Osservatorio poetico di Sonia Caporossi | Silvia Righi

 

Ø

Se fosse questo un mondo
a metà tra mondi, estratto
come un numero dalla boccia di vetro.
Se fosse, siamo
creature corrotte da qui
e altrove, l’inframondo
una possibilità senza coscienza.
L’idea è che le pareti tengano
che una spinta di dita non le crepi
eppure sento. Qualcuno fuori guarda.
Ci saranno, ci sono state, miliardi
di pareti che non tengono
di dita che spingono
di camere prima e

dopo.

*

Ø

Orfano è la radice di erede.
La trasmissione fallisce se circola
lo stesso sangue e non
il desiderio.
Lei non possiede, deve riprendere
fare originariamente suo ciò
che è stato fatto di lei dagli altri
prima.
Non avrà il mio volto lo specchio
né il padre il suo. La figlia eretica,
divisa, è l’unica
erede del desiderio.

*

Da un altro sogno ha imparato la violenza. Uomini e donne le imprigionavano la bocca con un morso da cavallo, la strapazzavano come una bambola. Alcune donne le mettono il rossetto, la pettinano e le stringono il collo. È un’orfana con padre e madre. Questa camera è molto rosa ma umida come una tana. C’è odore di corpi mischiati, di sangue, di vestiti usati per dormire. La creatura non vede mai nessuno rimanere dentro la stanza. La ragazza si fa legare con corde spesse ma, quando si sciolgono i nodi, cala un silenzio di vetro. La creatura si chiede perché, nella camera rosa, ci siano tanti oggetti di ferro.

 

 

Silvia Righi è nata nel 1995. Laureata in Lettere Moderne, vive a Milano ed è redattrice del sito MediumPoesia. Per NEM editore ha pubblicato Demi-monde, sua opera prima, con la prefazione di Tommaso Di Dio (2020).

Quella di Silvia Righi è una scrittura che sorge dall’esigenza di definire l’elemento nudo e crudele che pulsa al di sotto di uno strato epiteliale di realtà apparentemente normale, e che potrebbe correre i rischi normalmente ascrivibili al modus definitorio così abituale nelle scritture “fredde”, ma che, tuttavia, mantiene la forza tipica dello spostamento analogico, dell’indeterminatezza che apre al non detto. Si tratta di una poesia filosofica, di pensiero, che tenta l’indagine e lo scavo della condizione umana nei suoi risvolti meno confortanti, andando a parare persino nell’atrocità, la quale viene detta, però, con l’immediatezza di un dettato definitorio che la rende descrizione del mondo nella sua totalità. E la totalità è raggiunta proprio attraverso la dissezione, tagliando il mondo con l’accetta e osservandolo dall’interno: il mezzo-mondo così ottenuto, di conseguenza, riflette la natura umana nella sua interezza e ne consente la visione disincantata e scevra dalla forzatura dei buoni sentimenti a tutti i costi.