Moretti & Vitali 2022, Fabula | Libraccio.itL’etimologia della parola “religione” ci rimanda, nelle varie interpretazioni, al legare assieme, al curare, all’avere riguardo. E all’interno delle religioni, la preghiera rinvia ad un domandare, chiedere, instabile, appunto, precario, rivolgendosi ai numi, con le braccia stese verso il cielo. Ogni preghiera porta in sé, dunque, lo stigma della labilità, della impermanenza, della imperfezione: è in questa direzione che Nadia Scappini si rivolge ai lettori (altri) e all’alterità (nella propria fede personale) con la sua ultima raccolta “preghiere imperfette” (Moretti&Vitali, 2022, con una lettera di Loredana De Vita e la postfazione di Paolo Lagazzi). La silloge è suddivisa in tre sezioni: Del nostro andare, Del tempo, L’oro dei giorni: una poesia introduttiva (poesia), una prosa lirica intermedia (ricordanze campestri)  ed una poesia conclusiva (ventinove settembre del sessantasei) fanno da cornice e intarsio a 53 poesie numerate). L’esistenza nel tempo, la relazione con l’altro (che nell’ultima sezione si concretizza nella figura perno del marito) e con l’Alterità di Dio, permeano i versi dando loro un amalgama di continuità. Come ricorda Lagazzi nella sua raffinata postfazione, la tensione della preghiera presente in questa e nelle altre raccolte dell’autrice è una tensione che “si schiude a momenti epifanici, a isole di luce o a ‘fessure’ d’alto nitore ma non può mai bloccarsi in qualcosa di compiuto, di chiuso, di perfetto in senso platonico”. E ricorda, proseguendo, il saggio “Prière et poésie” dove l’abate Henri Bremond scriveva che “la poesia può avvicinarsi alla condizione della preghiera in una specie di curva asintotica ma non può mai raggiungerla se non in modo relativo e parziale”. I versi di Scappini vivono dunque in tale tensione angosciosa verso l’alterità dis-traente, divenendo una personale scrittura di un “dis-astro” esistenziale, nella direzione indicata dallo scrittore-filosofo M. Blanchot quale  fallimento di ogni sforzo di porre  sé stessi quale centro (irriducibile e separato) del mondo. E’ un andare avanti che alle spalle lascia rimpianti/ sillabe umane frante misure spaiate (1)  in una relazione sfasata fra l’esserci (l’esistere) e l’essere, distratti da un altrove la cui lontananza pare irredimibile e cede (ma continua a chiamare), uno spazio non umano che ha radici/ capovolte (14), quasi prede nascoste nel proprio nido a covare a lungo una preghiera (imperfetta) che ci cattura-converge verso il Cielo-Infinito (14). Il dis-astro,  per il filosofo E. Lévinas (“Etica e Infinito”) diviene, più che un fallimento, una possibilità di giungere a sé attraverso l’altro uomo, uscendo dalla chiusura (hegelianamente astratta) nel proprio io, tessendo tele incantando/ l’invidia le vacue astrazioni i cammini/ rigonfi di glorie improvvise […]  per fare prossima ogni lontananza levando/ sipari             inganni            frastuoni (ibid.). La distrazione si presenta talora come uno smarrimento, cifra di leggerezza e libertà, oltre la cristallizzazione di sé: mi sento di avere smarrito/          un qualcosa/ non saprei cosa né quando/ forse in un tempo remoto/ non mio ancora, forse/ per una distrazione un lapsus pungente/ una improvvisa passione venuta a storcere/ la radice resistente e persa nel buio/ senza nutrimento/ ma pronta sulla soglia a fiammare/    vibrazione fuga verso il Cielo/    voce che sanguina e sogna/ imprudente dentro i suoni/ -e mi scanso senza un perché/ come un prodigio d’aria senza peso (2). E allora bisogna usare una lingua appropriata, curvare le parole/ verso un altrove/ con la pazienza della fatica/ dentro un sonno crepato con certe fessure/ dove sbirciare qua e là nel passato/ le ombre, verso la notte bianca smemorata (3), in un processo di anamnesi in cui ogni sorso ha il sapore del ricordo (14), un sentimento di nostalgia che accade nell’infanzia di fronte alla bellezza, il desiderio di un ritorno, non so quando,/ non so dove (ricordanze campestri) che ci riporta alla caverna e fuori di essa, per tenere assieme le ombre e la realtà, senza separare il sì dal no, dando alla parola il proprio senso: l’ombra (come nei versi in esergo di P. Celan). Perché l’ombra sorprende col suo fiato sul limitare della sera, è spina che s’incarna e brucia al momento/ ma non fa male                  tace/             e ricompare quando vuole/ come a rammentare che nell’ansia di domani/ c’è una vertigine, una geometria ignota e dolorosa/ verso l’uscita necessaria   il viaggio di fuoco   / la gloria        finalmente      della luce (4). O ancora: vibro bevendo l’azzurro la luce commossa dell’aria mentre salgo/ felice e avventata su una scala che non mi sostiene: troppo alta/ è la meta la vertigine m’assale (10). Ma nella vertigine si fa esperienza, attraverso la Rivelazione di Dio-infinito dell’altro: s’è fatto breve il tempo/ tendi la rete sulla mia via/ fammi di nuovo abitare la vertigine/ dove la pazienza scivola/ in una lingua di fraterno sentire/ […]/ fammi riconoscere il plurale di cui siamo/ appena titolari (6). Distrarsi da sé è una frattura nell’essere, nella finitezza dell’io, che apre all’altro e all’infinito. Passando dal cosa (fare e pensare) al come farlo e pensarlo, dal sapere al vivere, sentire e praticare, andando oltre l’abitudinario ripetitivo, riportando alla luce pensieri e azioni rimossi, sottintesi e malintesi. È l’ingresso della libertà nella vita, la sporgenza verso l’altro, l’apertura all’etica, il modo di fare relazione, la scelta fra il bene e il male. E’ l’esperienza di un vuoto/ così pieno e leggero dove qualcosa che non sai, forse/ un mistero, ti viene a visitare.     una voce che prima/ non sapevi ti colma ti acceca esige un sì totale senza/ condizioni, pena restare asciutta   quasi neve al sole/ un pianto antico                       l’infinito come tetto (13).

Tuttavia, nell’apertura verso l’altro, non possiamo comunicare e condividere appieno la nostra esistenza, e ciò è l’esperienza, essenziale, della solitudine esistenziale e del sentimento dell’angoscia: per quanto m’impegni/ a lasciarmi condurre da luce nascosta,/ non posso (mea culpa) colmare l’amaro/ di tanto dolore (18).  Perché è solo dalla propria finitezza dolorosa che urge dentro che possiamo proiettarci verso un oltre (ricordanze campestri) che sempre ci pre-tende.  E tuttavia, lo sporgersi verso l’altro, nel suo arrischiarsi, ci fa uscire dall’impersonalità e dall’anonimato, portandoci verso l’umano, la persona, il volto interrogante dell’alterità.  E l’altro, se ha, come nell’intera terza sezione, il volto dell’amato, dell’alleato familiare di un’intera vita, si fa misura di un’appartenenza/   che ci sconfina e nello sguardo avviene la dis-tensione negli intervalli del medesimo respiro/ una dolce passività, la quiete (37). Quindi, sembra dirci la poetessa, solo nell’altro che si fa, nel tempo, compagno dell’intero transito, la tensione, pur sconfinando, si può fare “momentaneo approdo”, temporanea quiete, perché, in senso paolino, ora vediamo l’Altro come in uno specchio, a partire dall’altro che con noi, più umanamente, condivide il passaggio nell’esserci, mentre s’impasta il nostro andare (. E la distanza dall’altro di può colmare a piccoli gesti, nell’amore quotidiano, nella compassione e, soprattutto, quando si tratta dell’altro compagno di una vita, nell’atto reale del Perdono: fa’ che nella compassione smuova la nostra/ miseria il magone che affanna e strazia il respiro/ strozza la voce mentre noi, maldestri, a tentoni/ vaghiamo, separati insieme, abbaiando il dolore (17). Fra i roveti del perdono serve coraggio e tenacia/ per non scivolare e sconfinarsi nel patire solitario intransitivo/ di ogni amore (ibid). E’ necessario muoversi fra le ferite le omissioni le occasioni mancate/        le colpevoli distrazioni appendendo gli abiti della festa mai usati, superando la fame d’essere altrove/            le incrinature delle assenze/ il rimpianto di mancate esperienze (46). Perdonarsi è ritrovarsi dentro un’assenza, nell’emozione di un vuoto, di un mancamento, di un doloroso franare (47). Un vuoto, una vacuità che, oltre che nell’atto del perdono, si può colmare con piccoli gesti quotidiani che fungono da filo di sutura e ricucitura: capita che da una crepa un frantume/ una ferita in un lampo spunti una campanula/ un quadrifoglio da un impasto di fango, umili/ segni feriali        voci di felicità che scorre tra le dita/  vorrei anch’io fiorire lì dove Dio mi ha piantata (19). Bisogna spiare l’altro nei suoi riti giornalieri, come quello di aggiustarsi il nodo alla cravatta, per ritrovare l’abito feriale che ci lega, magari distraendoci da ciò che stavamo facendo, lasciando traboccare il latte con la schiuma (32), giocare a carte nelle  domeniche invernali, versarsi un sorso d’acqua (76), stanare, in vicinanza, dalla penombra il poco che conta (77). Nella necessità di starsi a fianco, anche nello zoppicare, anche urlando la fatica dello stare (69), procedere per piccoli tocchi di conferma dell’esserci per abitare/ insieme dentro al mondo perché è stare insieme/ che ci rende interi (35) pur nella consapevolezza, ricorda l’autrice qualche verso più avanti, che ci siamo necessari, lo sento/ non so se ci bastiamo (40). Bisogna, ancora, tornare fanciullini, vivere nell’ azzardato stupore (21), tornare a salire le stanze dell’infanzia dentro un alone di vivida luce (ricordanze campestri), nell’eco di una casa interiore, un nido di piccole buone cose che generano l’emozione carsica del ritorno prima che la nebbia copra/ le cose prima che l’arsura dell’oggi ricompaia (28). Nelle feritoie dell’esistere, dove colano l’angoscia e l’ansia, c’è sempre spazio per epifanie di gioia gratuita, di un pieno di felicità che trascorre, pascolianamente, breve e lieve (74). La poesia, in tutto ciò, è preghiera, pur imperfetta e precaria per definizione, di rammendo e ricucitura, lungo i margini, negli orli: una voce ineludibile/ lasciata lungamente in attesa, un balbettio felice capace di accogliere l’irreversibile e renderlo per un attimo presente, tangente all’infinito e all’oltre, di quietare il desiderio e la finitudine, di sfumare l’ombra dell’esilio (9). La parola poetica conta, canta, pesa, buca i giorni, è pietra e airone (8), è parola innamorata del creato, voce che colma il vuoto e acceca, che esige un sì totale incondizionato (13). E’ lingua lucente (37)   che dice lo sconfinamento fra luce ed ombra, fra margine e centro, fra Terra e Cielo, nella vertigine di una dialettica quotidiana. Assieme alla poesia, al piccolo e buono gesto familiare quotidiano, ci vuole, quale ulteriore benda e pomata, un tempo più lento: la nevrosi dell’essere solo mani affannate sulle cose (54), tic e ossessioni di un rito sbiadito e stanco, possono inciampare nel tempo della calura che costringe alla quiete/ altrimenti rinviata perché qualcosa c’è sempre da fare/ dentro casa e fuori (51), dentro un pensiero dove appartarsi quieti, nel ricordo di  una domenica con il pranzo lungo/ e la visita ai nonni in attesa (43), dentro una dolce passività e quiete (37). Bisogna riconoscere il senso delle soste e quello delle assenze/ delle pause necessarie a smuovere la vita/ liberarla dagli accumuli di scorie (21).

Perché se la gioia germina anche dentro il dolore (52), nessun dolore  sai è separato dall’amore (54). E’ il tempo dello sguardo in cui l’altro accade: chissà com’è cambiato il nostro/ guardare, se ancora vede/ se nudo è rimasto e cavo/ per piantarci un sogno (35). Perché talvolta, nell’incontro col volto dell’altro che si fa epifania e inciampo, accade  una “reconnaissance” (P. Ricoeur), un riconoscimento e una riconoscenza, che ci fonda e ci mantiene nel senso dell’appartenerci e del significarci: tu già mi conoscevi quando/ il tuo sguardo mi strinse sulla soglia/ […]/ era una trasparenza, veniva/ da lontano se ancora mi germoglia/ in seno da quella sera/ perfino quando mi nascondo (37). Sguardo di riconoscimento che quando non avviene genera estraneità sofferente (non “la giusta distanza” ricoeuriana fra sé e l’ altro): vorrei chiederti/ perché ti tormenti nascosto anche a te stesso/ perché quando il tuo sguardo non m’incontra/ sento franare un mondo (45).  Se lo sguardo sfugge l’incontro e si rifugia nella propria assenza (distrazione di sé),  nel proprio vuoto d’angoscia (dietro una cortina scura) o nella propria amarezza (esprimendo il proprio disagio nella relazione io-tu) produce una domanda e una frana dolorosa e, tuttavia, anche un processo di scuotimento, di confronto e parola po(e)matante, nella consapevolezza che nelle relazioni radicali in cui ci si vive dentro non siamo soli/ quello che è stato ancora e ancora ci canta dentro (46), perché succede, nell’incrociarsi, che l’altro accada in uno sguardo non voluto/  inatteso/ lì dove sentiamo la sostanza di ciò che è stato ed è (50), nella distrazione da sé (Lévinas) verso la prossimità dell’altro,  nel (per)dono e nella gratitudine dell’essersi riconosciuti.  E Loredana De Vita, nella sua personale lettera-lettura di condivisione dei versi di “preghiere imperfette”, coglie con acuta sensibilità il cuore della poetica dell’amica nell’impellenza di “rinnovare il senso dell’amore, conservando il senso romantico del legame, ma sviluppando nel contempo la capacità di confrontarsi con le realtà mutevoli di ciascuno senza fatalismi e senza disinganno”, nel dono di una raccolta in cui i versi si fanno “pane di speranza e possibilità di riconoscimento”.

 


Nadia Scappini è nativa di Bagno di Romagna e vive da vari anni a Trento. Ha insegnato discipline umanistiche nei licei di Trieste e Trento. Si occupa di promozione culturale, scrittura e critica. Attualmente cura una rubrica settimanale di poesia sul quotidiano trentino “Il T”. Presente sul sito “Italian Poetry”, ha organizzato convegni e seminari di studio su Poesia e Mito, nonché il Premio di Poesia “Città di Trento-oltre le mura” (2018). Fra le sue opere più recenti ricordiamo: “Un’ora perfetta” (poesie, Aragno, 2015), “Sonia e il poeta” (romanzo minimo, Il Vicolo, 2016), “Limone ruffiano” (saggio/narrazione, Il Vicolo, 2016), “Come dire dell’amore” (poesie, Moretti&Vitali, 2019), “Topografie interiori” (racconti, Reverdito, 2020), “La bilancia del cielo” (traduzione in inglese, tedesco, spagnolo, russo, cinese, del monologo in versi da “Sonia e il poeta”, Graphie, Il Vicolo, 2021).